Coloro di noi che hanno lavorato come storici professionisti su quella che Nur Masalha chiamava la “Politica della Negazione”, per decenni hanno denunciato che la negazione ha accompagnato l’attuale politica israeliana di espropriazione. I due, negazione ed espropriazione, ovviamente, sono interconnessi. Chi espropria è abbastanza potente da cancellare i propri crimini dalle proprie narrazioni ufficiali e da quelle altrui. Allo stesso modo, lo sviluppo e i cambiamenti nella storiografia dei rifugiati e nelle politiche contro di loro, in particolare la negazione del loro Diritto al Ritorno, vanno di pari passo.
La
storiografia è diventata una parte importante della lotta contro la negazione
del Diritto al Ritorno dei rifugiati. All’inizio degli anni ’60, esistevano già alcuni
resoconti storici palestinesi su ciò che accadde realmente nel 1948, che
avrebbero dovuto avere un impatto enorme sulla discussione sul destino dei
rifugiati palestinesi. Questa prima storiografia indicava già la responsabilità
esclusiva di Israele nella creazione del problema dei rifugiati palestinesi.
Tuttavia, la narrazione israeliana dominava il mondo accademico e i
media occidentali, e la prospettiva palestinese era considerata “parziale” e
inaffidabile.
La prima
rappresentazione da parte dei palestinesi della massiccia espulsione avrebbe
dovuto portare a un’insistenza internazionale sul Diritto al Ritorno dei
rifugiati, non solo a causa della famosa Risoluzione ONU 194, dell’11
dicembre 1948, che ne richiedeva il ritorno, ma anche perché il nuovo
insieme di valori, che plasmò quello che sarebbe diventato il Diritto
Internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale, considerava tale diritto
sacro. La chiara Natura Criminale della massiccia espulsione, ancor prima che
fosse definita Pulizia Etnica, e il chiaro desiderio dei rifugiati di tornare
non lasciavano dubbi sulla validità giuridica del Diritto al Ritorno.
Ma questo
non si concretizzò. Ciononostante, i falliti tentativi di difendere questo
diritto rivelarono l’importanza della ricerca storica per la continua lotta per
il Diritto al Ritorno. In altre parole, non era sufficiente basarsi sulla
Risoluzione ONU, era importante spiegare come i palestinesi fossero diventati profughi.
La prima
volta che Israele prestò attenzione al legame tra la storia del 1948 e la
possibile posizione internazionale sul Diritto al Ritorno dei rifugiati fu
all’inizio degli anni ’60. Il motivo fu l’interesse piuttosto sorprendente e
inaspettato del presidente J. F. Kennedy per la questione del Diritto al
Ritorno. Kennedy stava per dare avvio a un nuovo interesse americano
per l’attuazione del Diritto al Ritorno attraverso la delegazione
statunitense alle Nazioni Unite, il che causò allarme in Israele, in
particolare presso l’ufficio del primo ministro David Ben-Gurion. Ben-Gurion
credeva che il governo statunitense sarebbe stato dissuaso dal prendere
qualsiasi iniziativa se fosse stato a conoscenza della versione storica
“corretta” delle modalità con cui i palestinesi erano diventati profughi.
A tal fine,
Ben-Gurion si rivolse alle istituzioni orientaliste in Israele e offrì loro la
documentazione, frutto di ricerche commissionate, volta a dimostrare che nel
1948 i rifugiati avevano lasciato volontariamente la Palestina. Un centro di
ricerca dell’Università di Tel Aviv assegnò alla missione un giovane studioso,
Ronni Gabay, ma le sue conclusioni delusero il primo ministro. Sulla base dei
documenti a cui aveva accesso, concluse che la maggior parte dei
rifugiati era stata espropriata principalmente con la forza. Deluso,
Ben-Gurion chiese che un altro studioso esaminasse il materiale. Trovarono
qualcuno che capiva cosa ci si aspettava da lui: ovvero che affermasse che,
sulla base dei documenti, i rifugiati erano partiti volontariamente per ordine
dei loro leader e dei Paesi arabi confinanti. Prima che l’iniziativa di Kennedy
potesse concretizzarsi, tuttavia, fu sventata dal suo assassinio. Fino ad oggi,
nessuno dei suoi successori ha perseguito questa politica. Negli anni ’60 e
’70, il Centro di Ricerca dell’OLP di Beirut, nelle sue varie sedi e
pubblicazioni, e in seguito l’Istituto per gli studi sulla Palestina,
continuarono a produrre ricerche e lavori che fornirono conoscenze e
documentazione cruciali che dimostravano i tentativi fatti dalle Nazioni Unite
di ribadire la responsabilità dell’organizzazione nella difesa del Diritto al
Ritorno dei palestinesi, data la sua posizione sulla Palestina nel 1947.
