Già Frantz Fanon aveva ben descritto la morfologia di un territorio coloniale: si tratta sempre di uno spazio diviso, in sé fratturato, a-dialettico, in cui sono giustapposte l’opulenza delle città dei coloni e la miseria senza fine della città dei colonizzati. Il potere è esercitato dai primi in maniera diretta e brutale, senza l’interposta figura di istituzioni mediatrici come accade, invece, nei Paesi occidentali. Le due città coabitano lo spazio, ma non lo innervano allo stesso modo, né tra loro esiste una dialettica simbolica: esiste e persiste il solo e unico dominio della città dei coloni, una monodirezionalità impetuosa, omicida e cinica. Ciò imponeva a Fanon una conclusione radicale che è, non a caso, l’incipit del suo opus magnum: ‹‹Liberazione nazionale, rinascita nazionale, restituzione della nazione al popolo, Commonwealth, qualunque siano le etichette impiegate o le formule nuove introdotte, la decolonizzazione è sempre un fenomeno violento. A qualsiasi livello venga studiato: incontri interindividuali, appellativi nuovi delle società sportive, impasto umano dei cocktails-parties, della polizia, di consigli d’amministrazione delle banche nazionali o private, la decolonizzazione è molto semplicemente la sostituzione d’una «specie» di uomini con un’altra «specie» di uomini. Senza transizioni, c’è sostituzione totale, completa, assoluta››[1]. Non c’è liberazione dei territori occupati da coloni, se non mediante sostituzione di quest’ultimi. Non è possibile riformismo o negoziazione, dialogo o accordo.
Leggendo i report della relatrice speciale per l’ONU,
Francesca Albanese, per i territori occupati illegalmente da Israele dal 1967,
si ha subito l’impressione che a Gaza si tratti esattamente di una situazione
simile. I concetti messi in campo dall’insigne studiosa attingono esattamente
al vocabolario del discorso coloniale (i soggetti che ritornano sono
infatti: settler/colonized). Già il rapporto del settembre 2022
faceva bene emergere l’esistenza di una strategia di dominio brutale a Gaza,
caratterizzata da: ‹‹repressione della partecipazione politica e civile,
negazione del diritto di residenza, espropriazione delle terre e delle
proprietà palestinesi, trasferimenti forzati, omicidi, arresti e detenzioni
illegali comprendenti bambini, violenza dei coloni e soppressione violenta
della resistenza contro l’occupazione››[2].
I canonici approcci alla questione palestinese la derubricano a drammatica
contesa politica, mettendone in risalto tre aspetti: umanitario, politico ed
economico. Una volta incasellata in questa categoria, la questione di Gaza si
perde nella risma dei tanti conflitti sociali e politici, perdendo la propria
specificità storica, assumendo le sembianze di una contingenza conflittuale
passibile di risoluzione pacifica tramite un opportuno negoziato. Questo
approccio, però, secondo l’autrice, ‹‹confonde causa profonde e sintomi››[3]. Sottostima, inoltre,
la dura e prolungata sordità di Israele al diritto internazionale, trattandola
come un ‹‹caso isolato›› e non come parte di una strategia strutturale tesa a
fiaccare e ad eradicare i palestinesi dai loro territori[4]. Albanese analizza,
in seguito, la categoria di apartheid, avanzata già da tempo
dalla letteratura critica. Tuttavia, anche questa ha dei limiti, non riuscendo
a dar conto delle continue espropriazioni subite dai palestinesi, né del
desiderio dei coloni di ‹‹sostituirli con i propri connazionali››. Il caso di
Gaza e della Cisgiordania non riguarda un mero confinamento etnico, ma un
prolungato tentativo di sostituzione. È questo il motivo che induce l’autrice a
ritenere più idonee le polarità concettuali proprie del discorso decoloniale,
le quali contemplano in sé, da un lato, gli episodi della prevaricazione
violenta e omicida, della sostituzione etnica e, dall’altro lato, l’istanza del
diritto all’autodeterminazione da parte dei colonizzati. L’occupazione di
Israele non è ‹‹meramente belligerante››, strascico di un conflitto storico,
bensì ‹‹coloniale nella propria natura››, ‹‹continuando ciò che il movimento
sionista aveva auspicato per Israele più di un secolo fa››[5].
