«Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario». L’articolo 1 della Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano esprime in forma ufficiale ciò che resta del potere temporale dei papi. È l’ultima traccia di quella doppia natura del papato, autorità religiosa e morale da una parte, signoria mondana dall’altra. Questa doppia natura, ci si è sempre chiesti, è coerente col comandamento del Signore circa l’essere «nel mondo, ma non del mondo», o invece non lega i successori di Pietro alla logica dei principati e dei regni, quelli che il diavolo promette a Gesù nelle tentazioni, ritenendoli suoi? In altre parole, il papa-sovrano che accetta la logica del potere mondano è il san Pietro che ama il Signore, o quello che lo tradisce?
A questa discussione secolare, papa Francesco aveva dato una risposta
scardinante: quella della profezia. Un papa non secondo il mondo, ma secondo il
Vangelo: capace di spiazzare ogni suo interlocutore perché la profezia e la
potestà papale non avevano forse mai coinciso, nella storia bimillenaria della
Chiesa. Il suo parlare era sì, sì, no, no: così contravvenendo alla prima
regola del potere terreno, quella di una sistematica menzogna. Leone XIV non è,
con ogni evidenza, un profeta: con lui il papato torna nell’alveo ordinario
dell’esercizio del potere. Fin qui, purtroppo, nulla di strano: ‘strano’ era
Francesco.
Ma l’udienza concessa al capo dello Stato di Israele, Isaac Herzog, non è
ordinaria nemmeno per la tradizione spregiudicata del potere papale: non ha la
prudenza né la saggezza. La bandiera israeliana nel cortile di San Damaso, gli
onori militari resi dalla Guardia svizzera, la stretta di mano davanti ai
fotografi, lo scambio dei doni, il tenore del comunicato stampa: ognuna di
queste cose è uno scandalo (cioè, letteralmente, una pietra d’inciampo: specie
per i cristiani). Perché Herzog rappresenta uno stato genocida: e papa Francesco
– in sintonia con la scienza giuridica e la coscienza del mondo – chiamava
‘genocidio’ quello in corso a Gaza. E le parole e le azioni personali del
presidente sono tra le prove del genocidio. Fu Herzog, tra l’altro, a dire: «è
un’intera nazione là fuori che è responsabile. Questa retorica sui civili non
consapevoli, non coinvolti, non è assolutamente vera». È a questo che papa
Leone ha dato legittimità morale: quella stretta di mano è una assoluzione in
mondovisione.
Nella ‘giornata particolare’ in cui Hitler venne a Roma, nel 1938, Pio XI
fece sbarrare financo i Musei Vaticani, e si ritirò a Castel Gandolfo. Il
sovrano pontefice rendeva evidente il suo sdegno nei confronti di chi si
apprestava a compiere il genocidio della Shoah. La scala era tale, che non si
poteva tacere: il Vangelo prendeva il sopravvento sulla ragion di Stato, in una
scheggia di profezia. E ora?
Alla fine dell’incontro, Herzog ha tra l’altro detto: «L’ispirazione e la
leadership del Papa nella lotta contro l’odio e la violenza e nella promozione
della pace in tutto il mondo sono apprezzate e fondamentali. Attendo con
interesse di approfondire la nostra cooperazione per un futuro migliore
all’insegna della giustizia e della compassione». Un abbraccio mortale, sul
piano morale. Aver permesso al capo dello stato genocida di Israele di mentire
così efferatamente, e di farlo sulla tomba di san Pietro, è una macchia, grave,
che rimarrà sulla storia della Chiesa.
E il punto di vista del papa, affidato a un comunicato ufficiale della Sala
stampa della Santa Sede, lascia interdetti: «Nel corso dei cordiali colloqui
con il Santo Padre e in Segreteria di Stato, è stata affrontata la situazione
politica e sociale del Medio Oriente, dove persistono numerosi conflitti, con
particolare attenzione alla tragica situazione a Gaza. Si è auspicata una
pronta ripresa dei negoziati affinché, con disponibilità e decisioni
coraggiose, nonché con il sostegno della comunità internazionale, si possa
ottenere la liberazione di tutti gli ostaggi, raggiungere con urgenza un
cessate-il-fuoco permanente, facilitare l’ingresso sicuro degli aiuti umanitari
nelle zone più colpite e garantire il pieno rispetto del diritto umanitario,
come pure le legittime aspirazioni dei due popoli. Si è parlato di come
garantire un futuro al popolo palestinese e della pace e stabilità della
Regione, ribadendo da parte della Santa Sede la soluzione dei due Stati, come
unica via d’uscita dalla guerra in corso. Non è mancato un riferimento a quanto
accade in Cisgiordania e all’importante questione della Città di Gerusalemme.
