lunedì 18 febbraio 2019

prima gli italiani, che non ci saranno più – bortocal




l’Italia che abbiamo conosciuto sta per scomparire, ritorna l’età delle Signorie e dei Principati, che adesso si chiamano Regioni.
e se l’affermazione vi sembra esagerata, non vi resta che seguirmi in un breve esame della recente storia del regionalismo in Italia.
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la costruzione dello stato italiano fu concretamente avviata 160 anni fa: il 10 gennaio è caduto l’anniversario dimenticato del discorso della corona al Parlamento di Vittorio Emanuele II del 1859, che col richiamo finale al “grido di dolore” che si levava da tanti luoghi dell’Italia, aprì la porta alla guerra dell’Impero d’Austria contro il Regno di Sardegna dei Savoia, alleato alla Francia, e dunque a quel processo che nel giro di due anni, con la successiva spedizione dei Mille, portò alla nascita del Regno d’Italia.
a Cavour, che personalmente preparò il discorso del re, la frase fu dettata da Napoleone III, l’imperatore dei francesi, che voleva provocare l’Austria alla guerra, come in effetti fu.
il nuovo regno fu costruito sul rigidissimo modello centralistico francese voluto dai Savoia e si dissolse alla loro caduta col referendum del 1946 e la Repubblica: erano stati 75 anni di uno stato autoritario per larga parte della sua storia governato da un’elite di censo, e poi conclusi coerentemente dal ventennio fascista, che aveva subito svuotato il suffragio universale (maschile) appena introdotto: le Regioni d’Italia esistevano anche allora, ma erano prive di particolari poteri.

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la  Costituzione del 1948 era fondata invece sulla valorizzazione delle Regioni, che però rimasero ancora per oltre dieci anni una vuota parola: si provava a superare il centralismo dei Savoia, di Cavour, Mazzini e Garibaldi, per riscoprire l’idea diversa dell’unificazione nazionale che avevano avuto Gioberti e Cattaneo, che avevano immaginato entrambi un’Italia federale, dal punto di vista cattolico il primo, secondo un pensiero radicalmente democratico l’altro.
il federalismo dunque è stato due secoli fa la bandiera di una visione socialmente più avanzata, che voleva contrapporre all’autoritarismo dello stato centrale le risorse del radicamento nelle scelte del territorio.
nulla di drammatico in se stesso nel federalismo, che struttura stati come la Germania, con i suoi 16 Laender o gli Stati Uniti con i suoi 52 stati; ma certamente il federalismo funziona in realtà caratterizzate da una solida identità nazionale.

ma le Regioni in Italia furono realizzate concretamente come enti dotati di effettivi poteri soltanto a partire dal 1970, dopo anni di rinvii, avvenuti anche in contrasto esplicito con la IX Disposizione Transitoria della Costituzione che ne prevedeva l’avvio «entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione».
ma la preoccupazione nasceva dalla solida maggioranza delle sinistre nelle tre Regioni rosse di Emilia-Romagna, Toscana, Umbria.
disse il ministro dell’Interno Scelba nel 1953 nel Parlamento che decideva l’ennesimo rinvio:

