(La salute da diritto a profitto. Intervista
a Vittorio Agnoletto, a cura di Susanna Ronconi)
La spesa privata per la salute aumenta, in Italia, e così il ruolo della
sanità privata, che lungi dall’essere complementare a quella pubblica, ormai è
con essa in aperta concorrenza. Con il paradosso (apparente) che proprio le
politiche sanitarie, nazionali e ancor più regionali, stanno facilitando questo
processo, a causa di liste d’attesa e introduzione dei ticket. Paradosso
apparente, spiega in questa intervista Vittorio Agnoletto, medico estremamente
critico verso i processi di privatizzazione in atto: perché è una scelta
politica quella di promuovere il ridimensionamento del settore pubblico e
accrescere il ruolo dei privati, nel momento in cui a livello globale i servizi
sanitari sono individuati dal grande capitale finanziario come un ottimo e
promettente campo di investimenti per il profitto. In Italia – Paese che
vantava fino a dieci anni uno dei migliori sistemi sanitari del mondo – il
processo è a macchia di leopardo, tra competenze e titolarità nazionali e
regionali, ma indubbiamente in atto. Caso emblematico la Lombardia, dove gran
parte dei 14 miliardi spesi annualmente per le cronicità saranno appannaggio di
gestori privati, non solo sottraendo risorse al pubblico, ma soprattutto
facendolo rinunciare di fatto al ruolo di garante del diritto alla salute dei
cittadini.
Redazione
Diritti Globali: Sono passati più di dieci anni da quando l’OMS ha definito il
nostro il secondo miglior Servizio Sanitario Nazionale (SSN) del mondo. Cos’è
successo nel frattempo? Meritiamo ancora questa medaglia?
Vittorio
Agnoletto: Se partiamo dalla nostra Costituzione, dovremmo avere le carte in regola.
L’articolo 32, tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e
interesse della collettività e prevede cure gratuite per gli indigenti; l’articolo
3 dice che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli economici e
sociali che limitano libertà e uguaglianza dei cittadini e impediscono lo
sviluppo della persona umana. Quello che è interessante è che l’articolo 32
parla di un diritto dell’individuo, non del cittadino, cioè la salute è un
diritto di ogni essere umano, e questo toglie di mezzo tutte le questioni di
cittadinanza, nazionalità, se sei italiano o immigrato. L’intreccio tra i due
articoli è chiaro, ed è proprio questo intreccio che sta alla base della legge
di riforma 833 del 1978 che istituisce il SSN universale. È quello il SSN che
l’OMS ha premiato dieci anni fa, non quello che stiamo vedendo ora. Oggi
abbiamo un sistema a due velocità, che discrimina l’accesso alle cure a seconda
delle possibilità economiche delle persone. È un processo recente ma in
fortissima crescita in questi ultimi anni.
RDG: Quali sono i fattori che hanno maggiormente inciso in questo
processo a discapito dell’accesso universale alle cure?
VA: Primo, l’inserimento
dei ticket. Il SSN dovrebbe essere del tutto gratuito, è pagato dalla fiscalità
generale, secondo una progressività e una proporzionalità in base ai redditi. I
ticket non hanno senso, ogni cittadino ha già pagato per la sanità. Secondo,
l’ingresso fortissimo del privato nel SSN, sia con la convenzione che con
l’accreditamento, in un quadro nazionale che, sulle regole, lascia grande
spazio a ogni Regione. Il pubblico rimborsa il privato convenzionato per i suoi
servizi, ma è evidente che il privato sceglie i settori più convenienti e
lucrativi; non trovi il privato che investe per esempio nel pronto soccorso,
investe invece e molto nelle patologie croniche, che garantiscono piani
pluriennali e bilanci sicuri: ecco perché il privato entra massicciamente nelle
RSA, Residenze Sanitarie Assistenziali, per esempio. Ed è un privato sempre
meno complementare e sempre più sostitutivo del pubblico. Terzo, la questione
delle visite intramoenia. Introdotte ai tempi di
Rosy Bindi ministro della Salute, allora avevano lo scopo di trattenere nel
pubblico i medici attratti dal profitto privato, consentendo loro di svolgere
dentro la struttura pubblica una parte di attività privata, lasciando una quota
parte del compenso alla struttura stessa. Queste attività private dovevano
essere, nelle intenzioni iniziali, una parte limitatissima, destinata a quei
cittadini che vogliono una prestazione aggiuntiva, o vogliono scegliere quello
specifico medico. Invece, è diventata una attività concorrenziale, dilata a
dismisura, anche perché gli ospedali spesso non pongono limiti. Il fatto è che
gli ospedali pubblici sono incentivati a favorire queste prestazioni private,
ci guadagnano, perché una quota parte va al personale infermieristico
disponibile a essere presente durante le visite private, un’altra parte viene,
in alcuni casi, ripartita anche tra gli amministrativi e una percentuale non
indifferente resta nelle casse dell’ospedale. Il ticket che pagano i cittadini
per una prestazione pubblica, invece, non va all’ospedale ma alla Regione che
poi ridistribuisce le risorse. Così finisce che nessuno ha più interesse a
incentivare la prestazione pubblica versus l’intramoenia, perché si tratta di soldi freschi nelle
casse dell’ospedale al di fuori dei canali regionali. Con l’effetto che questo
processo diventa anche una delle ragioni delle liste d’attesa, perché le
visite intramoenia non avvengono a fine turno, ma anche
durante la giornata.
