Bobò: il disordine e l’archetipo - Massimo Marino
«Se ne è
andato Bobò. Lo straordinario uomo che avevo incontrato 22 anni fa
nel manicomio di Aversa sordomuto e analfabeta è morto. Così all’improvviso. Ci
mancherai Bobò. Ci mancherai». Così Pippo Delbono ieri sera, venerdì 1
febbraio, dava la dolorosa notizia della scomparsa di Vincenzo Cannavacciulo,
rinato a nuova vita col teatro più di vent’anni fa col nome di Bobò e con
quello straordinario spettacolo del 1997 che fu Barboni.
Delbono
aveva incontrato Bobò nel manicomio di Aversa in un periodo particolarmente
nero della sua vita, di malattia e depressione. Andava in cerca di qualcosa che
rompesse le mura del teatro e avvicinasse alla vita, allo strazio e alla gioia
dei giorni, delle persone. Più tardi l’artista ligure, inventore di un teatro
in cui il corpo si fa poesia e la poesia corpo, avrebbe scritto, come ricorda
Roberto Giambrone in uno dei numerosi messaggi di cordoglio apparsi sulla pagina facebook di Delbono: «...
ho incontrato alcune persone che vivono l’arte non come "mestiere",
ma come esperienza fondamentale per la loro stessa sopravvivenza. Per queste
persone l’espressione artistica non è un lavoro, una routine, ma una necessità
di vita».
La figura di
Bobò si può ricostruire per lampi, per immagini. Non parlava, ma esprimeva,
raccontava, con i suoi guaiti laceranti simili a tentativi di dare fiato e
corpo a una sofferenza intima, simili a esclamazioni di stupore, a esplorazioni
della possibilità di una felicità elementale, semplice, antica, diretta, sempre
incrinata da una qualche malinconia. Era nato ad Aversa nel 1936; era stato
chiuso per moltissimi anni – trenta? quaranta? cinquanta? – in un manicomio con
la condanna scritta sulla cartella clinica, «microcefalo», forse solo perché
era una di quelle persone che non trovavano collocazione nella società per un
handicap o per una differenza. Entrò nella compagnia di Delbono e ne diventò un
simbolo, fino a conquistare la prima pagina dei giornali francesi in occasione
delle rappresentazioni ad Avignone e delle tournée a Parigi. Nel 2004 Fabienne
Darge scriveva su «le Monde» di Urlo, presentato ad Avignone nella
mitica cava di Boulbon dove era nato il Mahabharata di Peter
Brook: «Abbiamo visto un gran momento di teatro, indimenticabile, che resterà
iscritto nel cuore, eternamente. Il più grande forse di questo festival». Il
titolo dell’articolo, «Nel villaggio dei sogni un lungo grido venuto da
lontano», cercava di ricreare la magia del lamento vagito barrito di Bobò, che
la giornalista metteva sullo stesso piano del cesello delle parole del testo
operato da Umberto Orsini, l’attore di Visconti, e delle magiche atmosfere
musicali create nella notte da Giovanna Marini, la signora della musica
popolare e impegnata. Contrasti stilistici, ma soprattutto diverse esperienze
di vita, messe in cortocircuito.
Bobò lo
ricordiamo fuoriscena, durante i più di vent’anni di carriera teatrale, che lo
hanno portato a partecipare da muto protagonista, carico di un’espressività
enorme, a tutte le opere create da Delbono. Lo rivediamo con una maglia del
Napoli targata Maradona, sempre troppo larga, lui sempre con un tenue sorriso
sul viso e un’aria interrogativa di chi sta ancora scoprendo il mondo.
Ma la sua
prima immagine è scolpita per sempre in quel Barboni che
vedemmo in prima assoluta nell’aprile del 1997 in una rassegna organizzata da
Accademia Perduta a Forlì. Raccontavo allora per «l’Unità»: «Il pezzo più
forte, senza dubbio, è l’“atto senza parole” con cui Delbono e Bobò danno vita
ai due barboni di Aspettando Godot di Beckett, mentre Pepe
Robledo legge alcuni passaggi del testo: un fitto dialogo di gesti, di sguardi,
di posizioni, nei quali si scorge un rapporto umano e artistico. E poi i due
raccontano a gesti il viaggio di Bobò (ora in affidamento alla compagnia). La
scoperta delle nuvole, degli animali, dopo decenni di reclusione tra le mura di
un ospedale psichiatrico».