Questo
progresso nella comprensione storiografica delle origini del problema dei
rifugiati palestinesi, e la consapevolezza che la politica di eliminazione è
stata perpetuata sul campo da Israele da allora, portarono a quello che
all’epoca sembrò un cambiamento molto significativo nella posizione e nell’impegno
delle Nazioni Unite per il Diritto al Ritorno. Il risultato fu l’istituzione
del Comitato per l’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese
(CEIRPP). Ricevette il mandato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con
la Risoluzione 3376 il 10 novembre 1975. (Questo comitato diede avvio alla
“Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese”, che si
tiene ogni anno il 29 novembre).
Un altro
organismo importante fu un’unità speciale per i diritti dei palestinesi, creata
dall’Assemblea Generale nel 1977. Questa unità in particolare agì anche in
veste accademica. Si concentrò sulla preparazione di studi e pubblicazioni
relative al Diritto al Ritorno e divenne la “Divisione per i Diritti dei
Palestinesi” nel 1979. Il suo lavoro, almeno nell’ambito delle Nazioni Unite,
mantenne viva la questione dei rifugiati durante il secolo scorso. Ma l’ONU
perse la sua indipendenza già all’inizio degli anni Novanta (quando, ad
esempio, gli Stati Uniti riuscirono ad annullare, nel 1991, la famosa
risoluzione del 1975 che equiparava il Sionismo al razzismo).
All’inizio
degli anni Ottanta, personalità come Edward Said, Ibrahim
Abu Lughod e Walid Khalidi, tra gli altri, continuarono a
produrre lavori accademici e solidi che fornirono le prove necessarie
sulle circostanze che portarono alla nascita del problema dei rifugiati
palestinesi nel 1948.
Il loro
lavoro fu accentuato da un nuovo fenomeno storiografico noto come “la nuova
storia di Israele”. Un piccolo gruppo di storici israeliani professionisti,
sfruttando la declassificazione del materiale d’archivio del 1948, suffragò,
sulla base di questo patrimonio, le principali affermazioni dei palestinesi
sulla nascita del problema dei rifugiati, ovvero che esso fosse il risultato di
espulsioni di massa e del rifiuto di qualsiasi rimpatrio.
Molti
studiosi palestinesi sono rimasti sgomenti, e a ragione, dal fatto che solo
con la pubblicazione della revisione storiografica israeliana si sia
manifestata la volontà di ascoltare una narrazione che contrastasse quella
inventata da Israele. Tuttavia, quando le vittime di un crimine dichiarano
di aver subito un torto, i tribunali non sono sempre inclini a crederci; solo
quando i criminali ammettono il crimine il verdetto è chiaro. O, per dirla in
altri termini, i palestinesi non avevano bisogno di prove di essere vittime di
espulsione intenzionale, ma il mondo sì.
La
storiografia della Nakba è diventata ancora più completa quando queste opere
sono state integrate da un rinnovato e vigoroso interesse per la storia orale,
soprattutto da parte di giovani studiosi palestinesi.
La
ricomparsa negli anni ’90 del Modello Coloniale d’Insediamento, che
gli studiosi palestinesi avevano già proposto a metà degli anni ’60, ha
aggiunto un nuovo livello alla storiografia della Nakba e all’analisi delle
motivazioni alla base dell’espropriazione dei palestinesi. Hanno lasciato
intendere che ciò avrebbe dovuto avere un impatto sulla decisione politica
riguardante il loro futuro.