La questione fu già posta dinanzi all’altro ramo del Parlamento, ove si domandò cosa avverrebbe il giorno in cui alcune regioni d’Italia avessero un’amministrazione dominata da partiti a carattere totalitario. […] La preoccupazione per il futuro dell’ordine democratico mi sembra talmente legittima che se avessi la convinzione che l’attuazione delle Regioni potrebbe compromettere seriamente lo sviluppo democratico del nostro Paese, non avrei nessuna difficoltà a manifestarla al Senato e a chiedere che l’attuazione dell’ordinamento regionale venisse rinviata a data più tranquilla e sicura.
le preoccupazioni si sciolsero e l’ordinamento regionale fu concretamente avviato soltanto quando, a partire dal 1962, con i governi di centro-sinistra si ruppe l’alleanza fra socialisti e comunisti; e quindi le Regioni cominciarono a funzionare concretamente quarant’anni fa, ma senza grandi competenze.
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fu con la riforma costituzionale del 2001, voluta dal tramontante governo D’Alema in vista di possibili alleanze con la Lega Nord di Bossi, che le competenze delle Regioni furono drasticamente ampliate e si posero le premesse della situazione attuale: http://www.parlamento.it/parlam/leggi/01003lc.htm
riforma farraginosa, contorta, confusa nelle competenze, ma confermata da un referendum chiesto quell’anno dall’opposizione di destra, al quale partecipò soltanto un terzo degli aventi diritto, che la confermarono con poco meno di due terzi dei voti: quindi riforma regionale approvata di fatto da circa il 20% degli elettori.
da allora le Regioni funzionano come discreti centri di potere, per ora soprattutto in campo sanitario, e ottimi luoghi di pascolo e rimborsi truffaldini per politici disonesti: specchio demoralizzante di un paese che non ha più altra identità che i soldi.

e altro che decentramento! la Lombardia è grande quasi come il Belgio e il Veneto ha più o meno gli abitanti di Slovenia e Croazia messe assieme…: le Regioni sono quasi altrettanto lontane dai loro abitanti dello stato centrale e hanno un quadro dirigente e una qualità dei funzionari indubbiamente peggiore. 
e se dovessimo, non dico abolirle, ma ridimensionarle e trasformarle in enti di secondo livello? a me pare che la vera dimensione della democrazia locale sia quella della provincia (eppure parlo da una provincia, quella di Brescia, che da sola ha più abitanti di due regioni intere sommate: il Trentino e il Molise).
già, perché un’altra stranezza delle nostre Regioni è l’estrema disomogeneità strutturale, e la loro popolazione spazia tra la scala dei 100.000 abitanti e quella dei 10 milioni; insomma il rapporto tra la Regione più piccola e la più grande è di 1:100.  
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ma il dibattito attuale sul regionalismo allargato non ha molto a che fare col passato, che qui è stato richiamato molto sommariamente soltanto per delineare uno sfondo di contrasto.
la tendenza storica evidente, a cui ha spalancato le porte del resto la cosiddetta sinistra italiana, è quella che nasce da una cosa semplice che si chiama perdita del senso civico e del senso della responsabilità comune: la frantumazione dello stato unitario, assieme al disprezzo per il Risorgimento, è stata del resto la parola d’ordine con cui è nata la Lega che si chiamava Nord, prima che il suo modello di egoismo locale diventasse un punto di riferimento comune per una parte della popolazione inb tutto il paese.
oggi l’allargamento in corso delle competenze regionali ha tutta la sostanza dell’arrogante ascesa al potere di camarille politiche locali, che tuttavia raccolgono un consenso sufficiente per governare, nell’indifferenza di cittadini rassegnati o nel loro lasciarsi cammellare alle urne regionale in nome di qualche opposta tifoseria para-politica, e soprattutto dell’appello all’egoismo di cortile, che qui – pare – funziona sempre.

quindi, aldilà delle scelte concrete che si prenderanno, il processo storico generale è chiaro: l’Italia non soltanto desidera isolarsi dall’Europa, dalla sua storia democratica e dai suoi valori, peraltro sempre più incerti, ma desidera poi anche disgregarsi all’interno fra potentati diversi, caratterizzati sempre di più da livelli differenziati di prestazioni sociali, di assistenza, di economia e perfino di vita e di lingua.
ed è così che l’esaltazione dell’identità trascolora nel fascino della diseguaglianza.
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il paradosso finale è che lo slogan stesso prima gli italiani, insulto a due secoli di tradizione democratica mondiale, sta perdendo di senso, e a breve dovremo chiederci piuttosto: prima i lombardi o i veneti? prima i siciliani o i sardi?
la questione potrebbe essere decisa nei campi di calcio e negli stadi, ma, dando tempo al tempo, si potrebbe anche tornare a giocarsela sui campi di battaglia.


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