Abbiamo pubblicato ieri i documenti segreti, di cui inesorabilmente sembra avvicinarsi la
formale adozione, con i quali sarà perfezionato il disegno dell’autonomia
regionale differenziata di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Ognuno ha
potuto finalmente toccare con mano cosa implicherà l’attuazione di questa
autonomia differenziata sul mondo della Scuola e su quello dell’Università e
della Ricerca scientifica nelle tre regioni interessate e, indirettamente, e
per effetto del correlativo taglio delle risorse destinate ad alimentare la
fiscalità generale dello Stato, sui restanti sistemi regionali italiani. Ma non
si tratta di un colpo di Stato. Siamo stati, infatti, spettatori inerti e fin
qui in larga misura inconsapevoli di una dinamica riformista che è partita da
lontano. Vediamo perché le bombe ad orologeria, se qualcuno le confeziona con
mani tecnicamente sapienti e poi ne cura la manutenzione, prima o poi sono
destinate a deflagrare. Anche a distanza di molti anni dal loro
confezionamento. E senza perdere nemmeno un po’ del loro potenziale distruttivo.
In un illuminante articolo apparso su Il
Sussidiario, Mario Barcellona mette a nudo
cause ed effetti del disegno dell’autonomia differenziata che sta per
abbattersi sul mondo della Scuola e dell’Università e della Ricerca scientifica
di questo nostro sempre più diseguale Paese.
Osserva Barcellona:
Di questa questione, che concerne, innanzitutto, l’autonomia differenziata
di Lombardia e Veneto, le opposizioni non parlano affatto, e pour cause dato
che proprio esse ne sono all’origine. Essa risale alla sciagurata riforma dell’art. 116 Cost. voluta nel 2001 da D’Alema, che
prevedeva la possibilità che lo Stato contrattasse con singole Regioni il
trasferimento di competenze ad esso riservate (soprattutto istruzione e sanità)
ed all’indecente “pre-intesa” proditoriamente stipulata dal governo Gentiloni
ad esecutivo ormai praticamente scaduto con la Lombardia ed il Veneto. Perché
quel governo l’abbia stipulata non si sa: per una ingenua captatio
benevolentiae dell’elettorato del Nord? per colpevole collusione con
un establishment che nel settentrione ha in larga prevalenza le
proprie radici ed i propri interessi e che, con sguardo miope, si aspetta di
ricavarne benefici economici diretti o indiretti? o solo perché la pattuglia
berlusconiana guidata da Verdini, di dritto o di storto, si è fatta valere? Sta
di fatto che la Lega, comprensibilmente, di questa “pre-intesa” ha preteso
l’inserimento nel “contratto di governo” e che il M5s vi ha acconsentito: si
può solo sperare per palese e gravissima insipienza. La questione si è anche
amplificata per l’analoga iniziativa dell’Emilia-Romagna e, ora, per le
similari richieste della Liguria.
Barcellona prosegue, confezionando una non meno lucida analisi tesa a
evidenziare i motivi per i quali la foglia di fico offerta dalla possibilità di
fissare standard minimi nazionali non appare minimamente in grado di arginare
la portata dirompente che questa autonomia differenziata avrà sui comparti nei
quali essa sarà attuata, fra cui, per quanto più sta a cuore i lettori di
ROARS, la Scuola, l’Università e la Ricerca scientifica.
Il tema cruciale del federalismo fiscale – messo alla porta dal popolo
italiano in occasione del Referendum del 2006, quando si prevedeva la
devoluzione a TUTTE le regioni della potestà legislativa
esclusiva in alcune materie come organizzazione scolastica, polizia
amministrativa regionale e locale, assistenza e organizzazione sanitaria –
finirà per rientrare dalla finestra nell’agenda del nostro Paese con le intese.
E per giunta rientrerà selettivamente, interessando solo le tre regioni che da
sole producono più di un terzo del PIL nazionale.
“Se pago di più devo avere di più”
è il mantra che getta alle ortiche o, come più compostamente scrive Barcellona,
“mina alle fondamenta” il senso
centripeto dello stare assieme che la nostra Carta Costituzionale sancisce e
dovrebbe tutelare, eleggendo il dovere di solidarietà politica,
ECONOMICA e sociale (art. 2) a piattaforma dalla quale risollevare, ricostruire
e far prosperare un Paese annientato dalla guerra e dal fascismo. O immaginando
che ogni individuo associato alla comunità nazionale non veda trasformato il
contenuto effettivo dei suoi diritti fondamentali (alla salute e
all’istruzione, in primis) in ragione del luogo di quella comunità
nel quale abbia avuto la ventura di nascere o (sopra?)vivere (uguaglianza
sostanziale, art. 3). O proclamando l’unità e l’indivisibilità della
Repubblica, nel cui ambito e nel cui imprescindibile rispetto riconoscere e
dare sorvegliato spazio all’autonomia (art. 5). O, infine, evitando di
imprimere un’esiziale connotazione territoriale all’uguaglianza nella
contribuzione fiscale, che in Costituzione conosce il solo metro della capacità
contributiva (art. 53), e alla quale con questa autonomia regionale
differenziata si finirà per attribuire una inevitabile variabilità
territoriale.
