l’Italia che abbiamo
conosciuto sta per scomparire, ritorna l’età delle Signorie e dei Principati,
che adesso si chiamano Regioni.
e se l’affermazione vi
sembra esagerata, non vi resta che seguirmi in un breve esame della recente
storia del regionalismo in Italia.
. . .
la costruzione dello stato
italiano fu concretamente avviata 160 anni fa: il 10 gennaio è caduto
l’anniversario dimenticato del discorso della corona al Parlamento di Vittorio
Emanuele II del 1859, che col richiamo finale al “grido di
dolore” che si levava da tanti luoghi dell’Italia, aprì la porta alla
guerra dell’Impero d’Austria contro il Regno di Sardegna dei Savoia, alleato
alla Francia, e dunque a quel processo che nel giro di due anni, con la
successiva spedizione dei Mille, portò alla nascita del Regno d’Italia.
a Cavour, che personalmente
preparò il discorso del re, la frase fu dettata da Napoleone III, l’imperatore
dei francesi, che voleva provocare l’Austria alla guerra, come in effetti fu.
il nuovo regno fu costruito
sul rigidissimo modello centralistico francese voluto dai Savoia e si
dissolse alla loro caduta col referendum del 1946 e la Repubblica: erano stati
75 anni di uno stato autoritario per larga parte della sua storia governato da
un’elite di censo, e poi conclusi coerentemente dal ventennio fascista, che
aveva subito svuotato il suffragio universale (maschile) appena introdotto: le
Regioni d’Italia esistevano anche allora, ma erano prive di particolari poteri.
. . .
la Costituzione
del 1948 era fondata invece sulla valorizzazione delle Regioni, che però
rimasero ancora per oltre dieci anni una vuota parola: si provava a superare il
centralismo dei Savoia, di Cavour, Mazzini e Garibaldi, per riscoprire l’idea
diversa dell’unificazione nazionale che avevano avuto Gioberti e Cattaneo, che
avevano immaginato entrambi un’Italia federale, dal punto di vista cattolico il
primo, secondo un pensiero radicalmente democratico l’altro.
il federalismo dunque è
stato due secoli fa la bandiera di una visione socialmente più avanzata, che
voleva contrapporre all’autoritarismo dello stato centrale le risorse del
radicamento nelle scelte del territorio.
nulla di drammatico in se
stesso nel federalismo, che struttura stati come la Germania, con i suoi 16
Laender o gli Stati Uniti con i suoi 52 stati; ma certamente il federalismo
funziona in realtà caratterizzate da una solida identità nazionale.
ma le Regioni in Italia
furono realizzate concretamente come enti dotati di effettivi poteri soltanto a
partire dal 1970, dopo anni di rinvii, avvenuti anche in contrasto esplicito
con la IX Disposizione Transitoria della Costituzione che ne prevedeva l’avvio «entro
tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione».
ma la preoccupazione nasceva
dalla solida maggioranza delle sinistre nelle tre Regioni rosse di
Emilia-Romagna, Toscana, Umbria.
disse il ministro
dell’Interno Scelba nel 1953 nel Parlamento che decideva l’ennesimo rinvio:
La questione fu già posta dinanzi all’altro ramo del Parlamento, ove si
domandò cosa avverrebbe il giorno in cui alcune regioni d’Italia avessero
un’amministrazione dominata da partiti a carattere totalitario. […] La preoccupazione per il futuro dell’ordine democratico mi sembra
talmente legittima che se avessi la convinzione che l’attuazione delle Regioni
potrebbe compromettere seriamente lo sviluppo democratico del nostro Paese, non
avrei nessuna difficoltà a manifestarla al Senato e a chiedere che l’attuazione
dell’ordinamento regionale venisse rinviata a data più tranquilla e sicura.
le preoccupazioni si
sciolsero e l’ordinamento regionale fu concretamente avviato soltanto quando, a
partire dal 1962, con i governi di centro-sinistra si ruppe l’alleanza fra
socialisti e comunisti; e quindi le Regioni cominciarono a funzionare
concretamente quarant’anni fa, ma senza grandi competenze.
