Ha un cerchietto nero che le incornicia la fronte e i capelli raccolti dietro la nuca. Ding è magrissima, avvolta in una tuta. Ha sessant’anni. Fino allo scorso settembre faceva la baby sitter in una famiglia di Roma, lavorava con due bambini, di due e cinque anni. Poi un sabato ha deciso di entrare nei giardini del Quirinale, la residenza del presidente della repubblica, per una visita turistica, ma è stata fermata dalla polizia, che le ha chiesto di mostrare i documenti. Ha preso dalla borsa il suo passaporto cinese, ma quando le hanno detto che serviva anche il permesso di soggiorno, la donna è scoppiata a piangere.
Non aveva nessun permesso di soggiorno da mostrare. Così gli agenti l’hanno portata prima in questura e poi nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, a venti chilometri dal centro di Roma. Entrando nella recinzione che circonda il centro, Ding è scoppiata di nuovo a piangere. Grate alte quattro metri circondano la struttura che al momento ospita 49 persone. Tutte donne, dopo che la sezione maschile è stata chiusa nel 2015, in seguito a una rivolta.
Cinque anni fa Ding è arrivata in Italia in aereo con un visto turistico, come molte connazionali, poi quando il visto è scaduto è rimasta nel paese. In Cina faceva l’insegnante di danza ma, rimasta sola dopo la morte del marito e il trasferimento dell’unico figlio in un’altra città, ha deciso di emigrare per guadagnare qualche soldo in più e garantirsi una vecchiaia più serena.
Vite sospese
Non conosceva nessuno quando è arrivata a Roma, ha cominciato a frequentare regolarmente un luogo di culto della comunità cinese romana e grazie al passaparola ha trovato diverse offerte di lavoro. “È troppo anziana per lavorare nelle fabbriche cinesi in Italia”, mi spiega Yumei, la mediatrice culturale che lavora nel Cpr. Così ha trovato lavoro come baby sitter in diverse famiglie. Da settembre è rinchiusa nel centro di detenzione di Ponte Galeria, in attesa che si decida della sua sorte, e condivide la camerata con un gruppo di connazionali.
Non conosceva nessuno quando è arrivata a Roma, ha cominciato a frequentare regolarmente un luogo di culto della comunità cinese romana e grazie al passaparola ha trovato diverse offerte di lavoro. “È troppo anziana per lavorare nelle fabbriche cinesi in Italia”, mi spiega Yumei, la mediatrice culturale che lavora nel Cpr. Così ha trovato lavoro come baby sitter in diverse famiglie. Da settembre è rinchiusa nel centro di detenzione di Ponte Galeria, in attesa che si decida della sua sorte, e condivide la camerata con un gruppo di connazionali.
Entrare in un centro di detenzione, in un Cpr, in cui sono rinchiusi immigrati che sono stati trovati sul territorio italiano senza documenti di soggiorno validi è un’occasione abbastanza unica per capire chi sono i “clandestini”, cioè gli irregolari descritti spesso durante le campagne elettorali come una massa di persone, indistinta e pericolosa.
Molte delle donne rinchiuse nel Cpr di Roma sono operaie, che lavoravano nelle fabbriche tessili a Prato o nel nord d’Italia. Una di loro mostra i segni di un incidente avvenuto mentre era alla macchina da cucire. Sono state portate nel centro, l’unico con una sezione femminile dei sette al momento attivi in Italia, dopo essere state trovate senza permesso di soggiorno durante una retata della polizia.
“Da qualche tempo le donne cinesi sono il gruppo più numeroso nel Cpr, seguite dalle donne nigeriane e dalle latinoamericane”, conferma il direttore del Cpr Enzo Lattuga. La maggior parte di loro ha la stessa storia di Ding: arrivano in Italia in aereo con un visto turistico che lasciano scadere e poi rimangono sul territorio nazionale. Entrano nei Cpr, ma non sono rimpatriate, perché non ci sono accordi di riammissione con la Cina che, come molti paesi di origine degli immigrati, non accetta di riammettere sul proprio territorio persone che in Italia lavorano e producono una ricchezza che spesso viene inviata a casa attraverso le rimesse.