Nel prosieguo dei colloqui, si è convenuto sul valore storico dei rapporti tra
la Santa Sede e Israele e sono state affrontate anche alcune questioni
riguardanti i rapporti tra le Autorità statali e la Chiesa locale, con
particolare attenzione all’importanza delle comunità cristiane e al loro
impegno in loco e in tutto il Medio Oriente, a favore dello sviluppo umano e
sociale, specialmente nei settori dell’istruzione, della promozione della
coesione sociale e della stabilità della regione». Cordiali colloqui con il
garante di un genocidio in corso? Rispetto del diritto umanitario, e non del
diritto internazionale? Aiuti solo nelle zone «più colpite»? Israele che
garantisce un futuro al popolo che sta massacrando, nel più terribile
colonialismo, e in spregio alle sanzioni dell’Onu? Nessuna presa d’atto che i
‘due stati’ sono ormai impossibili per il furto di territori perpetrato dai
coloni israeliani? E, soprattutto, come è possibile chiamare ‘guerra’ un
genocidio? Questa non è diplomazia, questo è un tradimento morale di
proporzioni enormi.
Gaza è più sola, la Santa Sede più debole e meno credibile. Solo Israele
trae vantaggio da questa visita, che rimarrà come una pagina nera: come il
Giovanni Paolo II ospite di Pinochet. E anche peggio, perché il genocidio di
Gaza è un evento spartiacque nella storia umana, come si vedrà presto.
È mancata la prudenza, è mancata la semplicità («siate prudenti come
serpenti, semplici come colombe», comanda il Signore ai suoi). È mancata la parresia
ed è mancata la carità. Pochi giorni fa, suor Giovanna della Piccola Famiglia
dell’Annunziata, fondata da Giuseppe Dossetti, si era detta profondamente
addolorata nel «vedere una Chiesa quasi silente» su Gaza, e aveva chiesto ai
religiosi e alle religiose di andare «in piazza San Pietro, con cartelli
semplici, diretti, che chiedano al Papa di muoversi: di andare a Gaza; di
condannare pubblicamente Israele; di lanciare appelli incessanti perché i Paesi
occidentali si mobilitino per fermare il genocidio».
Domandiamoci ancora: il papa-sovrano che accetta la logica del potere
mondano è il san Pietro che ama il Signore, o quello che lo tradisce? La
risposta è arrivata: con papa Leone XIV, la Chiesa del potere torna ad essere
«del mondo». Ed è nella Chiesa di suor Giovanna, la Chiesa dei senza potere,
che, «nel mondo», rimane accesa la fiammella del Vangelo.
Singolare, peraltro, la parabola del presidente israeliano.
“Il percorso che lo ha portato dall’essere un pilastro del partito
laburista centrista israeliano sino a diventare un apologeta di una guerra
brutale che ha ucciso oltre 65.000 palestinesi e ha portato la Striscia a
condizioni di fame sempre più gravi, è davvero sorprendente”, dice ad esempio
con estrema durezza sul Guardian uno dei giornalisti che
meglio conosce la regione, Peter Beaumont, forte di un’esperienza di decenni.
La durezza di Beaumont su Isaac Herzog è amplificata anche dal fatto che il
presidente israeliano ha in programma di visitare il Regno Unito. Un’altra
tappa – oltre quella in Vaticano – inserita in una offensiva diplomatica che a
qualcosa, per Tel Aviv, deve pur servire. Un’offensiva inusitata, in pieno
genocidio.
A cosa serve il periplo occidentale di Herzog? A far probabilmente
masticare e digerire, ai governanti occidentali che non hanno l’abilità
politica di fermare Israele, l’ipotesi dell’espulsione dei palestinesi da
Gaza. E nel caso vaticano, a far digerire l’espulsione della comunità
cristiana da Gaza, nonostante la presa di posizione comune – e contraria formalmente
all’espulsione – del patriarca latino Pierluigi Pizzaballa e del patriarca
greco-ortodosso Teofilos. I rapporti tra Vaticano e Israele non mai stati
semplici, da sempre, ma ora c’è un genocidio. E la Santa Sede non può
continuare ad agire come prima, quando le frizioni e le pressioni avevano come
campo d’azione le questioni fiscali e dell’educazione. Ora c’è un genocidio e
il tentativo di portare a compimento la Grande Israele. C’è la piccola comunità
palestinese di fede cristiana che non vuole andarsene dalla parrocchia di Gaza,
e c’è la Collina del Papa. La Collina del Papa, di cui nessuno parla, e che è
invece l’ultimo ostacolo al compimento del distacco forzato di Gerusalemme
dalla Cisgiordania, dopo l’ultima ruberia: quella attuata dal ministro Bezalel
Smotrich con la colonia da costruire in zona E1, staccando cioè Ramallah da
Betlemme. La Collina del Papa, donata da re Hussein di Giordania a papa Paolo
VI, è l’ultimo lembo rimasto a impedire la conquista definitiva da parte di
Israele. Cosa succederà ora? Verrà ceduta?
