Lo storico Howard Zinn ha contato 103
interventi militari USA nel mondo fra il 1798 e il 1895, un calcolo che non
tiene conto di tutti quelli – un’infinità – nel corso del ‘900 e neppure di
quello auspicato dal futuro presidente Theodore Roosevelt, allora Assistente
segretario alla Marina, che in una lettera del 1897 scriveva di “sperare in una
qualsiasi guerra perché credo che questo paese ne abbia bisogno”. In
effetti l’anno dopo, 1898, gli Stati uniti dichiararono guerra alla Spagna,
naturalmente, parole di Roosevelt, sia in nome “dell’umanità e per il bene dei
cubani” sia come “ulteriore passo verso la completa liberazione dell’America
dal dominio europeo”.
Sono passati 120 anni e lo scenario è
ancora lo stesso. Perfino le parole – la narrazione, come si usa dire adesso –
sono praticamente le stesse. Venezuela, gennaio-febbraio 2019. Il paese deve
essere liberato dal giogo chavista, con qualsiasi mezzo, sia in nome dei
diritti umani e per il bene dei venezuelani, sia come ulteriore passo verso la
completa liberazione dell’America latina dalla macchia rossa del quindicennio
di governi di sinistra o quantomeno progressisti , e dalla crescente
interferenza di Cina e Russia.
E’ la riproposizione della vecchia
Dottrina Monroe, enunciata nel 1823 e attualizzata alle condizioni del secolo
XXI. Con una batteria di ultradestri già schierata – Duque e il suo burattinaio
Uribe in Colombia, Macri in Argentina, Bolsonaro in Brasile, Piñera in Cile –
Washington guarda al Venezuela chavista come all’ultima pedina del domino da
abbattere (poi non resteranno che Cuba e Bolivia in attesa di “scoprire” il
Messico di López Obrador) prima del ritorno dell’America latina all’ovile del
cortile di casa.
Petrolio, come sempre. Ma non
solo. Dopo l’auto-etero-proclamazione a presidente “incaricato”, il 23
gennaio scorso, del carneade Juan Guaidó (un pollo d’allevamento ben conosciuto
dalla CIA e dal NED, National Endowment for Democracy, ma sconosciuto al mondo
esterno e, secondo un sondaggio di una settimana prima
dell’auto-etero-proclamazione, all’81% dei venezuelani), il Venezuela corre sul
filo. E più passa il tempo, più quel filo rischia di spezzarsi.
Ad oggi l’intervento USA, aperto e
neanche più dissimulato, non è ancora al livello dell’attacco militare. Ma nei
frenetici giorni successivi al 23 gennaio, mentre si moltiplicavano gli appelli
al dialogo e ai negoziati, il vice di Trump, Mike Pence ha detto chiaro e tondo
che ormai “non è più il tempo del dialogo ma dell’azione” e lo stesso pollo
d’allevamento Guaidó per la prima volta non ha escluso il suo appoggio a un
intervento militare USA (“faremo tutto quello che è necessario per salvare vite
umane”: una tempo, dall’altra parte della cortina di ferro si chiamava
richiesta dell’ “aiuto fraterno” di Mosca) e in un articolo sul New York Times
ha scritto che è possibile finirla con il regime dell’ “usurpatore” Nicolás
Maduro “con un minimo di spargimento di sangue”.
Un intervento “umanitario” a guida USA
o, ancor meglio, accompagnato da un “esercito di liberazione” latino-americano
sarebbe però estremamente rischioso, con ricaschi imprevedibili. Il dramma potrebbe
finire in tragedia. Al momento Guaidó e chi lo manovra non vogliono sentir
parlare di dialogo, mediazione o compromessi, né quelli di papa Francesco né
quelli di Messico-Uruguay (il “meccanismo di Montevideo” abortito sul nascere,)
né quelli proposti dal segretario dell’ONU António Guterres. Vogliono tutto e
subito. Maduro si dice pronto al dialogo per guadagnare tempo, offre elezioni
per l’Assemblea nazionale (già in mano all’opposizione dal 2015) ma rifiuta di
rigiocarsi il mandato presidenziale del maggio 2018.
Ancora non è chiaro a chi giovi il
tempo. Agli USA (con annessa appendice Guaidó) per portare a termine lo
strangolamento? A Maduro per disvelare fino in fondo la natura golpista e il
marchio tardo-colonialista dell’operazione 23 gennaio? Di certo non alla gran
massa dei venezuelani, stremati da anni di guerra civile strisciante, penuria,
iper-inflazione, violenza, boicottaggi.
Ma è altrettanto certo che, almeno
finora, in Venezuela l’opposizione, golpista e no, da sola non ce la può fare
con il regime, più o meno buono che sia, avviato vent’anni fa da Hugo Chávez.
Maduro non si è dimostrato all’altezza del suo predecessore. La sua politica
sicuramente e probabilmente anche la sua etica possono, e in buona misura
devono, essere messe in discussione. Ma lui rimane il presidente costituzionale
eletto in elezioni considerate passabilmente pulite da gente come l’ex premier
spagnolo Zapatero e l’ex-presidente USA Carter, non proprio estremisti rossi.
Il resto è golpismo (“un golpe è un
golpe”, ha detto Alfred de Zayas, rapporteur dell’ONU in Venezuela),
neo-colonialismo allo stato puro (Noam Chomsky), vecchia e già vista “storia di
regime change” (Roger Waters, il fondatore dei mitici Pink Floyd). Resi ancor
più insopportabili dalla penosa subalternità agli USA di Trump, Pence, Bolton,
Abrams, mostrata da almeno 20 dei 28 paesi della Unione europea subito corsi ad
arruolarsi fra quella sessantina che hanno riconosciuto il golpe.
(Una parentesi sull’Italia. Che sta a
metà, che come ha scritto spiritosamente qualcuno apre le porte ai golpisti ma
non ancora le braccia, l’Italia del sì-però-no e del no-però-sì. Con Mattarella
che spinge tornando al 1999, quando era ministro della difesa del governo
D’Alema e mandò i caccia italiani targati NATO a bombardare la Serbia, e
facendo il Napolitano del 2011 che forzò un recalcitrante Berlusconi a
partecipare all’avventura libica contro Gheddafi. Con il “sovranista” Salvini
che fa a chi ce l’ha più duro con la “sinistra” alla Renzi. E con almeno una
parte dei Cinquestelle che per una volta assumono una posizione ragionevole.
Chiusa parentesi.
In Venezuela, ora come ora gli scenari
possibili sono tre: una rivolta delle forze armate nel caso gli USA riescano a
rompere il cordone ombelicale che le lega al chavismo; una (improbabile)
rinuncia di Maduro per l’insostenibilità delle pressioni politiche e delle
sanzioni economiche internazionali; un intervento militare straniero sul tipo
di quello del 1989, eufemisticamente definito “chirurgico” (tremila morti), con
cui gli USA invasero Panama e catturarono Manuel Noriega, ex agente della CIA
caduto in disgrazia.
Ma il Venezuela non è Panama. E Chávez
non era Noriega. A meno di una implosione del regime, il rischio di una
guerra civile, probabilmente sanguinosa, è reale. Si vedrà allora se i pruriti
umanitari di Stati Uniti ed Europa in difesa della popolazione venezuelana
assoggettata al chavismo finiranno come nello Yemen dove i sauditi affamano e
sterminano a man salva la popolazione nel silenzio generale (forse perché le vittime
sono arabi e le armi all’Arabia saudita gliele vendiamo noi occidentali).
Nessun commento:
Posta un commento