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fu con la riforma
costituzionale del 2001, voluta dal tramontante governo D’Alema in vista di possibili
alleanze con la Lega Nord di Bossi, che le competenze delle Regioni furono
drasticamente ampliate e si posero le premesse della situazione attuale: http://www.parlamento.it/parlam/leggi/01003lc.htm
riforma farraginosa,
contorta, confusa nelle competenze, ma confermata da un referendum chiesto
quell’anno dall’opposizione di destra, al quale partecipò soltanto un terzo
degli aventi diritto, che la confermarono con poco meno di due terzi dei voti:
quindi riforma regionale approvata di fatto da circa il 20% degli elettori.
da allora le Regioni
funzionano come discreti centri di potere, per ora soprattutto in campo
sanitario, e ottimi luoghi di pascolo e rimborsi truffaldini per politici disonesti:
specchio demoralizzante di un paese che non ha più altra identità che i soldi.
e altro che decentramento!
la Lombardia è grande quasi come il Belgio e il Veneto ha più o meno gli
abitanti di Slovenia e Croazia messe assieme…: le Regioni sono quasi
altrettanto lontane dai loro abitanti dello stato centrale e hanno un quadro
dirigente e una qualità dei funzionari indubbiamente peggiore.
e se dovessimo, non dico
abolirle, ma ridimensionarle e trasformarle in enti di secondo livello? a me
pare che la vera dimensione della democrazia locale sia quella della provincia
(eppure parlo da una provincia, quella di Brescia, che da sola ha più abitanti
di due regioni intere sommate: il Trentino e il Molise).
già, perché un’altra
stranezza delle nostre Regioni è l’estrema disomogeneità strutturale, e la loro
popolazione spazia tra la scala dei 100.000 abitanti e quella dei 10 milioni;
insomma il rapporto tra la Regione più piccola e la più grande è di
1:100.
. . .
ma il dibattito attuale sul
regionalismo allargato non ha molto a che fare col passato, che qui è stato
richiamato molto sommariamente soltanto per delineare uno sfondo di contrasto.
la tendenza storica
evidente, a cui ha spalancato le porte del resto la cosiddetta sinistra
italiana, è quella che nasce da una cosa semplice che si chiama perdita del
senso civico e del senso della responsabilità comune: la frantumazione dello
stato unitario, assieme al disprezzo per il Risorgimento, è stata del resto la
parola d’ordine con cui è nata la Lega che si chiamava Nord, prima che il suo
modello di egoismo locale diventasse un punto di riferimento comune per una
parte della popolazione inb tutto il paese.
oggi l’allargamento in corso
delle competenze regionali ha tutta la sostanza dell’arrogante ascesa al potere
di camarille politiche locali, che tuttavia raccolgono un consenso sufficiente
per governare, nell’indifferenza di cittadini rassegnati o nel loro lasciarsi
cammellare alle urne regionale in nome di qualche opposta tifoseria
para-politica, e soprattutto dell’appello all’egoismo di cortile, che qui –
pare – funziona sempre.
quindi, aldilà delle scelte
concrete che si prenderanno, il processo storico generale è chiaro: l’Italia
non soltanto desidera isolarsi dall’Europa, dalla sua storia democratica e dai
suoi valori, peraltro sempre più incerti, ma desidera poi anche disgregarsi
all’interno fra potentati diversi, caratterizzati sempre di più da
livelli differenziati di prestazioni sociali, di assistenza, di economia e
perfino di vita e di lingua.
ed è così che l’esaltazione
dell’identità trascolora nel fascino della diseguaglianza.
. . .
il paradosso finale è che lo
slogan stesso prima gli italiani, insulto a due secoli di tradizione democratica
mondiale, sta perdendo di senso, e a breve dovremo chiederci piuttosto: prima i
lombardi o i veneti? prima i siciliani o i sardi?
la questione potrebbe essere
decisa nei campi di calcio e negli stadi, ma, dando tempo al tempo, si potrebbe
anche tornare a giocarsela sui campi di battaglia.
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