L’autonomia, quando la vogliono i ricchi, si scrive
sovranismo e si pronuncia egoismo. Ed è quello che sta succedendo in Italia non più nella forma plateale della
Lega della prim’ora quando vinceva le elezioni al grido di “Roma ladrona”, ma
in forma molto più velata giocata in punta di norma. Ma alla fine il risultato
sarò quello reclamato da tempo da parte delle regioni più ricche: trattenere per sé tutta la ricchezza
prodotta senza doverla spartire con quelle più povere.
In passato
la rivendicazione aveva assunto toni addirittura rocamboleschi fino a simulare,
l’8 maggio 1997, una marcia indipendentista in Piazza San Marco che, per qualche
ora, era riuscita a fare sventolare la bandiera dei Serenissimi sul
campanile del duomo di Venezia. Poi, lasciando i gesti epici alle teste calde,
i raffinati della politica si sono concentrati sugli
spazi offerti dalla legge ed alla fine hanno trovato il modo per ottenere in
forma strisciante ciò non erano riusciti a conquistare con lo scontro frontale.
L’occasione
è arrivata nel 2001 con la modifica di alcuni articoli della Costituzione che,
fra le altre novità, introduce la
possibilità, per le regioni che lo richiedano, di potere godere di maggior
autonomia su una serie di tematiche, alcune riservate allo Stato, altre
di competenza condivisa. Fra esse la pubblica istruzione, la
sanità, la previdenza integrativa, ma anche la ripartizione degli introiti
fiscali. Subito si registrarono diverse iniziative regionali per ottenere
maggiore autonomia: la Toscana nel 2003 per i beni culturali, poi nel
2006-08 il Veneto, Lombardia, Piemonte, su varie materie. Ma nessuna di
esse arrivò mai in porto, anche per l’atteggiamento ostile del IV Governo
Berlusconi (2008-11). Nel periodo più recente, tuttavia, la questione ha
ripreso slancio.
Nel 2017, tre regioni, Veneto, Lombardia ed Emilia
Romagna, hanno formalmente richiesto al governo di poter godere di maggiore
autonomia e il
28 febbraio 2018, pochi giorni prima delle elezioni generali del 4 marzo, il
governo Gentiloni ha concluso con ciascuna di esse una pre-intesa. I testi,
molto simili fra loro, si concentrano su tre questioni chiave: la durata di maggiore autonomia, i temi
oggetto di maggiore autonomia, le risorse di spettanza.La durata è di 10
anni durante i quali sono possibili revoche solo se entrambi le parti sono
d’accordo. Le tematiche sono quelle delle politiche del lavoro, dell’istruzione, della salute,
della tutela dell’ambiente, dei rapporti internazionali e con l’Unione Europea. Quanto
alle risorse, la pre-intesa stabilisce che andranno determinate da un’apposita
Commissione paritetica Stato-Regione, inizialmente in base ai fabbisogni
standard, poi anche in base “al gettito dei tributi maturato nel territorio
regionale”. E a riprova che il diavolo si annida nei dettagli, quella che
potrebbe sembrare una disquisizione giuridica, in realtà, è una questione
politica di grande rilevanza sociale, forse il vero obiettivo a cui puntano le
tre regioni richiedenti, fra le più ricche d’Italia.
Il fabbisogno standard indica il livello di servizio
da garantire e poiché deve essere uguale per tutta Italia, è stabilito dal
governo centrale. La
misura è stata voluta dalla Costituzione per mettere tutti gli italiani sullo
stesso piano di parità. Una volta stabilito il fabbisogno standard, uguale per
tutta Italia, si stabilisce anche il suo costo procapite. Quindi si assegna ad
ogni Regione un ammontare pari al costo procapite moltiplicato per il numero di
cittadini residenti. In altre parole, a determinare quale Regione riceve di più
e quale di meno è solo la diversa quantità di popolazione. Ma se si dice che le risorse sono
determinate anche in base alla quantità di gettito generato nella Regione,
allora si inserisce un elemento di apartheid fra i cittadini italiani perché quelli che risiedono nelle regioni più ricche
disporranno di un ammontare procapite più alto di quelli che abitano nelle
regioni più povere.
In concreto succederà che l’ammalato dell’Emilia
Romagna godrà di migliori cure di quello della Basilicata, lo studente della
Lombardia avrà migliore istruzione di quello della Sicilia, il camionista del Veneto
viaggerà su migliori strade rispetto a quello della Calabria. Il che non farà
altro che peggiorare il divario Nord-Sud già molto marcato. Secondo il rapporto
Svimez 2018, “l’ammontare della spesa pubblica complessiva consolidata, intesa
come spesa di Amministrazioni centrali e territoriali, si presenta significativamente
più basso nel Mezzogiorno: 6.886 euro per abitante nel 2016 contro i 7.629 euro
del Centro-Nord”.
E gli effetti si vedono su tutti i piani:
socio-assistenziale, formativo, sanitario. I dati sulla mobilità ospedaliera interregionale sono forse la fotografia
più chiara delle carenze del sistema ospedaliero meridionale. Lo Svimez
certifica che il saldo netto di ricoveri extra-regionali dalle regioni
meridionali ha raggiunto le 114 mila unità nel 2016. Una mobilità che associata al ricorso alla
sanità privata per aggirare le lunghe liste di attesa, costringe le famiglie
meridionali a uno sforzo finanziario cospicuo. Non a caso nel
Meridione la cosiddetta “povertà sanitaria”, l’impoverimento dovuto
all’insorgere di patologie gravi, colpisce più che altrove. A livello
nazionale, anno 2015, la percentuale di famiglie impoverite per sostenere le
spese sanitarie non coperte dal Servizio Sanitario Nazionale, è stata pari
all’1,4%,. Ma nelle regioni meridionali ha raggiunto il 3,8% in Campania, il 2,8%
in Calabria, il 2,7% in Sicilia.
Nel
contratto di governo stipulato fra Lega e Movimento 5 Stelle si legge che è “questione prioritaria
nell’agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente
lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma,
della Costituzione, portando anche a rapida
conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte.”
Raccomandazione prontamente accolta da Erika Stefani, ministra agli affari
regionali che, nell’autunno 2018, ha raggiunto intese definitive con le tre
regioni padane. Ed ora che hanno ottenuto anche l’approvazione del governo,
sono in procinto di essere sottoposte all’approvazione del Parlamento, che
però non ha possibilità di emendarle né di entrare nel merito dei suoi
contenuti. Può solo approvarle o respingerle. E se
verranno approvate, tutto il potere di definizione degli specifici contenuti
normativi e finanziari verrà demandato a Commissioni paritetiche Stato-Regione, sottratte
a qualsiasi controllo parlamentare. Così si afferma quella che il professor
Viesti ha definito la secessione dei ricchi, che si sa dove comincia, ma non
dove finisce.
da qui
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