giovedì 12 giugno 2025

L’attacco ucraino alle basi russe: ora si apre la “pista Kazakstan” - Fulvio Scaglione


Della grande operazione ucraina che ha portato alla distruzione (o danneggiamento) di un numero imprecisato di bombardieri strategici russi (certo non i 42 di cui si parla, o quel 34% dell’intera flotta annunciato da Zelensky, più probabilmente una dozzina) si sa troppo poco per tirare conclusioni affrettate. Tanto meno per parlare di una “nuova Pearl Harbor” o per annunciare svolte in una guerra in cui, per portare un solo ulteriore elemento, gli analisti militari ucraini di Deep State registrano tra aprile e maggio un aumento del 19% degli attacchi russi quotidiani. Si possono fare però alcune considerazioni, lasciando che sia il tempo (se mai ne sapremo di più) a confermarle o smentirle.

La prima è questa: davvero un’operazione costata ai servizi segreti ucraini un anno e mezzo di preparazione, come ribadito dallo stesso presidente Zelensky, è potuta scattare esattamente alla vigilia del secondo round di trattative a Istanbul? Non è un po’ troppo bello per essere vero? O dobbiamo pensare che in realtà fosse già pronta prima e che le autorità di Kiev abbiano permesso ai russi di bombardare le città ucraine solo per aspettare il momento migliore per colpire? Nè l’una né l’altra tesi convincono. E le operazioni più spettacolari di guerra ibrida degli ucraini hanno la tendenza a essere un po’ troppo puntuali rispetto al quadro politico che accompagna questa guerra. Il sabotaggio al gasdotto Nord Stream arriva proprio quando è necessario staccare l’Europa da qualunque ipotesi di residuo scambio con la Russia. Questo attacco alle basi aeree russe si dispiega proprio mentre la Germania del nuovo cancelliere Merz e altri Paesi discutono delle forniture di missili per colpire in profondità la Russia e le sue installazioni militari. Non è tutto un po’ troppo preciso per essere casuale?

 

Non solo. L’agenzia Reuters ha anticipato il contenuto del memorandum con le condizioni che gli ucraini vogliono presentare stamattina alla delegazione russa. Sarebbero queste: cessate il fuoco completo per 30 giorni; scambio di prigionieri di guerra “tutti per tutti”; nessuna limitazione per le forze armate ucraine; nessun riconoscimento delle perdite territoriali; obbligo per la Federazione Russa di pagare i danni di guerra. Qualunque trattativa parte da posizioni distanti, ovvio. Ma davvero questa postura da Paese vincitore non ha nulla a che fare con il colpo portato contro le basi russe? Non pare che uno giustifichi l’altro e viceversa? Non sembra dire: possiamo continuare la guerra e farvi male, quindi dettiamo noi le condizioni?

Se questa considerazione ha un senso, diventa quasi inevitabile ipotizzare una partecipazione attiva delle intelligence occidentali a questa audace operazione ucraina. Zelensky ha smentito prima ancora che se ne parlasse (“Un’operazione autonoma ucraina che resterà nei libri di storia”, ha detto con legittimo orgoglio) ma le testimonianze sul ruolo degli specialisti Nato e occidentali nella pianificazione bellica ucraina sono ormai troppo qualificate e numerose (si veda per esempio questo articolo di Davide Bartoccini) per credere che Vasil’ Maljuk, il capo del’SBU ucraina (il servizio segreto interno) abbia fatto tutto da solo. Di tutte le pressioni e le minacce che in questi mesi Donald Trump ha rivolto all’Ucraina e a Zelensky, solo una ha davvero preoccupato la dirigenza di Kiev: quella, attuata per sole 24 ore, di bloccare il flusso di informazioni di intelligence. Qualcosa vorrà pur dire.

Terza considerazione: Zelensky ha detto che per attaccare le basi russe sono stati impiegati 117 droni. I quali sono stati assemblati in territorio russo e, come sappiamo, trasportati da alcuni camion nelle vicinanze delle basi. Poi gli operatori sarebbero tornati indietro verso l’Ucraina e, nel passaggio (questi è, almeno, la tesi ora più dibattuta), avrebbero fatto saltare i ponti provocando i disastri ferroviari.

La seconda parte è ipotetica e ci pare poco verosimile. Anzi, potrebbe far comodo agli ucraini far credere che i loro sabotatori abbiano riattraversato mezza Russia per tornare a casa (facendo, en passant, saltare qualche ponte) e che non siano invece usciti dall’ombra di quel quasi milione e mezzo di ucraini che vivono in Russia. Ma la prima è certa. E quindi la domanda è: come sono arrivati nel cuore della Russia i componenti per 117 droni? Dovremmo credere che, come i sabotatori, abbiano attraversato la zona di guerra, poi mezza Russia fino ad arrivare a Celjabinsk, nel magazzino dove, secondo gli inquirenti russi, sono stati montati e preparati all’uso, prima di essere “distribuiti” dai camion?

Qui si apre un capitolo tutto da esplorare di questa storia. Celjabinsk è prossima al confine tra Russia e Kazakstan (6.846 chilometri, il secondo confine più lungo del mondo), per le sue caratteristiche assai permeabile. Da quando è presidente Kasym-Jomart Tokayev, il Kazakstan persegue, con accortezza ma con molta chiarezza, stimolato dalla pressioni occidentali e dal timore di eventuali rivendicazioni territoriali russe, una politica di progressivo distacco dalla Russia, con capitoli anche clamorosi. L’80% del petrolio kazako viene esportato verso l’Europa attraverso il porto russo di Novorossisk, che “casualmente” ha sofferto negli ultimi tempi di numerosi guasti e intoppi. Nell’ottobre scorso Tokayev ha declinato l’invito pressante della Russia a entrare nei Brics, destando un’immediata reazione russa: blocco immediato all’importazione di tutta una serie di prodotti agricoli kazaki.

Ma l’episodio forse più eclatante e rivelatore è stato l’ultimo. L’anno scorso, con un referendum che ha ottenuto oltre il 71% di sì, il Kazakstan ha deciso di costruire una centrale nucleare. Tema spinoso per un Paese che, ai tempi dell’Urss, ha sopportato sul proprio territorio oltre 450 test nucleari. Decisa la costruzione della centrale, è stato quasi naturale, per i kazako, rivolgersi all’agenzia statale russa Rosatom, che nel settore ha maturato una grande esperienza e affidabilità. Poi, poche settimane fa, il colpo di scena: Rosato viene liquidata e la costruzione della centrale riaffidata alla cinese CNNC. Non solo: i portavoce del Governo kazako hanno detto senza mezzi termini che la decisione è stata presa per “diversificare i rapporti di politica estera”.

Per l’attacco ucraino alle basi russe, quindi, si apre una “pista kazaka”. Perché portarli dal Kazakstan sarebbe stato il modo più semplice per far arrivare i droni in Russia. Perché il Kazakstan sta accumulando una serie di contenziosi politici ed economici con la Russia e ha tutto l’interesse (vedi export, del petrolio ma non solo) a coltivare buoni rapporti con l’Europa. Perché il Kazakstan, non meno dei Baltici, teme la Russia e ha solo da guadagnare da un ridimensionamento delle capacità belliche e dello spazio politico della Russia. Non dimentichiamo che il Kazakstan fu il primo Paese, prima ancora dell’Ucraina con il Memorandum di Budapest del 1994, a rinunciare nel 1991 all’arsenale nucleare, trasferendo 1.400 testate alla Russia. E di certo gli eventi del Donbass prima e della guerra poi non hanno contribuito a tranquillizzarlo.

da qui

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