Ci vuole tempo per capire, digerire le macerie di Gaza. Quelle reali, dico. Non solo quelle morali che popolano (spero!) le nostre giornate e gli incubi notturni. Ci vorrà tempo per capire quei video e quelle foto prese a volo d’uccello, quelle che mostrano Gaza dall’alto, dai cargo militari che lanciano tonnellate di cibo montate su pallet e agganciate a paracadute, spesso neri come corvi.
Il problema
è che tempo non ne abbiamo da tempo. Non ne abbiamo più. Il genocidio del
popolo palestinese a opera di Israele va letteralmente in onda da così tanti
mesi che è diventato parte della nostra vita quotidiana. Singola e collettiva.
Non solo della nostra storia, parte indelebile della nostra storia colma di
oscenità. Eppure, nel giorno della memoria di Hiroshima (e poi di Nagasaki),
guardare quei video è tanto necessario da ricordare una delle scene più raccapriccianti
di Arancia Meccanica, quando il protagonista viene costretto –
attraverso un singolare strumento da tortura – a tenere gli occhi spalancati e
a guardare film violenti.
Non possiamo
non costringerci a vedere. A costo di rovinarci, oltre gli occhi, l’anima. Cosa
vedere? Polvere. Polvere e sabbia là dove c’era vita. Città, strade, alberi,
mercati, macchine. Tutto annichilito. Tutto color sabbia. Pensavo che tutto
fosse stato ingrigito dai bombardamenti, a Gaza, e così è nelle immagini
scattate dal basso, in mezzo alle macerie e al genocidio, dai fotografi
palestinesi. E invece le foto dagli aerei – quelle, impressionanti, di Alessio
Mamo per il Guardian,
nel reportage di Lorenzo Tondo, rendono tutto molto più chiaro – dicono
altro. Dicono ancor di più, e ancora di più orrendo. I palazzi schiacciati come
fossero stati di plastilina. E il nulla attorno, reso ancor più nulla dalle
mine che hanno distrutto le macerie dall’interno, e dai bulldozer che hanno
rasato definitivamente tutto. Sopra i cadaveri. Sopra le migliaia di
palestinesi che non hanno avuto neanche sepoltura degna. Tutto a opera di
Israele, perché è tutta Israele che porta la colpa del genocidio se non si
ribella e, anzi, sostiene un governo criminale. Finora non si è ribellata, la
maggioranza di Israele. Finora i suoi soldati, i suoi figli, hanno compiuto il
genocidio senza disobbedire, senza disertare. E sono ora in vacanza, in qualche
località di certo molto più gradevole di Gaza (della Gaza da loro distrutta),
come dimostrano sempre più spesso le notizie di fermi, arresti, interrogatori,
fughe precipitose. Finora le voci, come quelle di David Grossman, hanno
riconosciuto – ora, tardivamente – il genocidio, senza però chiedere perdono
(necessario!) e concentrare il loro pensiero non sulla reputazione di Israele,
ma sulle vittime. Era già successo, peraltro, nelle guerre precedenti, dal
dicembre 2008 in poi. I grandi scrittori israeliani che sostenevano le guerre
necessarie in commenti pubblicati sui quotidiani. Salvo poi, dopo qualche
settimana, a bilancio di morti (soprattutto palestinesi) troppo alti,
pubblicare un altro commento per dire che no, ora basta, troppi morti, occorre
una tregua. Ho sempre trovato questa pratica – sì alla guerra, ma senza troppi
morti, per carità – una modalità che non prendeva di petto tutte le questioni
aperte con atti, fatti, gesti importanti, eclatanti, disobbedienti. Occupazione
in primis.
Lo sapevamo
già, delle macerie di questo genocidio e delle guerre su Gaza che l’hanno
preceduto, negli ultimi diciassette anni. I fotografi palestinesi di Gaza erano
e sono i nostri testimoni. Sono gli eroi che ci consentono di affermare che è
genocidio, con il loro lavoro e il loro sacrificio. Vedere, però, quasi per
intero la Striscia nei video girati dagli aerei dell’aviazione militare
giordana consente, a noi, spettatori ma anche complici, di non avere più scuse
né facili semplificazioni.
Non è
Hiroshima. È peggio. Non è Dresda. È peggio. Perché è stato sempre possibile,
fin dall’8 ottobre, fermare la macchina militare israeliana. Ne avevamo e ne
abbiamo tutti gli strumenti – noi occidentali, europei, italiani. Noi, o per
meglio dire, i decisori. Basterebbero non settimane, ma giorni, solo giorni per
fermare Israele. Solo a volerlo fare. Lo diciamo non solo noi senzapotere,
quelli ai margini, quelli dei sudari, delle luci nel buio e delle campane. Lo
dicono pezzi del nostro Stato, servitori dello Stato, come oltre 70 ex
ambasciatori italiani, che sono assieme alle decine di ambasciatori europei.
Bastano giorni. E invece i decisori sembrano tutti d’accordo. La cosa che non
hanno compreso, per nulla, è che sono sulla tolda del Titanic. E ci siamo anche
noi.
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