Ding porta al collo un rosario che le hanno regalato le suore: vengono a trovarla una volta alla settimana. Mi mostra anche delle cartoline che tiene sotto il materasso: “Buon Natale e felice anno nuovo”, c’è scritto in una. Le hanno portato anche delle statuine di Gesù, che tiene al capo del letto. Ding non è religiosa, ma tiene molto al rapporto con le suore, racconta la mediatrice, perché è l’unica forma di contatto con il mondo esterno. Per lei e per le altre la cosa più difficile è dormire, il tempo sembra dilatato e le notti sono popolate di incubi legati all’incertezza sul futuro, racconta Ding.
La camerata è spoglia, la luce filtra da piccole finestre rettangolari che danno sul cortile recintato. Alcune donne sono sedute intorno a un tavolo e colorano delle immagini di maiali. “Festeggiamo l’arrivo dell’anno del maiale che per noi rappresenta l’abbondanza, speriamo che questo nuovo anno ci porti la libertà”, afferma Ding, che non è riuscita a dire a nessuno dei suoi familiari di essere finita in un centro di detenzione. “Non voglio che soffrano per me, sapendomi rinchiusa senza motivo tra queste grate”.
La nuova sezione maschile
La percezione del tempo nel centro di detenzione è completamente diversa da quella all’esterno, i giorni sono lunghissimi, tutti uguali, segnati dall’ombra del sole che si proietta sul cemento. “Voglio camminare, voglio essere libera”, dice Sofia, una donna nigeriana di quarant’anni che si trova nel centro di detenzione da dieci mesi, a causa di alcune lungaggini burocratiche. Il suo è una specie di record se si pensa che il tempo medio di permanenza delle detenute, nel mese di dicembre, è stato di quaranta giorni. Sofia ha un problema agli occhi e non ci vede bene, inoltre ha le ginocchia gonfie. Viene da Benin City, nello stato di Edo. “Non abbiamo commesso reati, è difficile per noi stare qui dentro, senza nessuna prospettiva e senza nessuna colpa”.
La percezione del tempo nel centro di detenzione è completamente diversa da quella all’esterno, i giorni sono lunghissimi, tutti uguali, segnati dall’ombra del sole che si proietta sul cemento. “Voglio camminare, voglio essere libera”, dice Sofia, una donna nigeriana di quarant’anni che si trova nel centro di detenzione da dieci mesi, a causa di alcune lungaggini burocratiche. Il suo è una specie di record se si pensa che il tempo medio di permanenza delle detenute, nel mese di dicembre, è stato di quaranta giorni. Sofia ha un problema agli occhi e non ci vede bene, inoltre ha le ginocchia gonfie. Viene da Benin City, nello stato di Edo. “Non abbiamo commesso reati, è difficile per noi stare qui dentro, senza nessuna prospettiva e senza nessuna colpa”.
Sofia passa le giornate a giocare a dama con le sue compagne di cella con una scacchiera di cartone che si sono costruita da sole. Rachel è più giovane di Sofia e parla italiano molto meglio, anche se è in Italia da meno tempo. Anche lei viene dallo stato di Edo, anche lei è nigeriana. “Dovrebbero darci un permesso di soggiorno per cercare lavoro, a tutti si deve dare almeno una possibilità, un’occasione, se ci dessero un permesso di almeno sei mesi per uscire di qui e cercare lavoro, sono sicura che riusciremmo a trovarlo”, dice Rachel.
Racconta che era riuscita a trovare un lavoro in nero e un appartamento a Roma, ma anche lei è stata fermata dalla polizia e ora rischia di essere espulsa, perché la Nigeria è uno dei pochi paesi con cui l’Italia ha degli accordi di rimpatrio. Tra le nigeriane che sono rinchiuse nel Cpr di Ponte Galeria ci sono tante vittime di tratta, un sistema che riduce le ragazze in semischiavitù per farle prostituire sulla strada.
