La mia prof di italiano delle superiori
diceva “Tutto è politica”. (In verità
lo diceva, prima di lei, Thomas Mann). Quella breve frase sembra quasi un haiku (particolare
forma di poesia giapponese). Se non fosse che per essere tale avrebbe bisogno
di almeno altre due strofe. Allora magari posso provarci io. “Tutto è politica.
Ma la politica è amore. Amore per il prossimo. Amore per il vicino. Amore per
il lontano”.
Naturalmente è poesia – e anche un po’
improvvisata – e come tale rimane un’emozione personale…
Siccome – vuoi per etimologia, vuoi per
pratica secolare – la politica è quasi sempre stata nelle mani di un’élite,
cioè di una categoria ben definita a cui era (ed é) riservata l’amministrazione
dello Stato e il governo dei cittadini, il “fare
collettivo” ha avuto sempre meno importanza e rilievo. Così come ne ha
acquisita sempre di più la politica trasformata in preponderanza dei partiti,
affermazione personale, ricerca di consensi. Non piacerà sentirlo – e, per
carità, sarebbe un gran problema se non ci fossero – ma anche le presenze e le
azioni sindacali di un tempo sapevano “fare politica” più di oggi. Sapevano
muovere masse e far sentire quelle masse utili, importanti, decisive per i
cambiamenti sociali.
Io non sono una politologa, non sono una
sociologa. Sono solo una semplice giornalista. Ma soprattutto una semplice
osservatrice. E quello che mi sembra di vedere è che quel “tutto è politica”
si è trasformato in “tutto per il
consenso”.
E mentre la gente, i cittadini, noi,
stiamo sempre più a casa ad indignarci sui social, litigare con tizio e caio
che non la pensa come noi e a dire pure parolacce, c’è chi i cittadini, noi, li
usa per cercare consenso, aumentarlo, consolidarlo. Se fatto disseminando odio,
fake news, e attraverso un utilizzo personale delle istituzioni, anche
stravolgendone il senso e la sacralità, non importa a nessuno. O meglio, sembra
che più nessuno possa farci nulla. Che
la situazione sia sfuggita di mano. Sembra di assistere a una grande
farsa, a una grande opera pirandelliana dove noi restiamo spettatori quasi inutili perché
tutto ciò che si svolge richiede solo la nostra partecipazione emotiva, la
nostra indignazione, appunto. O il nostro battimano. E magari, per bene che
vada, ricavarci una morale, una lezione di vita. Meglio ancora, una conferma di
come vanno le cose.
Perché tutto è apparenza,
facciata, gioco delle parti, travestimento.
Ecco perché si può essere anche “governati” da chi tramuta quella che dovrebbe
essere un’arte – “arte di governare” – in un gioco
al massacro. Dove ad essere massacrati sono i valori della Costituzione,
i diritti umani, le leggi e le relazioni internazionali. Ma anche,
prosaicamente, le norme del vivere
civile. Perché, insomma quell’homo homini lupus lo avevamo
imparato sì a scuola, ma chissà perché uno a volte pensa che i filosofi
esagerano. E poi, magari, che i tempi della cannibalizzazione
culturale e civile siano finiti. Finiti i princìpi che reggevano le
colonizzazioni, le apartheid, gli sfruttamenti delle classi più deboli, le
supremazie delle classi di potere.
Pensavamo. In realtà sta andando peggio,
molto peggio. E in Italia ancora di più. Il perché è assai ovvio. Perché in
Italia abbiamo gente che dovrebbe praticare “l’arte di governare” per il bene e
il benessere della società, che invece sta
facendo di tutto per creare divisioni (e ci riesce benissimo), non
solo tra noi e il resto d’Europa, ma tra noi e noi (italiani contro italiani);
gente che mente spudoratamente (per
dirne una: su quanto siano belli, confortevoli e funzionali i campi per
immigrati in Libia); che ha saputo
dell’esistenza del Franco CFA solo quando qualcuno gli ha suggerito
che poteva tornare utile per rompere e gettare fango su un membro (al pari
nostro) dell’Unione Europea, non per altri motivi; che se la ride delle istituzioni – e ne
indossa tutte le divise – perché pensa di poter fare come gli pare; che ha il culo al coperto e
allora pensa di poter mandare allo sfascio il futuro dei giovani e del lavoro
con un’idea propagandistica, ancora inattuabile e che forse non lo sarà mai
(reddito di cittadinanza).
Potremmo provarci ad essere ottimisti.
Ma il punto non è quello. Il
punto non è sperare che sia un momento di passaggio in questa
nostra piccola storia italiana. Il punto è che questa piccola storia italiana è
sintomatica del fatto che un po’ dappertutto quel “tutto è politica” e dunque
condivisione, partecipazione, azione, si è tramutato da tempo in “tutto è
consenso”. E per il consenso, beh per quello basta trovare quelli che la
pensano come te sui social, fare massa critica e accumulare like.
Non occorre neanche uscire di casa, guarda
un po’.
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