domenica 14 settembre 2025

Sergio Atzeni e Patrick Chamoiseau

 

“Hanno speso per autori molto inferiori a Chamoiseau, li hanno spinti, hanno premuto presso i recensori affinché i libri fossero recensiti. Sono libri magari anche “bellini”, ma c’è la differenza che passa tra una grande descrizione, un grande affresco del mondo e della storia come Texaco e i giochini di intellettuali di medio calibro italiani che devono fare vedere quanto sono intelligenti. Siamo veramente su pianeti diversi. Non hanno fatto nulla per Chamoiseau. È un augurio che non ha molto senso nell’Italia di oggi, ma io mi auguro sempre che ci siano dei lettori che scoprono autonomamente, casualmente, il libro, lo leggono, se ne innamorano e lo fanno conoscere agli amici.”

 Sergio Atzeni, Seminario di Parma, 1995

 

‘Sergio e Patrick si riconoscono nella poetica della creolità, nel racconto epico-mitico delle minoranze, nella sperimentazione linguistica. ‘Pastori della diversità’ (Giuseppe Marci).

Sergio Atzeni è stato il traduttore del romanzo Texaco di Patrick Chamoiseau, vincitore del Prix Goncourt nel 1992 e uscito inizialmente in Italia per Einaudi nel 1994 e attualmente disponibile nell’edizione de Il Maestrale .

 

Per Sergio

di Patrick Chamoiseau

Ho conosciuto Sergio durante un mio breve soggiorno a Parigi. Lavorava allora alla traduzione del mio romanzo Texaco. Ci siamo incontrati al bar dell’albergo.

Io credo molto al primo sguardo, prima ancora che intervengano parole e gesti. Una percezione immediata, ben poco razionale, che spesso mi orienta, e determina le mie amicizie, e stabilisce le mie complicità.

Vedendo Sergio Atzeni, la mia sensazione è stata immediata: un poeta, uno scrittore, una vampa di vita, semplice, tattile, che ama davvero i libri e la letteratura. Una sensibilità estrema, una esigenza, anche, una grande attenzione agli altri e il costante scrupolo di permettere agli altri di esprimere al meglio ciò che sono. Ho avvertito la modestia e l’erranza interiore in questo intimo trionfo che vivono coloro che dispongono di vero senso poetico.

Parlammo a lungo, e spesso, e io non parlavo più a un traduttore ma a un alleato dietro il quale sentivo lo scrittore senza concessioni né compromessi, lontano da qualsiasi vanità. Eravamo d’accordo che le lingue devono perdere il proprio orgoglio ed entrare nell’umiltà dei linguaggi, dei linguaggi liberi, dei linguaggi folli, dei trasalimenti che le rendono disponibili a tutte le lingue del mondo. Eravamo d’accordo che una traduzione non deve essere una chiarificazione, ma diventare la messa a disposizione d’un elemento delle diversità del mondo in una lingua d’accoglienza. Eravamo d’accordo che la traduzione non deve andare da una lingua pura a un’altra lingua pura, ma organizzare l’appetito delle lingue tra loro nell’ossigeno impetuoso del linguaggio. Eravamo d’accordo che una traduzione non abbia più timore dell’intraducibile, ma sciami a dar conto di tutti i possibili intraducibili. Ed eravamo d’accordo che una traduzione onori innanzitutto l’irriducibile opacità di ogni testo letterario; che, in questo mondo che ha finalmente la possibilità di risvegliarsi, il traduttore divenga il pastore della Molteplicità.

Il paese di Sergio è terra di linguaggi, d’ombra e di luce, e di molteplicità. Lui capiva quel che io dicevo. Lo sapeva già. Avevo in Sergio una bella proiezione di ciò che mi sforzo di diventare nelle pene della scrittura.

Il mondo ha perduto uno di quei poeti discreti che fondono la forza dei venti e delle stagioni. Io ho perduto un amico. Fratello, senza di te, mi sento d’improvviso impoverito di mille anni. 

da qui

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