La relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati ha presentato al Consiglio Onu per i diritti umani il report "From economy of occupation to economy of genocide": dalle armi alla logistica, una ricognizione del modo in cui si lucra sulle pratiche perpetrate da Israele.
In Israele
si è ormai istituzionalizzata una vera e propria economia del genocidio che
consente ad aziende nazionali ed estere di incamerare ingenti profitti.
È anche per questo che l’opera di sistematica distruzione di Gaza e le
occupazioni illegali della Cisgiordania si perpetuano senza
sosta. Un meccanismo che deve essere disinnescato attraverso vari
provvedimenti, a cominciare dal completo embargo sulle vendite di armi
ad Israele. È il messaggio di fondo del rapporto “From economy of occupation to economy of genocide” presentato dalla relatrice
speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati Francesca
Albanese al Consiglio Onu per i diritti umani. “Questo genocidio non è
stato evitato, né è stato fermato, perché è redditizio. C’è gente che
sta facendo soldi a costo del genocidio. Un sacco di soldi”,
sintetizza Albanese nel suo intervento di presentazione.
Il rapporto
contiene una dettagliata ricognizione delle aziende coinvolte in
questi processi e del modo in cui lucrano sulle pratiche genocidarie perpetrate
da Israele, direttamente con la vendita di armi o
indirettamente con la fornitura di altri prodotti e/o servizi.
Il primo
capitolo si concentra comprensibilmente sui produttori di armi e
sistemi bellici che forniscono a Tel Aviv i mezzi per distruggere Gaza ed
espropriare i territori palestinesi. Il complesso militare israeliano è una
delle colonne portanti dell’economia nazionale. Israele è l’ottavo esportatore
di armi al mondo e due sono le aziende chiave: la privata Elbit Systems e
la statale Israel Aerospaces Industries. Tra i gruppi
internazionali svetta la statunitense Lockheed Martin che
fornisce a Israele i jet F-35, F-15, F-16, utilizzati per bersagliare Gaza
con 85mila tonnellate di bombe, la maggior parte delle quali
senza guida verso obiettivi specifici. Un partner di primo piano nel programma
F-35 è l’italiana Leonardo.
I droni sono
costruiti da Elbit e Israel Aerospaces Industries, alcuni progetti
sono frutto di una collaborazione con il Mit di Boston. La giapponese
Fanuc fornisce ad Israele macchinari e tecnologie per costruire i
velivoli. Se si considera che il budget israeliano per la difesa è
cresciuto del 65% tra il 2023 e il 2024, superando i 46
miliardi di dollari, si capisce quali vantaggi economici abbiano raccolto
tutte queste aziende.
Oltre che un
“bersaglio immobile”, Gaza è anche un gigantesco laboratorio per testare
sul campo sistemi carcerari e di sorveglianza avanzati. Sono inclusi i
sistemi di sorveglianza biometrica, sorveglianza attraverso droni, utilizzo
di intelligenza artificiale e analisi dei dati per supportare le forze
militari, predisposizione di reti avanzate di check point. Per sviluppare
queste tecnologie Tel Aviv si avvale della collaborazione di
numerose società estere, a cominciare dalle statunitensi Ibm ed Hewlett
Packard. Microsoft, che opera in Israele da quasi 40 anni, e fornisce
sistemi e tecnologie per la sorveglianza nelle colonie illegalmente occupate.
Nel
2021 Amazon e Alphabet (Google) hanno siglato un contratto
da 1,2 miliardi di dollari con Tel Aviv per fornire spazi
cloud e sistemi di elaborazione dati. Nel 2023 Microsoft ha
“soccorso” l’esercito israeliano che stava esaurendo i suoi spazi di
archiviazione dati mettendo a disposizione le sue strutture. La statunitense Palantir,
che nel gennaio 2024 ha tenuto il suo consiglio di amministrazione a Tel Aviv
“in segno di solidarietà”, sviluppa per Israele i sistemi di intelligenza
artificiale utilizzati per indirizzare le operazioni belliche su Gaza.
Al di là
delle operazioni belliche e di sorveglianza, servono macchinari e attrezzature
per demolire case, distruggere infrastrutture, devastare terreni
nei territori palestinesi dove vengono poi insediate illegalmente le colonie
israeliane. A fornire tutto il necessario, inclusi bulldozer blindati,
ci sono aziende come la statunitense Caterpillar, la coreana Hyundai, la
svedese Volvo.
Società che
hanno continuato a fornire i loro prodotti ad Israele nonostante
le numerose evidenze di violazioni dei diritti umani e crimini
perpetrate con il loro utilizzo. Quando si passa alla fase di ricostruzione dei
territori espropriati, i nomi citati nel rapporto sono quelli della tedesca
Heidelberg, che fornisce i materiali edili e della spagnola Construcciones
Auxiliar de Ferrocarriles. Per lo sviluppo del mercato immobiliare e
le compravendite di abitazioni nelle colonie, c’è in prima linea il gruppo
statunitense Keller Williams Realty.
Neppure
società del settore turistico come Booking.com e Airbnb non si
sono lasciate fuggire l’opportunità di offrire soluzioni alberghiere e
di soggiorni nelle colonie illegali. Booking ha portato le strutture
in Cisgiordania dalle 26 del 2018 alle 70 del maggio 2023. Airbnb offre
350 sistemazioni nelle colonie, prelevando una commissione del 23%. Catene
internazionali di supermercati hanno rapidamente aperto punti
vendita nelle stesse zone.
Tutte queste
operazioni vanno, naturalmente, finanziate. E a supporto delle
colonie c’è una estesa rete di fornitori di sevizi finanziari, legali,
pubblicitari , etc. La francese Bnp Paribas e l’inglese Barclays sono
tra i gruppi bancari più attivi nel finanziamento di Israele e delle sue
politiche attraverso la vendita sui mercati di titoli di Stato israeliani a
tassi piuttosto vantaggiosi per l’emittente. La tedesca Allianz e
l’americana Blackrock sono tra i più importanti sottoscrittori
di questi bond. Allianz, insieme alla francese Axa, è anche uno dei
principali detentori di azioni ed obbligazione di aziende implicate nel
genocidio di Gaza e nelle occupazioni illegali.
Lo stesso si
può dire di numerosi fondi pensione e fondi sovrani come il Norwegian
government pension fund. A favorire l’inserimento dei bond israeliani
nei portafogli c’è anche il fatto che le violazioni dei diritti umani nei
territori occupati non sono considerate elemento di esclusione dalla categorie
Esg che dovrebbe indicare investimenti socialmente responsabili. Cosa che stupisce fino a un certo punto, vista la radicale
involuzione di queste classificazioni.
Infine l’approvvigionamento
energetico. La statunitense Chevron, l’inglese BP e la svizzera
Glenocore sono tra i gruppi più impegnati nel fornire ad Israele
materie prime energetiche e nello sviluppare i giacimenti locali. Chevron copre
il 70% del fabbisogno energetico di Israele ed è azionista della Ese
Mediterranean Gas Pipeline che passa anche nelle acque palestinesi. Bp
ha ottenuto licenze di esplorazione di giacimenti sottomarine in acque
illegalmente sottratte da Israele alla Palestina.
Il rapporto
si chiude con alcune raccomandazioni. Tra queste un embargo
totale della vendita di armi ad Israele, sanzioni e congelamento di asset per
società ed individui che conducono attività dannose per la Palestina,
assicurare una responsabilità legale per aziende complici in operazioni che
violano i diritti e le leggi internazionali.
Gli Stati Uniti annunciano sanzioni contro la relatrice Onu per la Palestina Francesca Albanese:
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