Un errore gravissimo. In pochi giorni il governo Meloni cambia il reclutamento universitario: ma nettamente in peggio. Viene soppressa l’abilitazione scientifica
In pochi giorni, il governo Meloni cambia il volto del reclutamento
universitario: nettamente in peggio. Viene soppressa l’Abilitazione scientifica
nazionale, con cui si veniva dichiarati idonei alle due fasce della docenza. Di
quel sistema orribile, si butta via il (pur sempre possibile) vaglio di merito,
per tenere proprio il peggio, e cioè l’aspetto brutalmente quantitativo. Ora ci
sarà una autocertificazione (sic!) in cui ciascun candidato dichiarerà di avere
i requisiti minimi per partecipare ai concorsi locali: pura quantità, non
importa cosa ci sia scritto, chi se ne frega. Manca solo la richiesta di
allegare lo scontrino della bilancia con la pesatura della carta delle
pubblicazioni. Dopodiché, scattano i concorsi locali, con un membro interno e
gli altri estratti a sorte. In nome della responsabilizzazione delle singole
università, si ha il coraggio di affermare. Ma quale università può essere
onestamente ritenuta responsabile di decisioni prese da sorteggiati di altri
atenei? E cosa diavolo c’entra il sorteggio con il merito, e appunto con
l’assunzione di una responsabilità? Ma i vincitori saranno valutati ogni due
anni, si incalza. Valutati, ancora una volta a peso: un tanto al chilo.
Ottenendo solo di moltiplicare la mole di ricerche inutili, finte, dannose, in
un delirio di iper-produzione che nulla ha a che fare con la qualità, o anche
solo con la decenza. Il cottimo della ricerca.
Come se non bastasse, ecco anche la riforma del pre-ruolo, approvata con un
blitz grazie ad un emendamento al Pnrr, in totale spregio della dignità del
lavoro parlamentare e accompagnata da una campagna che diceva volutamente il
falso, presentandola come una provvidenziale misura per attrarre giovani. È
esattamente il contrario: essa mira a sterilizzare l’unica forma dignitosa
prevista dall’ordinamento attuale (e difesa dalla Commissione Europea come
architrave del Pnrr applicato alla ricerca), il contratto di ricerca. E lo fa
introducendo figure a minor tutela e maggior tasso di schiavismo accademico:
l’incarico post-doc, un rapporto di lavoro a tempo determinato a cui vengono
attribuiti anche compiti didattici (perché la didattica universitaria italiana
si regge quasi per metà sulle spalle dei precari: una enorme vergogna), e l’incarico
di ricerca, un cococo senza alcuna garanzia. Il risultato è che si potrà
rimanere precari fino, e oltre, ai 40 anni, espellendo le donne dal sistema e
favorendo un diffuso ossequio al potere e al sapere stabiliti in accademia. È
esattamente il contrario di ciò che serviva: il contratto di ricerca, e i soldi
per farne moltissimi.
L’Italia investe pochissimo sull’università (meno dell’1% del pil contro
una media Ocse del 1,5), ha un personale docente vecchio (la maggioranza ha più
di 50 anni) con un ferreo dominio maschile, e non riesce a diventare di massa
(26,8 % di laureati nella fascia 25-34 anni, contro il 41,6 della media UE). In
compenso, regala laureati e talenti a tutto il mondo, con una crescita costante
della fuga dei laureati (il 43% degli emigrati italiani di fascia 18-34 ha una
laurea; secondo la Fondazione Nordest, “nella media del biennio 2021-22, il
valore annuo del capitale umano uscito con i giovani è stato di 8,4 miliardi a
prezzi del 2023”). In questa situazione, l’unica riforma veramente necessaria
sarebbe portare il finanziamento del sistema universitario almeno in media
Ocse, cioè aumentarlo del 50%: che è l’unica cosa che dovrebbe chiedere la
Conferenza dei rettori, la quale invece esprime, iddio la perdoni, “piena
soddisfazione” per questa irricevibile porcheria. In Costituente, Concetto
Marchesi si diceva felice che dopo secoli di leva delle armi, la Repubblica
(che “promuove … la ricerca scientifica e tecnica”, art. 9 Cost.) iniziasse
finalmente la leva delle intelligenze. Oggi è evidente che siamo al totale
ribaltamento del progetto: si investe in armi, non in cervelli. Unica nota
positiva, questa volta le opposizioni (il Pd, con gli ottimi Verducci e
D’Attore, i Cinque Stelle e Avs) sono state chiare e forti, dicendo cose che
(si spera) le obbligherebbero a fare bene, se mai tornassero al governo.
Invece, l’entusiastica, imbarazzante, benedizione della Conferenza dei rettori,
del presidente dell’Accademia dei Lincei, della senatrice a vita Elena
Cattaneo, di ex ministri come Valeria Fedeli o dei corifei della peggiore
reazione, come Ernesto Galli della Loggia e i suoi caudatari, vale come
eloquente sigillo di questa doppia controriforma all’insegna del potere
accademico costituito, contro la libertà, e la dignità stessa, delle giovani
ricercatrici e dei giovani ricercatori. E se da questa maggioranza politica non
ci si poteva davvero che aspettare il peggio, il tradimento del potere
accademico è (seppur anch’esso scontato) particolarmente doloroso. “Perché è
avvenuto tutto questo? Per mancanza di capacità e di cultura? No: per mancanza
di coscienza civile”: ancora una volta, le parole di Concetto Marchesi in
Costituente restano, purtroppo, terribilmente attuali.
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