Il prossimo
23 marzo si terrà a Roma un’importante manifestazione nazionale “contro le grandi opere inutili e per la giustizia
ambientale”. Si tratta di un importante appuntamento per
tutte le realtà che, in ogni angolo del paese, sono in lotta per un altro
modello di società, che parta dal
riconoscimento dei beni comuni e della democrazia partecipativa. Una
necessità ancor più impellente, vista la realtà del cambiamento climatico in
atto e l’incapacità delle elite politiche e dei governi di prenderne atto,
invertendo la rotta.
In tema di grandi opere, c’è un aspetto che non
viene sufficientemente sottolineato: la loro funzione di alimentazione della
trappola del debito. È infatti significativo come l’alto debito pubblico, agitato
dai governi ogni volta che si tratti di fermare una rivendicazione di lavoro,
reddito e servizi, sia invece completamente rimosso quando si parla di grandi
opere.
Qual è
infatti il meccanismo finanziario che sottende la realizzazione delle grandi
opere? La famosa finanza di progetto, basata sul partenariato
pubblico-privato. Partendo dal fatto che gli enti pubblici non possono
investire perché i vincoli di bilancio non lo permettono, si affida la concessione ad una
società di diritto privato con capitale interamente pubblico, la quale affida
l’esecuzione dell’opera ad un contraente generale (il privato) che elabora
il progetto esecutivo e conduce a termine i lavori. In questo schema, i cosiddetti investimenti del privato
possono contare sulla totale garanzia del “pubblico”, senza la quale gli
imprenditori non potrebbero rientrare dei loro investimenti e gli istituti
bancari non concederebbero i finanziamenti.
Alla
fine il privato viene retribuito e l’opera ritorna alla società iniziale a cui
spetta il compito di recuperare i soldi che le banche hanno prestato, attraverso gli utili che derivano
dalla gestione del servizio, e, se questi sono insufficienti, tale debito
diventa debito pubblico, perché a garantirlo è il socio pubblico della società
di diritto privato.
Il ‘project financing’ è di conseguenza un sistema
di garanzie pubbliche e di utili privati; un sistema a debito, in cui la leva finanziaria
è totalmente in capo al settore pubblico, che, mascherato da società di diritto
privato, è costretto a restituirlo alle banche a tassi d’interesse molto
maggiori di quelli che pagherebbe in quanto ente.
Debito non conteggiato in bilancio oggi, perché
contratto da un soggetto di diritto privato, ma che sul bilancio pubblico si
scaricherà quando dovrà essere ripagato. Un cifra che, secondo l’Osservatorio
nazionale dei contratti pubblici, ammonterà a oltre 200 miliardi di euro.
Lo schema
perverso della finanza di progetto comporta l’interesse del contraente privato
alla moltiplicazione dei costi, come infatti avviene in ogni infrastruttura
sinora realizzata. Lungi dall’essere opere strategiche per rompere l’isolamento
dei territori (?) o per far crescere l’economia (?), la spinta nei confronti
delle grandi opere viene dal grande capitale finanziario, che ha bisogno del
gigantismo infrastrutturale per garantirsi flussi continui di denaro (pubblico)
dal quale estrarre valore finanziario (privato).
Al termine del ciclo, le comunità territoriali
coinvolte ne pagheranno i costi sociali e ambientali, mentre l’intera collettività
sconterà un ulteriore depauperamento di risorse e il rafforzamento della trappola del debito per
mettere il silenziatore ad ogni nuova rivendicazione sociale. Forse, quando il fantasioso ministro
Toninelli parla di analisi costi-benefici, dovrebbe precisare meglio a favore
di chi siano i secondi e a carico di chi siano i primi.
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