Il successivo report, datato 20 ottobre 2023 e, dunque,
successivo al fatidico attacco terroristico di Hamas, è dedicato ad un focus sulla
condizione minorile nei territori occupati. Albanese esordisce presentando una
caratteristica del tutto peculiare di quel territorio: circa metà dei residenti
è costituita da bambini, con il 30% della popolazione costituita da bambini
sotto i 15 anni[6]. Sono costoro a
rappresentare quella parte di popolazione a Gaza che più risente dei drammi
dell’occupazione: la studiosa utilizza il concetto tecnico di unchilding,
che è possibile tradurre con privazione dell’infanzia, ossia,
della normalità, dell’innocenza, dell’affetto e della leggerezza che dovrebbe
caratterizzare ogni infanzia umana. Il sospetto di essere dei bambini “minori”,
ossia, bambini la cui vita possiede meno valore umano, è diffuso nella
popolazione minorile di Gaza. Riporta la Albanese: ‹‹I bambini palestinesi
vivono in spazi segregati e in comunità ostili. Il sostentamento delle loro
famiglie, l’accesso al lavoro, all’assistenza sanitaria, le opportunità di svago,
le prospettive future e la mobilità sono tutti controllati da Israele. I
bambini palestinesi sono consapevoli delle sfide che affrontano “in quanto
palestinesi”. Sentendosi alienati nella loro terra, si chiedono: “Perché è
così? Siamo meno umani?” o “Abbiamo meno valore?”››[7].
Già prima dell’attacco israeliano, la mortalità infantile dei bambini fino
ai 5 anni era salita a 14,8 su 1000 nascite. Dal 2008 a prima dell’invasione, i
bambini uccisi raggiungevano il numero di 1434, mentre altri 32175 sono stati
gravemente feriti[8]. Lo spettro della
morte dominava già, ben prima della reazione israeliana al 7 ottobre,
l’universo mentale dei bambini palestinesi. In un passaggio toccante, la
Albanese scrive: ‹‹Lo spettro della morte incombe come elemento dominante nella
vita dei bambini palestinesi. Questa realtà ha un impatto psicosociale su
coloro che riescono a sopravvivere, come espresso in modo toccante da Ouadia,
14 anni: “Temere la morte non ti impedisce di morire, ma ti impedisce di
vivere”››[9]. L’uccisione di
bambini non costituiva solo un fatto accidentale degli attacchi israeliani, ma
era spesso volontariamente perseguito: lo dimostra la storia di Sadeel
Naghniyeh, una quindicenne uccisa dal colpo di un cecchino mentre era nel suo
cortile a Jenin, dopo il ritiro israeliano[10].
Questa disumanità diffusa era già sfociata nell’attacco ripetuto ad
ospedali e cliniche mediche (ben 180), colpendo 80 ambulanze e uccidendo 41
medici. La violenza, inoltre, non sembrava essere perpetrata esclusivamente
dalle forze armate di Israele, ma dagli stessi coloni. Ancora nel report del
2023 leggiamo: ‹‹Forme estreme di violenza dei coloni includono incursioni
nelle proprietà palestinesi, anche notturne, regolari “pogrom”, incendi di
infrastrutture e aggressioni fisiche contro i residenti palestinesi, il tutto
sotto gli occhi delle forze di occupazione israeliane, alcune delle quali
pubblicamente elogiate da alti funzionari israeliani. In questi incidenti, i
bambini vengono presi di mira anche quando fuggono dai soldati, come Ramzi
Fathi, 17 anni, che è stato colpito a morte al petto e all’addome. “La vita dei
bambini dovrebbe essere sacrosanta”, ha affermato una madre di tre figli del
campo profughi di Jenin. Invece, “i nostri figli vengono uccisi, minacciati,
intimiditi; è un intero sistema progettato per questo”››[11].