La
caratteristica più importante associata al Progetto Coloniale di
Insediamento è la logica dell’eliminazione dei nativi. Ciò ha permesso alla
ricerca di includere tutti i rifugiati, compresa l’élite che partì nel gennaio
del 1948, desiderosa di rimanere fuori fino alla fine dei combattimenti, ma a
cui non fu permesso di tornare, diventando così vittima della politica
eliminatrice.
In altre
parole, il lavoro accademico sui rifugiati, la loro storia e la realtà
contemporanea è cresciuto sia in quantità che in qualità. Eppure, anche in
senso inverso, politicamente la questione dei rifugiati è costantemente
scivolata in secondo piano, persino nel discorso dell’Autorità Nazionale
Palestinese, e sicuramente in ciò che restava dello sforzo diplomatico globale
per “risolvere” il “conflitto”.
L’impegno
che unisce il lavoro accademico all’attivismo per il Diritto al Ritorno deve
proseguire, nonostante la sua incapacità finora di influenzare l’agenda
politica dall’alto in Occidente. Ci sono due aree in cui questo sforzo congiunto
può essere ampliato. Un primo obiettivo è quello di basarci sul ricco lavoro
accademico che già possediamo e di trasmetterlo al grande pubblico
attraverso film, teatro, mostre e
altri media simili. Questi luoghi e piattaforme, fisici o virtuali, sono luoghi
importanti per ricordare alle persone il Diritto al Ritorno e per immaginare
come verrà attuato. Abbiamo già alcuni esempi eccellenti, ma ce ne vogliono di
più nei mass media.
Il secondo
obiettivo è quello di proseguire il lavoro accademico con una chiara
motivazione morale, in modo che sia rilevante sia per analizzare
criticamente l’assenza del Diritto al Ritorno dagli sforzi diplomatici finora
compiuti, sia, soprattutto, per capire come possa essere attuato in futuro. Ciò
richiede un mix di acume accademico e immaginazione. Abbiamo già ottimi esempi
in questo senso: l’incredibile lavoro di Salman Abu Sitta sull’attuazione del
Diritto al Ritorno; quello di ONG palestinesi locali come Udna, che ha
realizzato modelli 3D di villaggi ricostruiti; e il lavoro di ONG israeliane
come Zochrot, che ha avviato un progetto chiamato “Immaginare il Ritorno”. Ma
abbiamo bisogno di più, anche se, comprensibilmente, gran parte delle nostre energie
oggi è concentrata sul Genocidio a Gaza e sulla Pulizia Etnica in Cisgiordania.
Infine, se
il Piano trumpiano sulla Pulizia Etnica dei palestinesi a Gaza dovesse
continuare, o se dovesse continuare a essere ampiamente utilizzato dai politici
israeliani, non dovrebbe essere semplicemente negato; sarebbe utile
sottolineare che l’unica alternativa possibile che la popolazione di
Gaza stessa dovrebbe considerare è se il 70% di loro, proveniente dalla
Palestina del ’48, sarebbe disposto a tornare alle proprie case d’origine in
quello che oggi è Israele. Questo ci ricorda quanto sia rilevante il
Diritto al Ritorno per il futuro della Palestina e quanto lavoro ci sia ancora
da fare per preparare un piano concreto su come attuarlo.
Ilan Pappé è
professore all’Università di Exeter. In precedenza è stato docente di scienze
politiche presso l’Università di Haifa. È autore del recente Lobbying for
Zionism on Both Sides of the Atlantic (Lobbisti per il Sionismo su entrambi i
Lati dell’Atlantico) di The Physical Cleansing of Palestine, The Modern Middle
East (La Pulizia Etnica della Palestina, il Medio Oriente Moderno); Una storia
della Palestina moderna: una terra, due popoli (Una Storia Della Palestina
Moderna: Una Terra, Due Popoli) e Dieci miti su Israele (Dieci Miti su
Israele). Pappé è descritto come uno dei “Nuovi storici” israeliani che, dal
rilascio dei pertinenti documenti del governo britannico e israeliano
all’inizio degli anni ’80, hanno riscritto la storia della creazione di Israele
nel 1948.
Traduzione:
La Zona Grigia
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