Gli estensori
di questa Lettera Aperta, insegnanti e rappresentanti di un foltissimo
numero di docenti e cittadini – riuniti in associazioni, sigle sindacali,
movimenti, gruppi di studio – firmatari di un “Appello per la
scuola pubblica” (dicembre 2017) esprimono la loro posizione nei
confronti dell’attuale riforma dell’esame di Stato firmata dal Ministro
Bussetti, ancora una volta in
perfetta continuità con i suoi predecessori.
All’articolo 22 del Contratto per
il Governo del cambiamento, esplicitamente dedicato alla scuola, leggiamo testualmente: “In
questi anni le riforme che hanno coinvolto il mondo della scuola si sono
mostrate insufficienti e spesso inadeguate, come la c.d. “Buona Scuola”, ed è
per questo che intendiamo superarle con urgenza per consentire un necessario
cambio di rotta”.
Un impegno formale
dunque, chiarissimo, sottoscritto attraverso un contratto tra alleati
di governo, volto a modificare immediatamente i contenuti della legge
107/2015, la “Buona scuola”.
I decreti
attuativi della riforma degli esami di Stato emanati dal Ministro
dell’Istruzione del governo Lega-M5S non vanno in questa direzione,
anzi contraddicono radicalmente l’impegno preso con tutti gli italiani e
sancito dal Contratto.
L’esame di Stato, così come configurato
dalle norme applicative di diretta responsabilità di questo Ministro e di
questo Governo, si pone in perfetta continuità con l’idea della scuola-azienda,
anticulturale e anticostituzionale, ratificata dall’ultima riforma del
centrosinistra e sostenuta dal centrodestra. Una riforma ormai giunta al
quarto anno di attuazione nelle
scuole italiane, avversata in tutti i suoi aspetti dalla grandissima
maggioranza dei docenti e degli studenti italiani; apprezzata al
massimo solo dai dirigenti scolastici, ai quali ha
garantito ulteriori, discrezionali spazi di potere e
oggi, con il nuovo scandaloso contratto, di guadagno economico: oltre
800 euro lordi di incremento salariale mensile.
Un cambiamento sarebbe stato possibile,
nonostante i vincoli ereditati dalla 107 di Matteo Renzi e dal Dlgs 62/2017
della Ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. In quello stesso decreto
legislativo, infatti, il comma 4 dell’articolo 12 dà assoluto margine di
manovra al Ministro in carica:
“Con ordinanza del Ministro
dell’istruzione, dell’università e della ricerca sono disposte annualmente
le modalità organizzative ed operative per lo svolgimento degli esami di
Stato e degli esami preliminari”.
Nessun
cambiamento, invece, ma assoluta continuità ideologica, in questo esame
conclusivo di un percorso scolastico ormai sempre più
destrutturato e deculturalizzato. D’altronde, scrivono i tecnici del MIUR, “il
concetto stesso di maturità (saper pensare) nel corso del tempo è stato
superato dal concetto di competenza (saper fare). E ciò in ordine alle
trasformazioni in atto anche nelle scuole dell’Unione Europea”. Un assunto
ideologico che non condividiamo.
Quali caratteristiche, quindi, avrà il
nuovo esame di Stato? Sarà:
·
un esame in cui sono cancellate le
discipline: e non ci tragga in inganno la bidisciplinarità di
facciata della seconda prova scritta, in realtà solo una giustapposizione
di materie diverse. Inoltre, nel decreto che norma il colloquio orale,
l’avvertenza ai docenti di “evitare
una rigida distinzione tra
le discipline” è chiarissima. Ed è proprio per raggiungere
questo obiettivo che è stata eliminata la terza prova. È la vittoria
del mito efficientista delle competenze, di un’idea di scuola ancillare ad un
lavoro inteso non come dignità dell’individuo, ma acritica esecutività. La
finalità è semplificare e impoverire il possesso dei saperi piegandoli
all’apprendimento certificato di prestazioni strumentali;
·
un esame in cui viene cancellata la possibilità per gli
studenti di svolgere un tema libero a partire da una traccia di
storia, di attualità o legata alla propria specifica tipologia di scuola ed in
cui la scrittura viene vincolata nello stretto perimetro di
un’argomentazione preconfezionata, dove ciò che conta non è cosa si
dice, ma come lo si dice e se lo si dice nel rispetto di un format imposto;
·
un esame che obbliga gli studenti a
un colloquio orale nullificato, in cui prima la busta, il quiz, la
sorte, poi lo ‘spunto’ estratto dal candidato daranno il via ad un parlare
senza contenuti, senza riferimenti culturali. L’esame del problem solving, che premia
la destrezza estemporanea dello studente capace di passare da uno spunto
ad un altro (sarebbe questa l’interdisciplinarità?) e affida
invece l’onere, l’invenzione del problem setting alla
commissione, che dovrà dedicare un’apposita sessione alla
preparazione dei quesiti: un lavoro tanto complesso e meticoloso quanto
inutile, affidato alle scarne prescrizioni di un decreto e ai
documenti del 15 maggio;
·
un esame che concretizza i
frutti di una visione asfittica ed avariata della valutazione. Da una
parte, come se non bastassero i test INVALSI, nuove griglie
nazionali di correzione delle prove e sorteggio, ennesimi
feticci di oggettività, imbrigliano e codificano relazioni,
contesti e storie. Dall’altra, alle commissioni l’onere di valutare
il Far West delle attività di alternanza scuola-lavoro, oggetto di
discussione orale, in cui la disparità delle esperienze ricadrà su una iniqua
valutazione finale;
·
un esame, infine, che riduce ad orpello retorico
– considerato il tempo scuola a disposizione, tagliato e mai recuperato dalla
riforma Gelmini – persino i percorsi di “Cittadinanza e Costituzione”, previsti
obbligatoriamente in una decina di minuti del colloquio.
