i due termini, limite e confine, funzionano praticamente da sinonimi nel
cinquanta per cento dei casi; nell’altro cinquanta per cento invece no, e anche
se non ci si fa caso la distinzione è importante: infatti il concetto di
confine predomina nel riferimento spaziale, inteso in particolare come confine
di proprietà, confine di territorio, confine di stato: cioè il confine di ciò
che è mio e che non è tuo, come per esempio il confine tra l’italia e la
francia; il concetto di limite predomina invece nella sfera morale, inteso in
particolare come limite della condotta, limite della legge, limite dell’etica:
cioè il limite che mi è dettato da un imperativo umano di auspicata universalità,
come per esempio il limite sull’esercizio della violenza, sulla guerra, sulla
pena ecc.
se stiamo a questa primaria e indispensabile distinzione, dovremmo poter
ragionare su cosa viene prima, se l’osservanza dei confini o l’osservanza dei
limiti; tutte le questioni concernenti la priorità dei diritti umani
fondamentali e la salvaguardia dei confini proprietari o territoriali, se solo
ci si dispone a ragionare con la necessaria attenzione, si riducono a questo;
è di assoluta evidenza che i diritti di natura vengono prima dei diritti di
storia: i primi qualificano gli esseri umani come uguali, i secondi li
posizionano come differenti; la contraddizione diventa profonda quando
contrappone il diritto individuale a muoversi e il diritto statuale a impedirlo:
non è un caso che la questione migratoria, da sempre, abbia rappresentato la
massima e ricorrente espressione di questa contraddizione, e che la chiusura
statuale dei confini abbia costantemente sopraffatto l’imperativo morale
all’apertura; peggio, chi capita nella rete non viene semplicemente rigettato
in mare, viene piuttosto esibito come ostaggio in modo che altri in attesa di
là non seguano la sua via, e che in forza dello spettacolo si levi di qua la
rabbia della folla;
è in questo modo che il vanto del confine di stato (un simulacro che spesso
rende prigioniero chi vi è dentro prima che chi viene da fuori) finisce
inevitabilmente per gettare la consapevolezza morale al di fuori del limite
riconosciuto, nelle terre ignote del delitto senza giudice;
è vero che anche il diritto migratorio deve osservare dei vincoli, come
quando si è al semaforo o si va in ascensore: ma questa è una questione di
misura dimensionata al problema, e purtroppo proprio qui si finisce per
affondare: in quanto la parte avvantaggiata nella differenza tra soggetti umani
rifugge dal compito di pensare e sperimentare misure dimensionate al problema,
e ne rifugge in quanto l’adozione di misure reali disturberebbe le dinamiche
costituite e blindate che danno luogo alla differenza stessa; la retorica
medesima della “accoglienza” nasconde questa implicita condizione: la mano che
accoglie sta sopra e quella che riceve sta sotto;
lo scudo conclamato e comunque sempre sbeffeggiato del diritto umanitario
si riferisce oggi in europa alla convenzione dei diritti umani, datata al 1951
e partorita dalla morte di settanta milioni di persone nella seconda guerra
mondiale, e all’accordo di dublino, datato al 1990 e avente come oggetto i
rifugiati e gli apolidi intesi come casi individuali; da allora niente di nuovo
sul fronte occidentale; ma nè la convenzione del 1951 nè l’accordo del 1990
potevano minimamente prevedere la dimensione di massa che i processi migratori
avrebbero assunto con la cosiddetta globalizzazione; e dunque lo scudo della tutela
umanitaria si rivela di fatto l’arma totale levata proprio contro chi si
azzarda a migrare e nel suo “espatrio” dovrebbe essere tutelato;
viene quasi da ridere se si pensa che i differenti che stanno sopra
alimentano la loro crescita con l’acquisto di certificati verdi dei differenti
che stanno sotto: i certificati verdi sono quelle misure che fissano i limiti
di emissione di anidride carbonica e quindi i limiti del consumo di energia e
della produzione industriale: “limiti”, appunto, non confini perché
l’avvelenamento dell’atmosfera non riconosce le frontiere a terra; e così tutti
i paesi dell’opulenta e tronfia unione europea non solo vomitano in cielo gli
ingredienti della catastrofe climatica ormai prossima a venire, ma comprano dai
paesi poveri del continente africano proprio le dosi di consumo energetico
necessarie a questi paesi per avviare la propria industria e per aiutarsi
realmente a casa loro; è così che la tossicomania della “crescita” raccatta
quotidianamente dai poveri la propria overdose fondamentale;
e allora, se davvero vogliamo giocare al traffico di esseri umani, perché
non stabilire una misura di scambio tra diritto alla migrazione e mercato dei
certificati verdi? cosa c’è davvero di più pericoloso e più sporco? oppure, se
proprio vogliamo giocare a definire “limiti” alla propensione al movimento
connaturata alla vita umana, non sarebbe il caso di cominciare a frenare
proprio l’accelerazione esponenziale della mobilità veicolare, automobilistica,
aerea e navale, che viene prodotta nei paesi ricchi, esportata
monopolisticamente anche in quelli poveri ma che sta soffocando tutti? ma
questo è solo un esempio del rifiuto di comprendere che la ruota gira e che sta
girando in fretta: di fatto si può già prevedere che città grandi e piccole muteranno
con il crescere del livello dei mari, e che nuove vie migratorie finiranno per
muovere i nostri figli;
e dunque, se la dimensione è questa, allora salvini? salvini, come orban o
come altri governi nell’est, entra in scena quando il liberale padrone di casa
è andato a lavarsene le mani: dopo le convivialità arrivano sempre i cani
arrabbiati, e gli sciacalli: gli uni per la frustrazione, gli altri per il
potere
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