Ce lo chiede l’Europa, ce lo chiede la Nato, quante volte i politici italiani hanno ripetuto questo mantra per giustificare delle scelte impopolari, attribuendone la responsabilità ad altri. È facile prevedere che, di fronte a un programma di riarmo che dovrebbe portare la spesa militare italiana dagli attuali 35 ad oltre 100 miliardi all’anno, ci sentiremo ripetere: ce lo chiede la Nato, abbiamo degli obblighi da rispettare. In realtà non ce lo chiede la Nato, ce lo chiede Meloni. Questo punto deve essere chiarito, ma andiamo per ordine.
La
dichiarazione finale adottata il 25 giugno dal Summit della Nato a l’Aja al
punto 2 così si esprime: «Uniti di fronte a gravi minacce e sfide alla
sicurezza, in particolare la minaccia a lungo termine rappresentata dalla
Russia per la sicurezza euro-atlantica e la persistente minaccia del
terrorismo, gli Alleati si impegnano a investire annualmente il 5% del PIL nei
requisiti fondamentali della difesa, nonché nelle spese relative alla difesa e
alla sicurezza entro il 2035, al fine di garantire i nostri obblighi
individuali e collettivi, in conformità con l’Articolo 3 del Trattato di
Washington». Ma qual è la natura giuridica della dichiarazione
finale del Summit della Nato?
Il Consiglio
atlantico (Nac), costituito dai Capi di Stato e di Governo, è un organo
collegiale fra pari, per cui tutte le decisioni devono essere assunte
sulla base della regola del consenso unanime. Questo spiega perché il
dissenso della Spagna ha fatto andare su tutte le furie Trump e i suoi
camerieri europei. La conseguenza del dissenso è che il Consiglio atlantico non
ha assunto alcuna decisione da cui possano derivare obblighi giuridici in
ambito Nato per i Paesi membri. Quella adottata è una semplice
dichiarazione d’intenti, un atto d’indirizzo politico cui i Governi di alcuni
Paesi membri hanno dichiarato di volersi conformare. L’Italia avrebbe potuto
benissimo dire di no, come la Spagna, e tirarsi fuori da ogni impegno. Se
il Governo italiano, in sede di Consiglio atlantico, ha concordato con altri
Alleati di lanciare un gigantesco piano di incremento delle nostre spese
militari, non si tratta di un vincolo derivante dall’appartenenza alla Nato, ma
di un indirizzo politico liberamente scelto.
Come ha
osservato l’economista Gianfranco Viesti (il Fatto quotidiano del
27 giugno), questo gigantesco aumento di spesa militare è incompatibile
con il mantenimento del welfare e dei sistemi di istruzione e di salute
pubblica costruiti dopo la Seconda guerra mondiale. C’è da dubitare del
“patriottismo” della sovranista Giorgia Meloni che ha platealmente tradito la
promessa di tutelare gli interessi nazionali, ma non bisogna farsi prendere
dallo sconforto, il problema è capire se l’impegno di elevare le spesa
militare al 5% del bilancio entro il 2035 sia vincolante ed entro quali limiti.
La dichiarazione finale del Summit Nato non è un Trattato, non è un Accordo
semplificato, non è un atto legalmente vincolante, ad esso non si può applicare
il principio fondamentale del diritto internazionale pacta sunt
servanda, per la semplice ragione che il “patto” non esiste.
L’art. 117 della Costituzione stabilisce i
confini entro i quali può essere esercitato il potere legislativo precisando
che la potestà legislativa si deve esercitata «nel rispetto della
Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali». Orbene, gli “obblighi internazionali” sono quelli che
trovano la loro fonte nei principi del diritto internazionale generalmente
riconosciuti (ius cogens) e nei Trattati internazionali sottoscritti e
ratificati dall’Italia. I vincoli di natura meramente politica non
hanno nulla a che vedere con i vincoli giuridici posti dall’art. 117 della
Costituzione. La dichiarazione dell’Aja non ha la forza di modificare la
Costituzione italiana. Le Camere restano libere di decidere le poste del
bilancio, ai sensi dell’art. 81 della Costituzione, e di stabilire quanto deve
andare all’istruzione, quanto alla sanità e quanto alla
difesa. È difficile che questa maggioranza parlamentare possa
sconfessare l’indirizzo politico concordato dalla Meloni con i partner della
Nato, ma questo Governo non è eterno e il programma di riarmo si
sviluppa in dieci anni. Prima o poi cambieranno le maggioranze e cambieranno
gli indirizzi politici. È importante comprendere che la
dichiarazione del Summit Nato non crea nessuna obbligazione, nessun
vincolo a carico dell’Italia. Non vengano a dirci un domani: ce lo chiede la
Nato, abbiamo assunto degli obblighi che dobbiamo rispettare. I governi e il
Parlamento italiano sono tenuti soltanto ad obbedire alla Costituzione, non
all’indirizzo politico che qualche precedente governo abbia irresponsabilmente
assunto in sede di Consiglio atlantico. I vincoli di natura politica
sono “vincolanti”, fin quando c’è un indirizzo politico che li riconosce, dopo
possono diventare carta straccia.
Diverso
sarebbe il discorso se il programma di riarmo venisse supportato da atti
normativi dell’Unione europea, come le Direttive o i Regolamenti, in virtù del
principio della supremazia del diritto comunitario su quello nazionale. Per
questo deve essere massima la vigilanza delle forze democratiche
contrarie al piano Re Arm Europe/Readiness 2030 per impedire che il piano di
riarmo della Nato, inefficace dal punto di vista giuridico, venga implementato
attraverso atti normativi UE. Questo è il fronte sul quale deve svilupparsi
la resistenza contro questi progetti folli di riarmo. Qui ci confrontiamo con i
problemi irrisolti del nostro principale partito d’opposizione che, per bocca
della sua leader, si oppone al riarmo mentre i suoi parlamentari in Europa
sostengono il partito unico della guerra. Ai nostri rappresentanti nel
Parlamento europeo, specialmente quelli della sinistra, che hanno votato per il
riarmo vorremmo rivolgere la stessa domanda del Papa: «Come si può
continuare a tradire i desideri di pace dei popoli con le false propagande del
riarmo, nella vana illusione che la supremazia risolva i problemi anziché
alimentare odio e vendetta? La gente è sempre meno ignara della
quantità di soldi che vanno nelle tasche dei mercanti di morte e con le quali
si potrebbero costruire ospedali e scuole; e invece si distruggono quelli già
costruiti!».
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