Della grande operazione ucraina che ha portato alla distruzione (o
danneggiamento) di un numero imprecisato di bombardieri strategici russi (certo
non i 42 di cui si parla, o quel 34% dell’intera flotta annunciato da Zelensky,
più probabilmente una dozzina) si sa troppo poco per tirare conclusioni
affrettate. Tanto meno per parlare di una “nuova Pearl Harbor” o per annunciare
svolte in una guerra in cui, per portare un solo ulteriore elemento, gli
analisti militari ucraini di Deep State registrano tra aprile e maggio un
aumento del 19% degli attacchi russi quotidiani. Si possono fare però alcune
considerazioni, lasciando che sia il tempo (se mai ne sapremo di più) a
confermarle o smentirle.
La prima è questa: davvero un’operazione costata ai servizi segreti ucraini
un anno e mezzo di preparazione, come ribadito dallo stesso presidente
Zelensky, è potuta scattare esattamente alla vigilia del secondo round di
trattative a Istanbul? Non è un po’ troppo bello per essere vero? O dobbiamo
pensare che in realtà fosse già pronta prima e che le autorità di Kiev abbiano
permesso ai russi di bombardare le città ucraine solo per aspettare il momento
migliore per colpire? Nè l’una né l’altra tesi convincono. E le
operazioni più spettacolari di guerra ibrida degli ucraini hanno la tendenza a
essere un po’ troppo puntuali rispetto al quadro politico che
accompagna questa guerra. Il sabotaggio al gasdotto Nord Stream arriva proprio
quando è necessario staccare l’Europa da qualunque ipotesi di residuo scambio
con la Russia. Questo attacco alle basi aeree russe si dispiega proprio mentre
la Germania del nuovo cancelliere Merz e altri Paesi discutono delle forniture
di missili per colpire in profondità la Russia e le sue installazioni militari.
Non è tutto un po’ troppo preciso per essere casuale?
Non solo. L’agenzia Reuters ha anticipato il contenuto del
memorandum con le condizioni che gli ucraini vogliono presentare stamattina
alla delegazione russa. Sarebbero queste: cessate il fuoco completo
per 30 giorni; scambio di prigionieri di guerra “tutti per tutti”; nessuna
limitazione per le forze armate ucraine; nessun riconoscimento delle perdite
territoriali; obbligo per la Federazione Russa di pagare i danni di guerra.
Qualunque trattativa parte da posizioni distanti, ovvio. Ma davvero questa
postura da Paese vincitore non ha nulla a che fare con il colpo portato contro
le basi russe? Non pare che uno giustifichi l’altro e viceversa? Non sembra
dire: possiamo continuare la guerra e farvi male, quindi dettiamo noi le
condizioni?
Se questa considerazione ha un senso, diventa quasi inevitabile
ipotizzare una partecipazione attiva delle intelligence occidentali a
questa audace operazione ucraina. Zelensky ha smentito prima ancora
che se ne parlasse (“Un’operazione autonoma ucraina che resterà nei libri di
storia”, ha detto con legittimo orgoglio) ma le testimonianze sul ruolo degli
specialisti Nato e occidentali nella pianificazione bellica ucraina sono ormai
troppo qualificate e numerose (si veda per esempio questo articolo di Davide Bartoccini) per credere
che Vasil’ Maljuk, il capo del’SBU ucraina (il servizio segreto
interno) abbia fatto tutto da solo. Di tutte le pressioni e le minacce che in
questi mesi Donald Trump ha rivolto all’Ucraina e a Zelensky,
solo una ha davvero preoccupato la dirigenza di Kiev: quella, attuata per sole
24 ore, di bloccare il flusso di informazioni di intelligence. Qualcosa vorrà
pur dire.