RDG: Sui processi di privatizzazione, oltre al nodo delle liste
d’attesa, la prima misura che hai citato, i ticket, stanno avendo un ruolo
importante: i costi sono concorrenziali, il privato spesso offre prestazioni
non solo più tempestive ma anche a minor costo, è così?
VA: Sì, in molti casi i
costi nel settore privato sono pari o inferiori ai ticket nel pubblico, e
questo accade soprattutto per prestazioni diagnostiche di massa, come le
mammografie, per esempio. Se il privato costa 40 e mi fa aspettare tre
settimane e il ticket costa 41 e devo aspettare tre mesi, è ovvio che vado dal
privato. E poi magari ci resto, perché se servono ulteriori accertamenti il
privato me li offre sul momento e con poca attesa, se devo tornare nel pubblico
devo rifare tutto l’iter e chissà con che tempi: il medico di base, poi lo
specialista, poi una nuova richiesta di esami… Peccato che quel nuovo
accertamento costerà di più di quello che spenderesti con un ticket, ma ormai
sei dentro il sistema privato.
RDG: Una scelta autolesionistica da parte del pubblico e anche
poco razionale. La ratio è di tipo politico,
allora, nello stabilire ticket elevati per prestazioni di massa? Si può parlare
di una esplicita intenzionalità di spingere per la privatizzazione?
VA: Sono scelte
politiche che avvengono a livello regionale, c’entra il peso che localmente la
sanità privata ha rispetto ai decisori politici. Peraltro, qualche anno fa,
sono stati resi noti da Wikileaks dei documenti di grandi holding
internazionali delle assicurazioni in cui si sottolineava come la sanità fosse
in prospettiva un campo strategico di investimento, a patto che gli Stati e le
chiese restringessero il loro ruolo nel settore. Sono soprattutto i politici
regionali ad avere intrecci con le potenti lobby della sanità privata, e
scegliere di tenere alti i ticket proprio su esami diagnostici di massa
significa favorire il privato, farlo diventare competitivo. A proposito di
funzionalità, va detto che un sistema privatizzato costa indubbiamente di più,
lo dimostrano numerose ricerche realizzate sia a livello nazionale che europeo
e confermate da studi svolti negli USA. C’è una forbice, con un aumento della
spesa privata e un taglio di quella pubblica; già il governo Gentiloni aveva
deciso che nel 2021 la percentuale della spesa sanitaria sul PIL dovesse
attestarsi sul 6,3%, dunque meno di quella attuale che è 6,6%, e molto al di
sotto del valore che l’OMS indica come necessario a garantire i servizi
necessari. Non sono scelte funzionali, sono scelte politiche, la strada è
quella di spostare sul privato una sanità che diventata fonte di profitto.
RDG: Queste scelte hanno una correlazione significativa secondo te con
le politiche di austerità post crisi del 2008, quando tagli e smantellamento
del welfare hanno preso una più decisa velocità?