Denunciata la bomba destinata a far brandelli della nostra sempre più
traballante coesione nazionale, l’analisi di Barcellona prosegue in una
riflessione che, dando fondo a un’ammirevole e insospettata riserva di speranza
residua, guarda all’attuale quadro politico e auspica ravvedimenti
dell’ultim’ora (che per la verità sembrano di difficile realizzazione proprio
guardando chi si agita in quel quadro politico), non senza preoccuparsi di
mettere in guardia lo stesso NORD dai perversi effetti lungolatenti
che, una volta deflagrata, la bomba potrà avere sugli stessi destini di
prosperità sognati dalla parte già ricca del paese e senza trascurare di
mettere in luce, con onestà politica e intellettuale, le indubbie
responsabilità che il SUD, le sue genti e la sua classe dirigente hanno avuto
nel dipanarsi di questo processo. A questa analisi rinviamo ancora
il lettore che se ne voglia meritoriamente impossessare.
Qui mette conto solo ricordare chi ha confezionato la bomba e chi, più
recentemente, ne ha azionato il dispositivo di innesco.
Perché Salvini aveva ancora negli occhi il luccicante ricordo della sua promettente
comparsata da auto-dichiaratosi nullafacente a il Pranzo è servito, quando, il 30 giugno 1997, la
Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, durante il primo
governo Prodi, presentò alle Camere il testo, approvato dalla Commissione
stessa, di un progetto di legge costituzionale dal titolo: “Revisione della
parte seconda della Costituzione”.
Caduto il governo Prodi e varie vicissitudini dopo, il 18 marzo 1999,
il Presidente del Consiglio dei Ministri D’Alema, che prima di essere tale era
stato Presidente della Commissione bicamerale, presentò al Parlamento, insieme
al Ministro per le riforme istituzionali pro-tempore Giuliano Amato, una nuova
proposta di legge costituzionale recante: “Ordinamento federale della
Repubblica”. La Prima Commissione Affari Costituzionali della Camera, in
sede referente, ne iniziò l’esame il 14 aprile 1999. Presto si convenne di
delegare la elaborazione del testo a un Comitato ristretto, che nella seduta
del 13 ottobre 1999 presentò alla Camera un nuovo testo unificato dei testi e
degli emendamenti esaminati. L’Assemblea dei Deputati della XIII
legislatura a maggioranza di centro sinistra esaminò la p.d.l. costituzionale,
nelle linee generali, dal 12 al 26 novembre 1999. Dopo una lunga interruzione,
durante la quale al governo D’Alema subentrò il governo Amato (26 aprile
2000-11 giugno 2001), l’esame degli articoli ebbe inizio il 19 settembre 2000 e
si concluse, con l’approvazione, il 26 settembre 2000. Il provvedimento
passò al Senato. Il 3 ottobre 2000 la Commissione ne iniziò l’esame e lo
concluse il 9 novembre 2000. Il 17 novembre 2000 l’assemblea del Senato
approvò, senza modifiche, il testo di riforma, rimasto quello che la Camera dei
deputati aveva licenziato. In seconda deliberazione, come previsto dalla
Costituzione, l’assemblea della Camera, dopo le sedute del 23 e del 28 febbraio
2001, lo approvò a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Lo stesso fece a
spron battuto il Senato l’8 marzo 2001, a maggioranza assoluta dei suoi
componenti. Sempre secondo l’art. 138 Cost. il testo della legge costituzionale
fu pubblicato sulla G.U. n. 59 del 12 marzo 2001, in attesa del referendum
confermativo che venne prontamente richiesto da 102 Senatori dell’opposizione e
77 Senatori della maggioranza di centro-sinistra.
Il 7 ottobre 2001 gli italiani furono chiamati a decidere se
confermare o meno la modifica del Titolo V della parte seconda
della Costituzione della Repubblica Italiana. Essendo un referendum confermativo
(e non abrogativo), la consultazione non richiedeva la partecipazione al voto
della maggioranza degli iscritti alle liste elettorali per essere valida.
Votarono in pochissimi: poco più di un terzo degli aventi diritto nel corpo
elettorale. Quasi i due terzi dei voti validi dissero Sì; poco più di un terzo
dissero No.
Ne risultò la modifica con la quale oggi combattono gli studenti di
giurisprudenza al primo anno (e che nelle sue altre propaggini ha turbato i
sonni dei giudici della Consulta, dacché è stata sancita).
Come è stato ricordato nel post di ieri, le “Pre-intese Gentiloni” (cui purtroppo non può riconoscersi il valore solo informale avuto dal “Patto Gentiloni“), che hanno dato concretezza alla
inedita possibilità dischiusa dalla riforma costituzionale firmata dal
centro-sinistra e dai suoi tecnici, e confermata (occorre ricordarlo) dagli
elettori italiani, sono state amabilmente concluse dal Governo Gentiloni, al
tempo del suo mesto dissolversi nella primavera dell’anno scorso, anche se,
dando prova di grande acume politico per i dettagli, il Premier lasciò che nelle foto
ufficiali della storica firma venisse ritratto solo un sottosegretario
bellunese del suo governo.
Esse hanno dato principio di attuazione e hanno infuso un inequivoco atto
di volontà politica alla possibilità prefigurata dai padri costituenti minori
del 1997-2001, ovvero che:
Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le
materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal
secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente
all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite
ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione
interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui
all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei
componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».
Che fare? Gli oscuri presagi si moltiplicano.
Non meno cupamente, leggendo la riflessione finale di Barcellona sembrano
potersi vaticinare due opzioni.
Continuare – almeno chi può – a mettere al sicuro i propri figli, ponendoli
in condizione di salvarsi da soli dopo un periodo di formazione in un altrove
che non sia il SUD.
Cominciare a fare incetta di gilè (scriviamolo in italiano) di un qualche
colore prima di tentare disperate sortite di piazza spontanee e senza nemmeno
il Masaniello di turno, sapendo che in Italia troppi Masanielli sono passati
invano e che nemmeno del colore di quell’indumento sembra oggi potersi avere
contezza.
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