Analizzare i dati raccolti dalla Albanese, prima dei famigerati dossier sul
genocidio e sulle aziende coinvolte nel business della morte, è molto
importante perché introduce nella discussione pubblica una prospettiva inedita:
dai suoi report emerge che lo smisurato attacco israeliano non
è solo una reazione all’attacco terroristico del 7 ottobre, bensì una mossa
decisiva all’interno di una strategia di più ampio respiro, che chiama in causa
convinzioni politiche coloniali della classe dirigente israeliana,
sedimentatesi nel corso di decenni. Gli atroci fatti del 7 ottobre commessi da
Hamas hanno svincolato la classe dirigente israeliana da ogni remora politica e
morale, permettendole di perseguire fino in fondo il proprio antico progetto
coloniale. Nel rapporto dell’ottobre 2024, infatti, il genocidio dei
palestinesi è descritto nei termini di colonial erasure, ossia,
“cancellazione coloniale” e nell’introduzione leggiamo: ‹‹In questo rapporto,
la Relatrice Speciale estende l’analisi delle violenze commesse contro Gaza
dopo il 7 ottobre 2023, che si sono diffuse fino alla Cisgiordania, compresa
Gerusalemme Est. Si concentra in particolare sull’intento genocida, collocando
la situazione nel contesto di un processo decennale di espansione territoriale
e pulizia etnica che mira a liquidare la presenza palestinese in Palestina. Propone
di considerare il genocidio come parte integrante dell’obiettivo di Israele di
colonizzare completamente le terre palestinesi eliminando il maggior numero
possibile di palestinesi››[12].
È nel rapporto del 2024 che la Albanese conferisce un nome alla strategia
politica seguita dal governo israeliano: si tratta di perseguire l’obiettivo
della ‹‹“Grande Israele” (Eretz Israel)›› proprio, sin dagli inizi, del
progetto sionista: ‹‹I governi che si sono succeduti hanno perseguito questo
obiettivo, che si basa sulla cancellazione del popolo indigeno palestinese.
Anche dopo gli Accordi di Oslo, che hanno segnalato il sostegno internazionale
alla soluzione dei due Stati, il piano è andato avanti. Da allora, il numero
degli insediamenti israeliani è aumentato da 128 a 358 e il numero di coloni da
256.400 a 714.600. La Legge sullo Stato-Nazione del 2018 ha reso la sovranità
ebraica esclusiva su “Eretz Yisrael” e sull’“insediamento ebraico” una priorità
nazionale. Il 28 dicembre 2022, l’attuale governo israeliano ha annunciato il
suo piano per espandere gli insediamenti in Cisgiordania e ed è aggressivamente
avanzato nella confisca delle terre e nell’espansione delle colonie. Nel
settembre 2023, davanti all’Assemblea Generale, il Primo Ministro Netanyahu ha
presentato una mappa di Israele cancellando il territorio palestinese occupato
e sovrapponendoci il nome di Israele››[13].
Secondo la relatrice speciale i fatti del 7 ottobre hanno completato il
quadro aggiungendo l’ingrediente che mancava per la piena attuazione del piano
coloniale, ossia, un humus di odio e desiderio di vendetta ben
radicato nella società civile: ‹‹Gli eventi del 7 ottobre hanno fornito lo
slancio necessario per portare avanti l’obiettivo del “Grande Israele”. (…) La
violenza e il trauma subiti dagli israeliani il 7 ottobre hanno rafforzato
l’animosità collettiva e sono aumentate le richieste di annientamento. Come
altri genocidi, l’atmosfera di vendetta che si creò preparò i soldati a
diventare “esecutori volontari” degli atroci compiti loro assegnati››[14].
A questo punto, il passo successivo è consistito nell’identificare l’etnia
palestinese come il nemico assoluto, inumano, il nemico la cui
stessa esistenza mette in pericolo l’incolumità dei coloni. Prova di ciò,
sarebbero le disumane e rabbiose uccisioni, documentate in questi ultimi mesi.
Scrive Albanese: ‹‹L’inquietante frequenza e l’insensibilità per l’uccisione di
persone identificabili come civili sono “emblematiche della natura sistematica”
dell’intento distruttivo. Hind Rajab, 6 anni, ucciso da 355 proiettili dopo
aver pianto per ore chiedendo aiuto; Muhammed Bhar, affetto da sindrome di
Down, massacrato mortalmente dai cani; Atta Ibrahim Al-Muqaid, anziano sordo,
giustiziato nella sua abitazione e il cui omicidio è stato diffuso sui social
media dall’autore e da altri soldati; bambini prematuri abbandonati
deliberatamente a una morte lenta e alla decomposizione nel reparto di terapia
intensiva dell’ospedale Nasr; Bashir Hajji, uomo anziano ucciso mentre era in
viaggio verso il sud di Gaza dopo essere apparso in una foto di propaganda del
“corridoio sicuro”; Abu al-Ola, ostaggio ammanettato, ucciso da un cecchino dopo
che gli era stato ordinato di entrare nell’ospedale Nasser per trasmettere gli
ordini di evacuazione››[15].
