C’è un metodo nella pervicace avversione delle destre per le leggi che puniscono la tortura. E ci sono almeno due chiari obiettivi politici: il primo, accattivarsi una volta per tutte le simpatie (e i voti) degli appartenenti alle forze dell’ordine; il secondo, la progressiva demolizione della dottrina dei diritti umani.
Il ministro
dei Trasporti Matteo Salvini, da leader della Lega, ha promesso (cioè
minacciato) un intervento normativo che “circoscriva” il reato di tortura,
introdotto faticosamente nel nostro ordinamento solo nel 2017, con circa
trent’anni di ritardo rispetto agli impegni presi dall’Italia in sede
internazionale. «Bisogna permettere alla polizia penitenziaria di fare il
suo lavoro», ha detto il ministro, ripescando il capzioso argomento sempre
opposto contro i progetti di legge sulla tortura: l’idea che gli agenti, per
paura di incorrere nel reato, finirebbero per autolimitarsi, al punto di non
poter svolgere i loro compiti ordinari. Argomento capzioso, perché il
crimine di tortura è tale in caso di violenze fisiche e psicologiche di grande
intensità, che non si compiono certo per caso o per sbaglio o in un
semplice e involontario eccesso nell’uso della forza. E tuttavia le forze
dell’ordine italiane hanno una tradizione professionale così radicata nella
cultura predemocratica, che tale argomento, pur così ambiguo, è stato ripetuto
fino all’ultimo, nel 2017, da tutti i maggiori rappresentanti sindacali e
istituzionali, sia nel dibattito pubblico sia nelle audizioni parlamentari.
Ora Matteo Salvini annuncia il ritorno all’ancien régime, sia pure senza specificare in che modo il reato di tortura sarà
circoscritto, e lo
fa durante una conferenza stampa convocata per lodare il recente decreto
sicurezza, un provvedimento chiave del Governo Meloni, perché vi è
condensata l’ideologia autoritaria e post costituzionale che sta guidando la
sua azione (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/05/02/237-professori-di-diritto-pubblico-il-decreto-sicurezza-viola-la-costituzione/).
Il decreto
sicurezza, ormai legge, ha già introdotto nell’ordinamento alcune norme “in
favore” delle forze dell’ordine, come il sostegno alle spese legali per eventuali
cause giudiziarie o l’inasprimento delle pene per il reato di resistenza a
pubblico ufficiale, un “crimine” dai confini incerti spesso contestato durante
le manifestazioni pubbliche. Altre misure sono state annunciate da
ministri e sottosegretari, tanto che si è parlato, nell’insieme, di uno
“scudo penale” per le forze dell’ordine, che verrebbero quindi sottratte –
in determinate circostanze – alle leggi ordinarie. I sindacati di polizia
sembrano gradire e lo stesso si può dire di quei commentatori e opinion leader
che normalmente formano e indirizzano la percezione pubblica dei fatti
politici. Nessuno che sollevi dubbi sulla deriva in corso, nonostante siamo
il paese del G8 di Genova, più volte condannato alla Corte europea per i
diritti umani per la diffusa pratica della tortura durante le giornate del
luglio 2001 e per l’inadeguata punizione dei responsabili; il paese con le
carceri che scoppiano per il sovraffollamento, con i detenuti e gli stessi
agenti sottoposti a condizioni di vita insopportabili (con altissimi e
trascurati indici di suicidio https://altreconomia.it/il-silenzio-assordante-che-avvolge-i-suicidi-nelle-forze-in-divisa-italiane/); il paese nei cui tribunali si
stanno celebrando numerosi processi per tortura, in testa il clamoroso caso
delle violenze compiute nel 2020 nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere e
riprese dalle telecamere interne.
L’Italia, in
verità, è il paese della tortura, nel senso che l’abuso di potere e la violenza
su manifestanti e oppositori, su arrestati e detenuti accompagnano la storia
delle nostre forze dell’ordine da tempo immemorabile, senza che l’avvento della
Repubblica abbia prodotto un’autentica discontinuità. La tortura – il più
ignobile dei crimini compiuti da persone al servizio dello Stato – fa
parte della nostra storia ed è ancora fra noi: i libri di Mimmo
Franzinelli, Donatella Di Cesare, Marina Lalatta Costerbosa, Patrizio Gonnella
sono lì a dimostrarlo. In un paese così, una legge sulla tortura (oltretutto
imperfetta) non poteva, da sola, imprimere una vera svolta, che infatti non c’è
stata. Per avviare un cambio di passo radicale e concreto, servirebbe
una vasta operazione di verità sulle culture professionali delle nostre forze
dell’ordine e una conseguente azione formatrice e riformatrice. È quanto,
peraltro, chiedeva all’Italia la Corte europea per i diritti umani nella nota
sentenza Cestaro sul caso Diaz. Ma niente del genere è mai stato messo
all’ordine del giorno.
All’opposto, la
destra oggi sente di avere campo libero e punta a serrare i ranghi, a blandire
le pulsioni più oscure e violente, a circoscrivere, con il campo d’applicazione
del reato di tortura, anche il raggio d’azione dei diritti umani fondamentali.
È questo il progetto politico, non più nascosto, dell’estrema destra di
governo, in Italia come nel resto d’Europa. Il decreto sicurezza, nel suo
piccolo, ma non troppo piccolo, è il codice Rocco del governo Meloni, con la
sua forte impronta repressiva e incostituzionale. E l’attivismo della
presidente del consiglio sulla questione dei migranti non può ingannare: il
progetto generale è una rivisitazione della dottrina dei diritti umani,
superando la sua pretesa universalistica. Nel maggio scorso Meloni e la premier
danese Mette Frederiksen (socialdemocratica, ahinoi), sostenute da altri sette
premier europei, hanno chiesto al Consiglio d’Europa di aprire una discussione
su come la Corte di Strasburgo interpreta la Convenzione europea sui diritti
umani, lasciando intendere che occorre una radicale revisione dei criteri di
valutazione dei diritti umani alla luce del fenomeno migratorio.
Il disegno,
nell’insieme, è molto chiaro: meno diritti per immigrati e disturbatori vari,
differenziando i livelli di cittadinanza e limitando gli spazi della protesta e
dell’esercizio dei diritti civili, con le forze dell’ordine che tornano
a essere – rigidamente – il braccio armato del potere. Questo è il “nuovo”
corso immaginato dalle destre – ma non solo dalle destre – per un’Europa che si
prepara a definire un assetto istituzionale postdemocratico, com’è inevitabile
che sia quando si decide di investire il proprio futuro nella costruzione di
un’economia di guerra.
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