“Da qualche tempo al Cpr facciamo venire delle associazioni antitratta – Be Free, Differenza donna, Fiore nel deserto – per individuare questo tipo di casi. Si tratta di un progetto avviato insieme alla regione Lazio”, spiega il direttore del centro. “Da quando è partito, abbiamo formalizzato 25 denunce contro gli sfruttatori”, continua.
La novità è che entro la fine di febbraio sarà aperta anche la sezione maschile del centro, che quindi raddoppierà la sua capienza. La nuova sezione prevederà un’ulteriore restrizione dei movimenti delle persone recluse che al momento possono invece muoversi all’interno del centro, nella sala mensa e nelle diverse camerate. Invece nella nuova ala i detenuti non potranno spostarsi dai settori assegnati e i pasti saranno distribuiti nelle celle.
In ogni settore potranno essere rinchiuse un massimo di 24 persone per un totale di 126 posti. La nuova struttura preoccupa il direttore del centro, Enzo Lattuga, che teme una maggiore difficoltà di gestione e un aumento della tensione dovuto alla limitazione della libertà di movimento. “Nella storia di questo centro non abbiamo mai avuto tentativi di fuga, ma ci sono state molte rivolte, in parte legate alla vecchia gestione, in parte legate alle limitazioni che i reclusi devono affrontare”, spiega il direttore. “Non si tratta di essere buonisti, ma pragmatici, assicurare condizioni di vita degne alle persone recluse nel centro garantisce sicurezza per tutti, così come assicurargli l’assistenza sanitaria e psicologica”, afferma.
“Anche perché nove reclusi su dieci dopo qualche mese sono rilasciati e ritornano sulla strada”, conclude. A dicembre aveva fatto discutere la decisione del ministero dell’interno guidato dal leghista Matteo Salvini di negare alle donne rinchiuse nel Cpr di Roma la possibilità di poter partecipare a uno spettacolo di danza, organizzato dal Cemea del Lazio.
Il garante regionale per i diritti dei detenuti Stefano Anastasia aveva commentato: “Spiace che il ministero dell’interno non abbia autorizzato lo svolgimento di un’attività promossa da questo ufficio per alleviare le condizioni di solitudine e di sofferenza nei luoghi di privazione della libertà della regione Lazio nel corso delle festività natalizie e di fine anno”.
I Centri di permanenza per il rimpatrio sono luoghi di reclusione dove sono trattenuti i cittadini stranieri irregolari in attesa di essere identificati ed espulsi. Sono stati introdotti per la prima volta in Italia nel 1998 con la legge Turco-Napolitano e chiamati prima Centri di permanenza temporanea e assistenza (Cpta), poi Centri di identificazione ed espulsione (Cie). Nel 2017 il governo Gentiloni ha deciso di investire su questi centri, costruendone uno in ogni regione per un totale di 1.600 posti. L’obiettivo era quello d’incrementare il numero dei rimpatri.
Attualmente sono attivi sette Cpr, rispetto ai venti previsti inizialmente dal decreto Minniti-Orlando, diventato legge nell’aprile del 2017. Molti consigli regionali si sono infatti opposti alla riapertura di queste strutture, che erano state dismesse nel corso degli ultimi vent’anni, in primo luogo a causa delle violazioni dei diritti umani riscontrati che provocavano continue rivolte e inoltre per la loro sostanziale inefficacia.
Il rapporto sui Centri di identificazione ed espulsione della commissione diritti umani del senato affermava già nel febbraio 2016 che il 50 per cento delle persone raggiunte da un decreto di espulsione e transitate da questi centri di detenzione in effetti non viene mai rimpatriato perché i costi sono alti e perché i paesi che hanno formalizzato delle intese di riammissione con l’Italia sono pochi: l’Egitto nel 2007, la Tunisia nel 2011 e più di recente la Nigeria e il Marocco. Esistono degli accordi di collaborazione infine con la polizia del Gambia e del Sudan.
