Uno dei momenti chiave del film Una notte di
dodici anni di Alvaro Brechner è un incontro in carcere fra Pepe
Mujica e sua madre. Il futuro
presidente dell’Uruguay, a quel punto in galera già da qualche anno, dà
evidenti segni di cedimento. Dice di sentire delle voci, appare sofferente e
smarrito: è stremato dalle torture, dalla
brutalità, dall’isolamento in luoghi insopportabili.
Il Pepe
davanti alla madre cerca complicità più che conforto: sembra chiedere
l’autorizzazione ad arrendersi, a cadere in uno stato permanente di semi
coscienza, senza più lottare, senza più pensare a un possibile dopo. La madre intuisce lo stato d’animo del
figlio e reagisce con forza: «Mamma un cazzo», dice a muso duro, e scuote il
prigioniero: non devi mollare, non devi dargliela vinta.
È andata
proprio così: il Pepe resterà in piedi, lucido e determinato, come i suoi otto
compagni di prigionia (nel film se ne vedono due), militanti Tupamaros tenuti
in ostaggio dai militari golpisti, che minacciavano di ucciderli in caso di
attentati o altre azioni della resistenza armata. Il Pepe, al crepuscolo del
regime, rivedrà sua madre fuori dal carcere.
L’incontro
in parlatorio è importante perché documenta un aspetto decisivo nella dinamica
della tortura (Una notte di dodici anni è un
film sulla tortura, come non se ne vedevano da tempo). Mostra che la tortura si combatte attraverso il
contatto umano, con la forza dell’empatia. Il Pepe e i suoi compagni
resistono agli abusi e all’isolamento perché riescono, sia pure saltuariamente
e fra spaventose difficoltà, a comunicare fra loro (a piccoli colpi sui muri) o
con altre persone, a volte carcerieri disposti a dismettere per qualche ragione
la maschera imposta dal ruolo, a volte familiari ammessi a rari colloqui. Come
i vampiri non sopportano la luce del sole, così la
tortura può essere sconfitta quando è sottoposta al vaglio delle relazioni
sociali, al calore del contatto umano. Vale per l’individuo che deve
affrontarla e trae dagli altri l’energia per non soccombere; vale per la
società nel suo insieme.
Nei giorni scorsi è stato pubblicato da due agenzie
dell’Onu (Unsmil e Ohrhc) un drammatico rapporto su quanto davvero avviene nei
centri di detenzione per migranti in Libia. Sono testimonianze angoscianti: stupri seriali, abusi innominabili,
violenze continuate, torture in diretta telefonica per estorcere denaro ai
parenti, vendite al mercato degli schiavi.
Si potrebbe
dire: niente di nuovo. Da tempo sappiamo, o crediamo di sapere, che la Libia è
il non-Stato canaglia per eccellenza, un Paese dilaniato da signori e
signorotti della guerra. Lo hanno documentato giornalisti, registi, ong, la
stessa Onu in passato. Ma queste verità non hanno mai fatto breccia: non nelle
istituzioni e nemmeno nell’opinione pubblica.
Si sono stretti accordi con sedicenti “governi”,
“sindaci” e “guardie costiere” della Libia fingendo di non sapere degli stupri, degli abusi, delle torture. Abbiamo
chiuso occhi, mente e cuore pur di portare a casa l’unico risultato ambito:
poter dichiarare a microfoni aperti «flussi ridotti», «porti chiusi», «basta
coi trafficanti d’uomini».
Parole
false, consapevoli menzogne, ma ripetute così spesso, così a lungo, che alla
fine ci troviamo a vivere in una società che non riesce più a comprendere e
capire chi sono i quarntanove della Sea Watch lasciati a vagare in mare per
giorni e giorni o che cosa
nascondono le cifre sulla riduzione dei flussi (cinica
espressione presa dal linguaggio tecnico, tanto orribile quanto indicativa
della disumanizzazione in corso).
I segregati
nei campi in Libia sono come Pepe Mujica: umiliati e torturati, prossimi a
cedere, in balìa di carcerieri protetti – di fatto – da chi pretende di
“governare” l’immigrazione a prescindere dalle persone, ignorando le loro
sofferenze, oltre che le loro aspirazioni.
La tortura è fra noi, ne siamo complici, e tutto sta per crollare: il
nostro senso di civiltà, la dottrina dei diritti umani, ciò che da tempo
intendiamo per “democrazia”. L’indifferenza per la negata dignità della
persona, di ogni persona, sta diventando strutturale. Ci
vorrebbe qualcuno, come la madre di Pepe Mujica, capace di urlarci: «Democrazia
un cazzo».
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