L’ipotesi dell’espulsione dei palestinesi cristiani da Gaza (crimine a sua
volta) che serpeggia con sempre maggior forza dietro le quinte, e che
troverebbe in Herzog l’unico esponente israeliano con qualche chance dal punto
di vista diplomatico. Benjamin Netanyahu ha un mandato di cattura emesso dal
più alto tribunale internazionale che si occupa dei crimini commessi da
individui, la Corte Penale Internazionale. Su Herzog non pende un mandato di
cattura, almeno per il momento, ed è dunque colui che può più impegnarsi in
un’offensiva diplomatica che la prossima settimana lo porterà nel Regno Unito.
Questo non significa, però, che Herzog possa chiamarsi fuori dal genocidio che
Israele sta compiendo sui palestinesi. È il presidente, la più alta carica
dello stato. Appoggia le decisioni del governo, come ha confermato nel suo
discorso più recente.
“Non c’è dubbio che in questa campagna militare siano state prese decisioni
coraggiose e importanti in materia di sicurezza dalla leadership politica, che
detiene l’autorità e le cui decisioni vengono attuate dal livello
esecutivo”, ha detto, pochi giorni fa a Gerusalemme, alla cerimonia per
lo Israel Defence Prize. Un colpo al cerchio e un colpo alla botte, a dire il
vero. È l’esecutivo che decide la campagna militare. E un presidente sta a
guardare?
È in parte il gioco che ha fatto Herzog, figlio dell’aristocrazia sionista
che ha fondato lo stato di Israele. Presidente figlio di presidente, una vita
tutta dentro il partito laburista, almeno sino alla consunzione di un partito
su cui si era retta la storia israeliana. Herzog è questo, cioè quello che si
legge in tutte le biografie. È anche, però, colui che è stato eletto a
stragrande maggioranza, alla prima votazione, con 87 voti sui 120 membri della
Knesset, in un momento di crisi estrema di Israele. Era l’inizio di giugno
del 2021, e Netanyahu aveva perso per pochissimo le elezioni. Ed è
vulgata comune che Herzog – proprio Herzog, il laburista soft e gentile, è
stato eletto, con la forza dei numeri e dell’aritmetica, con il fondamentale
contributo dei voti del Likud di Netanyahu.
La politica interna israeliana è complicata. E così Herzog deve a Netanyahu
la sua elezione, ed è apparso tutto chiaro nei primi nove mesi del 2023, in cui
il sesto governo guidato da Bibi Netanyahu, con il fondamentale appoggio
dell’estrema destra, ha tentato il golpe giudiziario. Herzog non ha
fermato Netanyahu, nonostante alcune dichiarazioni contro la ‘riforma’ (il
coup) giudiziaria che avrebbe distrutto l’architettura sionista di Israele. E
dopo il 7 ottobre, ha sostenuto la linea Netanyahu (se linea c’è stata),
andando anche oltre.
Quella famigerata e oscena firma, con un pennarello, delle bombe che
sarebbero state sganciate su Gaza dicono due cose di Herzog. L’assoluta imperdonabile
distanza tra un gesto (e tutti ricordiamo il sorriso sul suo volto mentre
firmava) e l’effetto devastante, criminale delle bombe sui palestinesi a Gaza.
E l’adesione totale a ciò che in Israele la maggioranza pensa, non solo dal 7
ottobre. Che i palestinesi siano tutti responsabili di tutto: un corpo unico
che è responsabile di non essersi arreso, soprattutto. Di non aver lasciato
campo libero alla “affermazione” dello stato sionista sulla terra di Palestina.
Solo così si può interpretare l’altro gesto, l’altra frase imperdonabile e
oscena. Tanto imperdonabile da essere andata a finire nel dossier che il
Sudafrica ha presentato contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia
nel dicembre 2023, accusandolo di rischio genocidiario.
È “l’intera nazione palestinese a essere responsabile”, aveva appunto detto
Herzog. Colpa collettiva, punizione collettiva. E neanche la retromarcia
che fece Herzog gli toglie la responsabilità di aver sempre appoggiato il
governo israeliano, non solo a Gaza, ma anche sulla Cisgiordania. Dicendo, in
sostanza, ciò che tutti sapevamo, sulla posizione laburista, la posizione di un
partito che, al governo sino al 1977, è stato il primo a dare il via libera
alle colonie illegali israeliane in Cisgiordania. Ora, dopo tanti decenni di
costruzioni, occupazione, apartheid, distruzione del paesaggio palestinese
della Cisgiordania, Herzog dice anche che lo smantellamento delle colonie
illegali e il ritiro dei 700mila israeliani che ci vivono non è realistico.
Dunque? Realistica l’annessione della Cisgiordania a Israele? Realistico il
voto della Knesset contro qualsiasi ipotesi di Stato palestinese?
Questo è il protagonista dell’offensiva diplomatica israeliana, il
presidente Isaac Herzog. Colui a cui papa Leone ha stretto la mano e accolto
con tutti (tutti) gli onori possibili.
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