Nonostante questo, il decreto immigrazione e sicurezza, anche detto decreto Salvini, approvato nell’ottobre del 2018, rafforza la rete dei Cpr, aumentando gli investimenti per i rimpatri e addirittura estendendo il tempo di permanenza massimo nei Cpr, che è passato da tre a sei mesi.
“L’obiettivo dei Cpr sembra essere solo propagandistico”, afferma il consigliere regionale Alessandro Capriccioli, in visita nel centro di Ponte Galeria. “In questo momento in Italia ci sono circa 500 persone detenute nei Cpr, a fronte di 600mila irregolari presenti sul territorio. Lo scorso anno sono state rimpatriate in tutto circa seimila persone. Il ministro Salvini insiste molto sulla retorica delle espulsioni, ma mi sembra evidente che questi centri servano solo a comunicare l’idea che si stia facendo qualcosa, senza che questo sia vero”, continua il consigliere.
“Inoltre spesso si usa questa retorica, contrapponendola a quella dell’invasione e degli sbarchi, ma all’interno del Cpr di Ponte Galeria ci sono stranieri che in Italia sono arrivati da anni, alcuni da decine di anni. Quasi nessuno di loro è arrivato via mare con l’ultima ondata migratoria”, continua Capriccioli. “Qualcuno è addirittura nato nel nostro paese come nel caso di molte donne rom, che sono apolidi, e finiscono qui dentro perché non hanno ancora ottenuto il riconoscimento dello status”.
Delle circa 484 persone che nel 2018 sono state recluse nel Cpr di Roma, solo il 5 per cento è stato rimpatriato. Nella maggior parte dei casi, le persone escono dal centro perché fanno richiesta di asilo e il giudice non convalida il fermo amministrativo, un’altra buona parte dei reclusi è dimessa perché non viene identificata attraverso le ambasciate e i consolati dei paesi di origine. Le espulsioni che avvengono in seguito alla detenzione e all’identificazione sono una percentuale minima.
Anche per questo, secondo la consigliera regionale Marta Bonafoni, capogruppo alla regione Lazio della Lista civica Zingaretti, l’innalzamento delle barriere e delle recinzioni che circondano il centro servono solo a mandare un messaggio politico che criminalizza gli irregolari. “Il muro che passa da quattro a otto metri preoccupa, così come il clima politico che cambia e che comincia a sentirsi anche nei Cpr”, commenta Bonafoni, che dall’inizio della legislatura si è impegnata per la tutela dei diritti dei detenuti insieme a Paolo Ciani, capogruppo regionale di Centro solidale, e ad Alessandro Capriccioli, capogruppo regionale di Più Europa.
Tra le storie delle detenute del Cpr di Roma spicca quella di una donna rom, nata a Mostar, in Bosnia-Erzegovina, e trasferita in Italia all’età di due mesi, quando la famiglia è scappata dalla guerra nei Balcani. La donna non è mai stata iscritta all’anagrafe, né nel paese di origine dei genitori né in Italia, dove ha vissuto per tutta la vita, senza documenti.
“Sono entrata nel Cpr per tre volte, ogni volta alla fine mi devono lasciare andare perché non riescono a identificarmi. La mia famiglia, i miei figli sono tutti in Italia, ora ho anche un compagno italiano, ma io non esisto da nessuna parte”, racconta. Sul suo caso limite stanno lavorando gli avvocati che per lei chiedono il riconoscimento dell’apolidia. “Questo centro è come un manicomio”, spiega la donna. “Ci sono tutti casi particolari”, continua.
Ma a guardare da vicino le donne rinchiuse a Ponte Galeria si riconoscono storie di ordinario sfruttamento: si tratta di colf, badanti, baby sitter, operaie tessili, lavoratrici in nero, prostitute ed ex prostitute, rom cresciute ai margini della città, senza documenti e senza residenza. “In tanti anni di lavoro qui dentro ho capito che amministrare la giustizia significa valutare le storie di queste persone caso per caso”, afferma il direttore del centro Enzo Lattuga. Su un muro alle sue spalle con una vernice verde brillante qualcuno ha scritto: “La tranquillità è importante, ma la libertà è tutto”.
Nessun commento:
Posta un commento