VA: In sanità questo
processo è partito molto prima, negli anni Novanta del secolo scorso, come
processo di privatizzazione, ma anche prima, quando le USL sono state
trasformate in ASL, in aziende; per le prime il bilancio dipendeva solo dalla
fiscalità generale, per le ASL invece si tratta di avere bilanci in pari. Gli
obiettivi che le ASL assegnano ai direttori sono solo parzialmente sulla
qualità, sono prioritariamente relativi al fattore economico: un direttore che
non lotta contro le liste d’attesa ma tiene il bilancio in pari piacerà sempre
al politico regionale. Il finanziamento del privato, poi, ha aperto uno spazio
enorme di corruzione e falsificazione, il privato tende ad andare laddove le
prestazioni sono più remunerative, fino all’estremo – lo leggiamo poi sui
giornali quando qualcuno finisce in tribunale – di realizzare certi interventi
chirurgici anche se non necessari o adeguati. I controlli sono poco incisivi,
ci sono a livello regionale, ma per esempio in Lombardia quando parte un
controllo lo sanno tutti due giorni prima… Il pubblico in realtà sta dando mano
libera ai privati. La questione è complicata dal fatto che i vertici della
sanità regionale sono di nomina strettamente politica, direttori generali che
poi scelgono direttori sanitari e amministrativi, c’è una catena di lealtà
politica che non va certo a favore dell’efficienza.
RDG: I 21 sistemi sanitari regionali seguono tutti le medesime tendenze
alla privatizzazione? O ci sono modelli differenziati? Tu hai lavorato in modo
particolare a una analisi critica e a una opposizione al modello lombardo di
privatizzazione, credi che sia un apripista destinato a diventare tendenza
nazionale?
VA: I vincoli politici
sono simili in tutte le regioni, a prescindere dalle giunte. La sanità è il
settore portante dei bilanci regionali; parlando per la Lombardia, su un
bilancio annuale di circa 23 miliardi, 18 vanno alla sanità, e ormai quasi 14
sono destinati alle persone con patologie croniche. I modelli e i livelli di
privatizzazione invece cambiano a livello regionale, credo che su questo i
processi più avanzati siano in Lombardia, Sicilia, Lazio. Certo, il modello
lombardo non è generalizzato, a oggi, ma per quanto concerne i malati cronici
fa tendenza e sta diventando il cavallo di battaglia per esempio di Forza
Italia o dell’ex ministra Beatrice Lorenzin. La peculiarità è che il modello
lombardo non solo privatizza, ma toglie la responsabilità della gestione della
salute all’ente pubblico, ridisegna proprio l’intero sistema: la Regione
distribuisce assegni a dei gestori privati, tra questi vi sono anche fondi
sorretti da fonti finanziarie internazionali, che reclutano i cittadini con
contratti di natura privatistica, che non si possono rescindere fino al 31
dicembre di ogni anno, e da quel momento il cittadino dipende da quel gestore
privato, che sia fondo sanitario o altro ente. Potrà farsi visitare solo nelle
strutture che hanno un accordo con il “suo” gestore, perdendo il diritto a
essere visitato ovunque da qualsiasi struttura sanitaria pubblica, e sarà
vincolato a questi accordi privatistici. Qui è lo Stato che rinuncia, che esce
di scena. Cosa succederà? Che la qualità delle cure scenderà, perché si
cercherà di fare profitto sulle quote concordate tra Regione e gestore, e poi
la selezione delle prestazioni garantite sarà a cura del gestore, e non tutte
lo saranno. Pensare poi a vertenze a favore dei diritti dei cittadini sarà più
difficile senza un pubblico garante o anche una chiara controparte pubblica.
RDG: È un sistema che, in prima battuta sembra complicato e difficile
da capire. Informare e sensibilizzare i cittadini mi sembra una sfida non da
poco, per non dire creare un movimento critico…
VA: È quasi impossibile
capire tutto di questi dispositivi. Ho fatto centinaia di incontri con i
cittadini, è complicatissimo spiegare. È anche più complicato se si considera
che, in ogni caso, se la gestione della sanità è regionale, questa riforma
avviene pur sempre in un quadro nazionale del quale la Giunta lombarda deve
tenere conto, non può improvvisamente azzerare il SSN e cancellare il contratto
collettivo nazionale dei medici e tantomeno può obbligarli a lavorare con
gestori privati. Credo comunque che ci siano profili incostituzionali in tutto
questo, come Medicina Democratica, abbiamo fatto ricorso al TAR che ne
discuterà in novembre. Intanto, in attesa del TAR, per ora c’è la possibilità
ma non l’obbligo, né per i medici né per i malati cronici, di scegliersi il
proprio gestore. I cittadini lombardi a oggi non sembrano convinti, infatti su
3 milioni di lettere inviate loro dalla Regione solo meno del 10% ha risposto
alla proposta di aderire a un gestore e nella città metropolitana di Milano i
medici di medicina generale hanno aderito solo per il 25% alle proposte
regionali. Un altro aspetto critico è che è in atto un processo per cui i
medici di base si stanno organizzando, trasformando le loro cooperative in
società, per diventare anche loro gestori, stante che può essere proficuo. Tra
i gestori, oltre ai fondi privati, inclusi quelli che hanno riferimenti
finanziari internazionali, ad esempio con sede a Dubai, avremo anche le società
dei medici, che saranno avvantaggiate perché potranno reclutare i cittadini tra
i loro pazienti. Anche qui vedo aspetti di incostituzionalità, perché il medico
del servizio pubblico finisce con fare profitto attraverso la sua società di
gestione, cioè medici del SSN diventano imprenditori privati. Questo sta
creando problemi ai sindacati dei medici, che in prima battuta si sono opposti
alla riforma, anche con ricorsi di incostituzionalità e a difesa della
professione medica, ma adesso fanno i conti con una parte dei loro iscritti che
sta facendo marcia indietro.
