Non abbiamo dovuto aspettare molto per capire che la
vocazione di pompiere gli è congeniale
Come lo
stesso card. Robert Prevost ha voluto sottolineare
pomposamente apparendo al balcone con la mozzetta rossa, residuato storico
della clamide imperiale, simbolo della dignità dell’imperatore d’Occidente e di
Oriente (Roma e Bisanzio/Costantinopoli), il papa neoeletto volle che lo
chiamassimo «Leone», nell’ordine il quattordicesimo. Il riferimento compiaciuto
era per il suo predecessore Leone XIII, che, per la vulgata
abborracciata, fu il papa della modernità con l’enciclica Rerum Novarum del
1891, con cui, a malincuore, il papa prendeva atto che il mondo gli era
scappato di mano e bisognava prendere per le corna la «questione operaia»,
altrimenti altri se ne sarebbero appropriato e la Chiesa ci avrebbe fatto,
ancora una volta, la figura del fossile pachiderma, incapace
di vivere i tempi che attraversa.
Il papa
americano-peruviano-italo-franco-spagnolo intravede nella Intelligenza
Artificiale un’altra questione epocale, spartiacque che attraversa gli
interessi della Chiesa (mo’ me la segno!). Volle chiamarsi Leone XIV solo per
questa ragione. Lui si applaudì da solo, gli americani erano
contenti di avere un meticcio, ma abbastanza bianco da non sfigurare come papa,
“vestito di bianco” con un tocco rosso che dona sempre e gli
altri cardinali si accodarono perché capirono subito che non sarebbe mai stato
la riedizione di Francesco. Francesco arrivò dopo 800 anni del primo Francesco,
e noi, ora, per vederne un altro, bisognerà aspettare la fine del mondo (per
altro, abbastanza vicina, con gli scuri di luna che vi sono in giro).
All’inizio,
io stesso lo accolsi con beneficio d’inventario e dandogli il credito che si
merita un nuovo cliente, salvo cambiamenti in corso d’opera. Non
abbiamo dovuto aspettare molto per capire che la vocazione di pompiere gli è
congeniale. D’altra parte, è un “figlio di Sant’Agostino” (autocertificazione
sua), uno che, essendosi buttato tutto a destra con Platone (sec. V-IV a.C.), mediato
da Plotino (sec. III a.C.) per i quali la materia è brutta e cattiva, mentre
solo l’anima è bella e affascinante, tanto da condannarla alla perpetua
prigionia a vita nel corpo mortale di esseri spregevoli. Ci vollero otto secoli
perché ad Agostino rispondesse per le rime uno come Tommaso d’Aquino (sec.
XIII). Leone si crede Mosè nel Mare Rosso dell’epopea dell’IA con l’intenzione
di affrontare rischi e montagne russe del cambiamento d’epoca.
Purtroppo, i
suoi sogni (e pure i nostri) si sono infranti subito con la
realtà che è più intelligente di qualsiasi artificiale intelletto. Appena
eletto, si trovò davanti calda di sangue fresco e giovane, anzi infantile, il
palcoscenico mondiale dove si rappresentava, in prima assoluta, GAZA, PLEASE!
opera unica di Benjamin Netanyahu, del suo governo e dei governi di
due terzi del mondo che lo appoggiano “perché paese democratico” (sic!), tra
cui gli Usa trumpisti, un altro modello di democrazia al barbecue.
Invece di
affacciarsi al balcone per dire soltanto: “Io vado a Gaza e parto oggi
stesso; chi vuole venire con me? Andiamo per mare fino all’altezza di
Gaza, poi viriamo a sinistra (almeno una volta nella vita, tanto per togliersi
lo sfizio) e attracchiamo sulla spiaggia. Poi si vedrà! Nossignori. Il Leone ha
deciso di non telefonare nemmeno alla parrocchia della Sacra Famiglia
di Gaza, a cui papa Francesco telefonava tutte le sere, alle ore 19:00 per
sorridere e parlare con gli ospiti rintanati lì.
Il Leone è
prigioniero del galateo diplomatico, e quindi se ne andò non a
Gaza, ma, come Annibale agli ozi di Castelgandolfo. Gli sforzi da ernia che ha
fatto sono stati “implorare la fine delle guerra; provo un grande dolore per
Gaza; ai capi di Stato dico: non fate i birichini” e, dulcis in fundo,
ma proprio in fundo: “La santa Sede non intende, per ora, chiamare ‘genocidio'”
il ‘genocidio’ che si sta consumando sulla pelle dei martiri moderni, come
avvenne nella Shoàh ebraica nei campi di sterminio nazisti, dei bambini, delle
bambine, dei vecchi e delle donne e di disperati di Gaza. Il papa è
capo di stato e quindi non gli si addice usare un linguaggio di
verità, perché la “diplomazia è l’arte di dire bugie con stile ed educazione”.
Dopo che
qualcuno, ma dopo un secolo e mezzo, deve avergli detto che tutto il mondo si
aspettava un segno da lui, bontà sua, si è lasciato scappare: “Andrò a
Lampedusa”. Non si capisce la logica perché poteva anche andare alle Bermude,
alle Settechelles o ad Arzachena o Calangianus in Sardegna… l’ospitalità
l’avrebbe avuta lo stesso con un bicchierino di “Filu ‘e ferru” e non avrebbe
corso rischi di sporcare la mantelletta rossa. Il popolo è molto più
avanti, anche 550 preti di 21 nazioni abbiamo deciso di chiamarsi “Preti contro il
genocidio” (massiccio
e travolgente 1,2% in tutto il mondo). Il papa non si pronuncia, ma soffre, si
addolora, invita, esorta, supplica e… fa l’americano. Forse, se
avesse riflettuto qualche secondo in più, avrebbe fatto meglio a chiamarsi Leoncello
I, tenero cucciolotto.
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