Ennesimo coniglio dal cilindro, inserito senza aver consentito alle
scuole un’adeguata preparazione su una materia che avrebbe meritato ben altro
trattamento.
In tanta approssimazione – una normativa
a singhiozzo, pubblicata pochi mesi prima della prova, in totale assenza di
consultazione – due sono le considerazioni che emergono prioritariamente.
La prima: l’operazione è evidentemente
tesa a imporre una sterzata radicale e
autoritaria alle programmazioni e alla didattica dei docenti, partendo
direttamente dalle conclusioni del percorso. Si impongono agli
insegnanti cambiamenti che pregiudicano l’esercizio della libertà di
insegnamento attraverso una rivisitazione degli obiettivi finali, obbligando ad
adeguarsi ad essi ex lege.
La seconda: la banalizzazione dell’esame, la
sua meccanicizzazione, l’allontanamento dalla centralità delle
conoscenze e del loro rigore scientifico, l’acquisizione dell’alternanza scuola lavoro nella
valutazione sommativa, la retorica delle competenze, costruita sull’inganno
epistemologico della cultura della modernità.
Tutto questo, con uno
spettro all’orizzonte.
La rottura del
principio dell’unitarietà del sistema scolastico nazionale è incompatibile con l’equipollenza dei titoli
di studio su tutto il territorio italiano. E, abolendone il valore
legale, i seccanti lacciuoli costituzionali potranno essere superati per
lanciare definitivamente le scuole sul mercato della competizione e della
concorrenza, consentendo la concretizzazione definitiva di un sistema
scolastico a marce differenti, non solo tra regioni, ma anche a livello locale,
dove gli ultimi non avranno più alcuna speranza che la Repubblica, attraverso
la scuola, organo costituzionale, rimuova gli ostacoli di ordine economico e
sociale per consentire il pieno sviluppo della persona.
Perché la scuola non sarà più quella della Repubblica e della Costituzione.
Governo dopo governo, negli ultimi venti
anni tutti hanno interpretato con grande impegno la propria parte per
depotenziare la funzione che i Costituenti le avevano riservato.
Noi che scriviamo questo documento non
siamo acritici laudatores temporis acti, chiusi in un
integralismo immobile e reazionario. A noi importano ancora la centralità
dell’educare e dell’educarsi insieme alla vita e alla critica,
attraverso la cultura e i saperi, la cura della relazione educativa e
didattica, l’importanza costitutiva dell’essere, del diventare e
del restare umani: ciò che ci sembra essere eliso o cancellato intenzionalmente
da questa idea di scuola svuotata, omologata, spettrale, che non sa e
non vuole più formare, che cancella il suo ruolo di istituzione dello Stato e
di strumento dell’interesse generale.
Gli estensori del presente documento, rappresentanti di un
foltissimo numero di docenti – riuniti in associazioni, sigle sindacali,
movimenti, gruppi di studio – e firmatari di un “Appello per la
scuola pubblica” che ha raccolto più di 13.000
adesioni, chiedono audizione al Vicepresidente del Consiglio, on. Luigi
Di Maio, ai Presidenti delle VII Commissioni del Senato, on. Mario
Pittoni, e della Camera, on. Luigi Gallo.
Anna Angelucci, Marina Boscaino, Lucia
R. Capuana, Giovanni Carosotti, Andrea Cerroni, Ivan Cervesato, Carla M.
Fabiani, Elena M. Fabrizio, Elena M. Faglia, Rossella Latempa, Fernanda
Mazzoli, Vittorio Perego, Renata Puleo, Carlo Salmaso, Gianni Vacchelli.
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