RDG: Proviamo a leggere tutto questo con gli occhi del cittadino. Cosa
perde e cosa guadagna? Non solo economicamente, ma in termini di salute,
prevenzione, cura, accesso alle cure, insomma di diritto alla salute
VA: Alcune fonti
riportano il dato di 11 milioni di persone che non si curano, intendendo che
rinunciano a curarsi per una patologia, e questo fenomeno riguarda soprattutto
l’odontoiatria e la fisioterapia. Rinunciare alla fisioterapia è grave, non
solo per la persona interessata, ma anche per la famiglia che se ne prende
cura, con carichi maggiori. Lo stesso accade se si rinuncia alle cure
dentistiche, si tratta di patologie che portano con sé conseguenze
sull’alimentazione e altri problemi di salute correlati. Dunque, una situazione
in cui gli effetti negativi sono a cascata. In questo quadro, la spesa
sanitaria privata pagata dai cittadini si è attestata attorno al 30% della
spesa sanitaria totale, perché i cittadini non riescono a curarsi, prima di
tutto a causa delle liste d’attesa; in Lombardia per alcune visite l’attesa è
di vari mesi, talvolta oltre un anno. Chi ha qualche disponibilità va verso il
privato e poi finisce con il rimanerci. Questo il meccanismo di fondo. Però va
detto che la penetrazione del privato avviene anche con altre modalità. Io
ritengo catastrofico, per esempio, sotto questo profilo l’inserimento delle
assicurazioni private nei contratti collettivi nazionali di lavoro.
Catastrofico, perché stiamo combattendo per difendere la sanità pubblica e con
i contratti milioni di persone vengono spostate dal pubblico al privato!
Tornando indietro di 40 anni; infatti, così si torna alla logica delle mutue,
prima della legge 833, quando l’assistenza sanitaria era agganciata al posto di
lavoro. Tocca ricordare che il primo contratto nazionale che ha compiuto questo
passo è quello dei metalmeccanici, FIOM inclusa, che ora sta cercando di
ampliare la copertura assicurativa anche ai famigliari del lavoratore. Poi via
via hanno seguito l’esempio altre categorie, i ferrovieri per esempio, e altri.
C’è da dire inoltre che l’offerta privata non riguarda interventi complementari
alla sanità pubblica, perché se vai a vedere vengono offerte tutte le
prestazioni, e dunque si prospetta una concorrenza, non una complementarietà al
SSN. Nella CGIL, chi non ha seguito questa strada è non a caso la Funzione
Pubblica, che ha al suo interno i lavoratori della sanità.
RDG: Sono già osservabili ricadute di questi processi di privatizzazione
e del ridimensionamento del SSN sulla salute degli italiani?
VA: Nella graduatoria
mondiale sull’attesa di vita siamo ancora al secondo posto, sebbene per la
prima volta sia sta osservata una diminuzione. L’OCSE misura due indicatori,
uno è appunto l’aspettativa di vita, l’altro è la qualità della vita dopo i 65
anni: qui negli ultimi anni siamo letteralmente precipitati nella classifica.
Ma questo porterà con sé anche un calo nell’attesa di vita, se aumentano le
patologie e diminuisce la possibilità di curarsi sarà inevitabile. Detto
altrimenti: già adesso gli italiani cominciano a vivere peggio, dopo vivranno
anche di meno.