Un genocidio, tuttavia – argomenta la relatrice speciale – si può
perpetrare a diversi livelli. L’immagine istantanea che sovviene è quella dei
brutali omicidi, delle carneficine che non risparmiano nemmeno i bambini;
esistono, però, anche altri metodi, più sottili e meschini: espropriazione
delle terre e delle proprietà, creazione di un intenso trauma
intergenerazionale che interrompe la trasmissione culturale delle tradizioni e
delle idee, trasferimenti forzati, diffusione di miseria e degrado ambientale
che rendono insalubri e invivibili i luoghi natii; negazione del diritto
all’istruzione. Ogni strategia politica e/o militare che tende a interrompere
il nesso tra una cultura e la relativa terra di germinazione, che blocca il
ricambio generazionale e impedisce alla cultura di un popolo di tramandarsi è
concepibile come strategia intrinsecamente genocidaria. È a questo livello
dell’analisi che incontriamo la complicità di tante multinazionali e aziende:
l’ultimo report ha suscitato scandalo proprio perché
riconosceva al cuore dell’occupazione israeliana l’indispensabile solidarietà
di tanti potentati economici del mondo occidentale. E – precisava la Albanese –
si tratterebbe solo della ‹‹punta dell’iceberg››[16]. Microsoft, IBM,
Google e Amazon sono tra le più famose, ma all’interno del report compaiono
anche i nomi di Leonardo e BNP Paribas. Le aziende coinvolte operano nei
settori della difesa, dell’innovazione tecnologica, della sorveglianza, degli
investimenti finanziari, della logistica e anche dell’industria
automobilistica.
Il quadro offerto dall’importantissimo lavoro della relatrice speciale è
indispensabile perché offre un primo inquadramento sia sistematico che storico
del terribile genocidio in atto a Gaza, Ci permette di scorgere in anteprima
quell’orrore che gli storici del futuro potranno, forse, vedere con chiarezza:
‹‹Quando la polvere si poserà su Gaza, conosceremo la reale entità dell’orrore
sopportato dai Palestinesi››[17].
[1] F. Fanon, I
dannati della terra, trad. di C. Cignetti, Einaudi, Torino 1962, p. 32.
[2] F.
Albanese, Report of the Special Rapporteur on the situation of human
rights in the Palestinian territories occupied since 1967, 21 settembre
2022, p. 4. La traduzione di questo passaggio e di tutti quelli che seguono è
dell’autore dell’articolo: non si tratta di una traduzione ufficiale.
Risorsa disponibile al link: https://docs.un.org/en/A/77/356
[3] Ivi, p. 5.
[4] Ibidem. Albanese
scrive: ‹‹(…) and focus on Israeli lack of compliance with international law as
a siloed phenomenon, rather than a longstanding structural component of the
prolonged disfranchisement of the Palestinians under occupation››.
[5] Ivi, p. 12.
[6] Cfr. F.
Albanese, Report of the Special Rapporteur on the situation of human
rights in the Palestinian territories occupied since 1967, 20 ottobre 2023,
p. 3. Risorsa disponibile al link: https://docs.un.org/en/A/78/545
[7] Ivi, p. 4.
[8] Ivi, p. 8.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p. 11.
[11] Ivi, p. 11.
[12] F.
Albanese, Genocide as colonial erasure. Report of the
Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian
territories occupied since 1967, 1 ottobre 2024, p. 3. Risorsa
disponibile al link: https://docs.un.org/en/A/79/384
[13] Ivi, p. 20.
[14] Ivi, p. 22.
[15] Ivi, p. 26.
[16] Cfr. F.
Albanese, From economy of occupation to economy of genocide. Report of the
Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian
territories occupied since 1967, 30 giugno 2025, p. 1.
Risorsa disponibile al link: https://www.ohchr.org/sites/default/files/documents/hrbodies/hrcouncil/sessions-regular/session59/advance-version/a-hrc-59-23-aev.pdf
[17] Id., Genocide
as colonial erasure, op. cit., p. 26.
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