Terza considerazione: Zelensky ha detto che per attaccare le basi
russe sono stati impiegati 117 droni. I quali sono stati assemblati in
territorio russo e, come sappiamo, trasportati da alcuni camion nelle vicinanze
delle basi. Poi gli operatori sarebbero tornati indietro verso l’Ucraina e, nel
passaggio (questi è, almeno, la tesi ora più dibattuta), avrebbero fatto
saltare i ponti provocando i disastri ferroviari.
La seconda parte è ipotetica e ci pare poco verosimile. Anzi, potrebbe far
comodo agli ucraini far credere che i loro sabotatori abbiano riattraversato
mezza Russia per tornare a casa (facendo, en passant, saltare
qualche ponte) e che non siano invece usciti dall’ombra di quel quasi milione e
mezzo di ucraini che vivono in Russia. Ma la prima è certa. E quindi la domanda
è: come sono arrivati nel cuore della Russia i componenti per 117
droni? Dovremmo credere che, come i sabotatori, abbiano attraversato
la zona di guerra, poi mezza Russia fino ad arrivare a Celjabinsk, nel
magazzino dove, secondo gli inquirenti russi, sono stati montati e preparati
all’uso, prima di essere “distribuiti” dai camion?
Qui si apre un capitolo tutto da esplorare di questa storia. Celjabinsk è
prossima al confine tra Russia e Kazakstan (6.846 chilometri, il secondo
confine più lungo del mondo), per le sue caratteristiche assai permeabile. Da
quando è presidente Kasym-Jomart Tokayev, il Kazakstan persegue, con accortezza
ma con molta chiarezza, stimolato dalla pressioni occidentali e dal timore di
eventuali rivendicazioni territoriali russe, una politica di progressivo
distacco dalla Russia, con capitoli anche clamorosi. L’80% del petrolio kazako
viene esportato verso l’Europa attraverso il porto russo di Novorossisk, che
“casualmente” ha sofferto negli ultimi tempi di numerosi guasti e intoppi.
Nell’ottobre scorso Tokayev ha declinato l’invito pressante della Russia a
entrare nei Brics, destando un’immediata reazione russa: blocco immediato
all’importazione di tutta una serie di prodotti agricoli kazaki.
Ma l’episodio forse più eclatante e rivelatore è stato l’ultimo. L’anno
scorso, con un referendum che ha ottenuto oltre il 71% di sì, il Kazakstan ha
deciso di costruire una centrale nucleare. Tema spinoso per un Paese che, ai
tempi dell’Urss, ha sopportato sul proprio territorio oltre 450 test nucleari.
Decisa la costruzione della centrale, è stato quasi naturale, per i kazako,
rivolgersi all’agenzia statale russa Rosatom, che nel settore ha maturato una
grande esperienza e affidabilità. Poi, poche settimane fa, il colpo di scena:
Rosato viene liquidata e la costruzione della centrale riaffidata alla cinese
CNNC. Non solo: i portavoce del Governo kazako hanno detto senza mezzi termini
che la decisione è stata presa per “diversificare i rapporti di politica
estera”.
Per l’attacco ucraino alle basi russe, quindi, si apre una “pista kazaka”. Perché portarli dal
Kazakstan sarebbe stato il modo più semplice per far arrivare i droni in
Russia. Perché il Kazakstan sta accumulando una serie di contenziosi politici
ed economici con la Russia e ha tutto l’interesse (vedi export, del petrolio ma
non solo) a coltivare buoni rapporti con l’Europa. Perché il Kazakstan, non
meno dei Baltici, teme la Russia e ha solo da guadagnare da un
ridimensionamento delle capacità belliche e dello spazio politico della Russia.
Non dimentichiamo che il Kazakstan fu il primo Paese, prima ancora
dell’Ucraina con il Memorandum di Budapest del 1994, a rinunciare nel
1991 all’arsenale nucleare, trasferendo 1.400 testate alla Russia. E di certo
gli eventi del Donbass prima e della guerra poi non hanno contribuito a
tranquillizzarlo.
Nessun commento:
Posta un commento