RDG: Si può pensare di agire per bloccare questa tendenza? O anche solo
per moderarla? Per come l’hai descritta, appare come uno dei tanti processi
globali rispetto ai quali, anche volendo, Stati nazionali e soprattutto
movimenti per il diritto alla salute misurano la loro impotenza. E così o
possiamo individuare dei terreni di lavoro?
VA: Sarebbe necessario
un grande movimento basato sull’alleanza tra i lavoratori e i cittadini, gli
utenti del SSN. Ma è quello che io non vedo e penso sia uno dei grandi limiti
del sindacato oggi. Io lavoro all’INPS e ogni giorno ricevo mail dal sindacato:
sono mail che parlano di tutto, dagli orari di lavoro ai buoni mensa, ma non
leggo mail in cui si metta il rapporto con l’utenza al centro, e all’INPS
l’utenza è fatta di gente invalida, con mille problemi. In termini di
sostenibilità della spesa e anche di qualità professionale il SSN può assolutamente
essere competitivo con il privato, ma vanno fatte delle scelte di investimento.
Per esempio, la medicina preventiva: si investe pochissimo, a fronte del fatto
che le patologie del terzo millennio nei Paesi industrializzati sono quelle
cardiache o quelle legate all’alimentazione, su cui investendo in campagne
serie di prevenzione si potrebbe incidere significativamente, arrivando anche a
limitare i costi delle cure. È chiaro che la prevenzione non interessa al
privato, non si fa profitto sulla prevenzione, la prevenzione può farla
efficacemente solo un sistema pubblico: e così si metterebbero a posto i conti
dello Stato, pensando al risparmio che la prevenzione promuove. Dove è scritto
che la medicina è solo curativa? Eppure, se vedi il corso di laurea in
medicina, non trovi esami di medicina preventiva se non in poche
specializzazioni! Non c’è la logica per cui il primo obiettivo di un sistema
sanitario è tenere le persone in salute e poi curarle se si ammalano, le
priorità, purtroppo, sono altre.
Invece sta crescendo il dibattito sulla cosiddetta medicina personalizzata:
a Milano l’area ex Expo dovrebbe diventare proprio il centro europeo della
medicina personalizzata e degli studi sul genoma, attraendo anche con regimi
fiscali favorevoli le grandi multinazionali del farmaco e della ricerca, nonché
l’IBM che è l’azienda (privata) che possiede il più grande archivio di dati
sanitari personali del mondo, e si appresta ad avere tutti quelli italiani.
Bene, questa è l’estremizzazione dell’approccio solo curativo della medicina:
ci sono 11 milioni di persone che non accedono alle cure di base e si investono
cifre enormi nella ricerca sul genoma che eventualmente produrrà farmaci per
curare pochi cittadini abbienti. Le scoperte in medicina e le nuove tecnologie sono
davvero progressive solo se è prevedibile un loro ampio utilizzo verso
l’insieme della popolazione, se no si tratta semplicemente di medicina di
classe.
Sul piano politico manca oggi una risposta collettiva, perché il cittadino
sui temi della salute è solo, fronteggia l’emergenza e la risposta è
individuale. È per questo che dico che il ruolo del sindacato è una occasione
per ora persa: il terreno d’azione dovrebbe essere quello della difesa della
salute, quello dei diritti dei cittadini, oltre e insieme a quelli degli
occupati. È quello che con le limitate forze a disposizione cerco di fare con
la mia trasmissione a Radio Popolare e con l’organizzazione di centinaia di
incontri in Lombardia per bloccare le delibere regionali che puntano a
privatizzare l’assistenza sanitaria ai malati cronici.
*****
Vittorio
Agnoletto: è medico del lavoro, lavora nelle commissioni per l’invalidità civile
dell’INPS. È professore all’Università di Milano dove insegna “Globalizzazione
e politiche della salute” ed è autore e co-conduttore di “37e2”, la
trasmissione sulla salute che va in onda tutti i giovedì su Radio Popolare. È
membro del Consiglio Internazionale del Forum Sociale Mondiale. Tra le sue
pubblicazioni la più recente analizza criticamente il modello lombardo di riforma
del servizio sanitario regionale: Sanità in salute? Il libro
bianco della sanità lombarda (con Alessandro Braga, Edizioni
Radio Popolare, 2017).
Nessun commento:
Posta un commento