giovedì 7 febbraio 2019

Una Sardegna alla “morienza” - Francesco Casula



Decenni di (s)governo da parte dei partiti e delle coalizioni italiche, di centro destra come di centro sinistra, ci consegnano una Sardegna alla “morienza”.
Se nelle prossime elezioni regionali del febbraio prossimo non ci sarà una svolta, un cambio radicale di passo, sarà inevitabile un ulteriore (e forse definitivo) sfascio economico e produttivo, politico sociale e culturale. E persino antropologico.
Per questo è necessario che si affermino forze nuove e rinnovatrici, identitarie, libere e indipendenti dai cappi italici e italo centrici, capaci di rispondere ai bisogni e agli interessi dei sardi piuttosto che agli ordini e ai voleri dei gerarchi romani o dei “capitani” milanesi.
Forze politiche e movimenti che siano realmente “organici” al popolo sardo e non succubi e subalterni a partiti, non solo estranei al popolo sardo ma ostili e nemici. Storicamente. E oggi ancor più.
A fronte di una legge elettorale, impudicamente truffaldina, costruita esclusivamente per difendere e conservare lo status quo dei vecchi partiti dominanti, dubito che nuove forze possano entrare nel Consiglio regionale. Anche perché si presentano divise e frammentate: ma almeno occorrerà tentarci, con tutte le forze, da parte di tutti i Sardi liberi. Ovvero non legati alle clientele pluridecennali. Agli interessi inconfessabili nel settore energetico, edilizio, bancario.
Alle consorterie di potere. Alle grandi e potenti famiglie – di Cagliari in primis – che da decenni gestiscono il potere economico, finanziario e mediatico in Sardegna.
Alla commistione invereconda fra pubblico e privato: pensiamo solo alla sanità. Viepiù disastrata e liquidata, quella pubblica intendo, a favore di quella privata. Specie con gli strali mortiferi della recente controriforma.
Se continuassero a vincere ed affermarsi le coalizioni italiote, il malgoverno continuerebbe a trionfare. “Liquidando” di fatto la nostra Isola. La Sardegna, più di quanto non lo sia oggi, sarebbe ridotta a forma di ciambella, con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato: senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, private dei servizi essenziali, abbandonate e in via di sparizione.
Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza avvenire e senza progetti. Di nuovo sulla strada del disterru e della deportazione. E questa volta sos istudiaos. I laureati. Le eccellenze. A impoverire ulteriormente, la nostra Terra. Economicamente e culturalmente.
Col tentativo di liquidare l’agricoltura e interrare la pastorizia: eliminando i pastori insieme alla loro cultura etnica resistenziale.
Con i sardi senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte.
Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia. Nuovi aga khan: ma peggiori e più famelici dei vecchi. A gestire turismo, sanità, pale eoliche et similia.
Una Sardegna buona solo per ricchi e annoiati vacanzieri, da dilettare e divertire con qualche ballo sardo e bimborimbò da parte di qualche “riserva indiana”, peraltro in via di sparizione.
Una Sardegna che si ridurrebbe a un territorio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura, e senza lingua. L’attuale Giunta Pigliaru è riuscita, nella Finaziaria del 2018, a dedicare alla lingua sarda la portentosa e fantasmagorica percentuale dello 0.0201%!
Si ridurrebbe a un’Isola disincarnata e sradicata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza identità. Senza popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati (OGM). Ovvero con individui apolidi.
Cloroformizzati e conformisti.
Una Sardegna uniforme. In cui a prevalere sarebbe l’odiosa, omogenea unicità mondiale: come l’aveva chiamata David Herbert Lawrence in Sea and Sardinia.
Si avvererebbe la profezia annunciata da Eliseo Spiga, che nel suo potente e suggestivo romanzo Capezzoli di pietra scrive: “Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Villaggi campagne altipiani livellati ai miti e agli umori di cosmopolis”.
Sarebbe un etnocidio: una sciagura e una disfatta etno-culturale e civile,prima ancora che economica e sociale.
Apocalittico e catastrofista? Vorrei sperarlo

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