Troppo facile dare la colpa alle barriere commerciali. Per molte PMI il vero ostacolo è la scarsa diversificazione dei mercati e l’incapacità di tradurre il proprio valore in un linguaggio che il mondo digitale possa capire
Quando si
parla di commercio internazionale, l’attenzione ultimamente finisce quasi
sempre sui dazi, cioè tasse e barriere che rendono più difficile
vendere all’estero. Ma per molte piccole e medie imprese questo tema rischia di
diventare anche un comodo alibi, un modo per spiegare ogni
difficoltà di vendita senza guardare ai limiti strutturali e strategici che
frenano davvero la crescita. Il problema, per un Paese come l’Italia, è molto
più profondo.
Oggi la
nostra economia si regge in larga parte sull’export e ogni anno vendiamo fuori
dai confini merci per oltre 700 miliardi di euro. Sembra tanto, e lo è, ma
dobbiamo chiederci dove e a chi vendiamo. Il 75% delle nostre esportazioni va
verso un pugno di Paesi ricchi, come Germania, Stati Uniti,
Francia, Regno Unito e Spagna, che in totale contano meno di 400 milioni di
abitanti. Il resto del mondo, con mercati enormi come Indonesia, Cina, India o
Brasile, e miliardi di potenziali clienti, pesa pochissimo per
le nostre aziende. Prendiamo un esempio concreto: in Germania ogni anno
vendiamo prodotti italiani per oltre 70 miliardi di euro, mentre in Indonesia,
con più di 280 milioni di abitanti, vendiamo appena un miliardo e mezzo. Questa
concentrazione ci rende vulnerabili, perché se uno di questi
mercati storici rallenta o chiude le porte, noi rischiamo grosso.
Per crescere
non basta vendere in nuovi Paesi: bisogna capire cosa ci rende speciali e
saperlo raccontare in un mondo dove contano soprattutto dati e algoritmi. Il
nostro valore nella moda, nel cibo, nell’arredamento o nella meccanica di
precisione è fatto di creatività e cura dei dettagli che un’intelligenza
artificiale non riesce a cogliere se non glielo spieghiamo in modo chiaro. Oggi
chi ha i dati in mano ha anche i mercati, e non si tratta di digitalizzare tanto
per farlo, ma di tradurre il nostro talento in un linguaggio che la tecnologia
possa capire. Altrimenti è come avere un’opera d’arte senza cartellino:
affascinante per chi la conosce, ma invisibile per tutti gli altri.
Negli anni
Duemila, le grandi linee ferroviarie ad alta velocità hanno accorciato le
distanze tra città e reso più rapido lo scambio di persone e merci. Oggi serve
lo stesso salto, ma nel mondo digitale: una rete nazionale capace di
raccogliere, organizzare e mettere in circolo le informazioni che raccontano il
meglio del nostro saper fare. Se non lo facciamo noi, lo faranno altri Paesi,
magari copiando, semplificando o banalizzando il nostro lavoro, e a
quel punto resteremo soltanto il “Paese da cartolina”: bello da visitare, ma
poco rilevante per chi deve comprare e investire.
Il futuro
dell’export italiano non è sopravvivere ai dazi, ma imparare a parlare la
lingua del mondo digitale senza perdere la nostra identità. Significa
affiancare alla manualità degli artigiani un vocabolario di dati, immagini e
storie che ci facciano emergere anche sugli schermi e non solo nelle
vetrine. Diversificare i mercati di sbocco, rendere la nostra
eccellenza comprensibile anche agli algoritmi e costruire un’infrastruttura
nazionale per valorizzare ciò che sappiamo fare sono le vere priorità.
Solo così potremo restare competitivi e non sarà un algoritmo a decidere chi
siamo.
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