C’erano
state anche polemiche, con l’accusa, da parte di Sergio Piro di Psichiatria
Democratica, di andare a “piluccare” pazienti nei manicomi, generando «attese
che non si realizzeranno mai». Il regista aveva risposto: «Ho conosciuto Bobò
durante un seminario nell’ex manicomio. Lavoravo con attori di un gruppo
locale. L’ho invitato a salire sul palco: aveva una presenza, una precisione,
una verità straordinarie. Era quello che per me dovrebbe essere un artista». E
poi lo aveva adottato, facendone un suo doppio, un suo padre, un suo figlio, un
suo compagno d’arte che negli spettacoli incideva un segno unico.
Bobò è il
nostro teatro, quello che abbiamo attraversato in ribellione ai velluti agli
stucchi e ai testi che celebrano il mondo così come è. È lo sguardo dove non
bisognerebbe guardare, secondo certuni, e dove invece è necessario spingersi,
anche solo per ritrovare la nostra dimidiata umanità. Bobò è il silenzio e la
voce oltre il linguaggio articolato, è la forza del corpo, è un antico
Pulcinella tornato a rovistare l’inquietudine e la speranza di felicità. Bobò,
con i suoi capelli spiritati, il suo naso campano ad uncino, gli occhi piccoli
e il sorriso trattenuto e disarmante, con l’espressione intenta, con la tromba
che in Barboni amplificava i suoi gridi-vagiti come un
distillare di lacrime dell’anima, Bobò è il teatro di poesia, quello che
scardina l’ordine del discorso, della prosa, e si insinua potente a
rivelare qualcosa d’altro, di misterioso. Bobò, in fondo a tutto, è La
possibilità della gioia, come recita il titolo del bel libro che Gianni
Manzella ha dedicato alla straordinaria compagnia di Pippo Delbono, intessuta
di diversità in efflorescenza intorno a loro due, il figlio-padre, e il padre
figlio e antenato, il disordine e l’archetipo.
Potrei
riempire pagine e pagine citando spettacoli, riportando cronache, immagini.
Chiudo con brani da una mia cronaca di La gioia, l’ultimo
spettacolo di Pippo Delbono, che da oggi gira senza Bobò: «C’è il circo e
ci sono i fiori. Clown metafisici, balli e cento barchette di
carta. C’è una gabbia, simile a quella che ogni tanto chiude corpi o
cervelli, e c’è il ricordo di uno sciamano che attraverso la
follia libera anime. Lampeggiano parate felliniane e malinconie
di tango, grida strozzate (“Dov’è la gioia? Dov’è?”) in mezzo al pubblico e
pezzi di teatro indimenticabili, come quando lui, il protagonista, Pippo
Delbono, dopo aver riempito la scena con le sue parole e con
figure di attori che sembrano sue proiezioni, va a prendere
dalle quinte l’omino sordomuto. Caracolla, Bobò,
incerto, e Pippo lo porta a sedere tra le barchette
sistemate da un ragazzo afghano che il mare terribile lo ha
attraversato davvero. “Bobò da 21 anni è con noi. Ha passato 47 anni in
manicomio, dove entrò a 13 anni. Ora ne ha 81”, spiega il
demiurgo. E poi i due, con semplici gesti, efficaci, scolpiti, doppiano
un dialogo di Aspettando Godot di Beckett,
una sospensione, un infinito tempo intimo dell’emozione».
Non ci si
vorrebbe staccare dalle memorie di questo piccolo grande uomo dal passo
caracollante. E allora affidiamo la conclusione di questo costernato ricordo a
una pagina di Racconti di giugno, una narrazione autobiografica per
il teatro di Delbono, pubblicato nel 2008 da Garzanti:
«Bobò quando
si mette il vestito di qualcun altro, diventa quella persona lì. Per esempio
una volta si è vestito da regina Elisabetta e sembrava davvero la regina
Elisabetta. In Palestina il giorno prima dell’incontro con Arafat si era messo
la kefiah, e sembrava proprio Arafat. E così quel giorno per alleggerire un po’
la situazione ho chiesto ad Arafat se voleva fare una foto insieme a Bobò con
la kefiah che si era messo il giorno prima, che un po’ mi sembrava che si
assomigliassero. Quest’ultima cosa però gli attenti assistenti di Arafat, che
parlavano bene italiano, non gliel’hanno tradotta, perché – mi hanno spiegato –
non potevo dire al presidente che assomigliava a un uomo che era stato per
cinquant’anni in manicomio.
Poi hanno
fatto la foto Bobò e Arafat. C’era Bobò al centro con la kefiah che guardava
l’orizzonte, e Arafat vicino con la testa un po’ piegata, più dubbioso, che
guardava Bobò.
E sembrava
più Arafat Bobò di Arafat stesso. Poi questa foto è apparsa sui giornali
italiani e molti teatri l’hanno esposta con scritto: “Sarà Bobò che ci salverà
dalla guerra?”».
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