martedì 9 settembre 2025

Non è Hiroshima. E’ peggio - Paola Caridi

 

Ci vuole tempo per capire, digerire le macerie di Gaza. Quelle reali, dico. Non solo quelle morali che popolano (spero!) le nostre giornate e gli incubi notturni. Ci vorrà tempo per capire quei video e quelle foto prese a volo d’uccello, quelle che mostrano Gaza dall’alto, dai cargo militari che lanciano tonnellate di cibo montate su pallet e agganciate a paracadute, spesso neri come corvi.

Il problema è che tempo non ne abbiamo da tempo. Non ne abbiamo più. Il genocidio del popolo palestinese a opera di Israele va letteralmente in onda da così tanti mesi che è diventato parte della nostra vita quotidiana. Singola e collettiva. Non solo della nostra storia, parte indelebile della nostra storia colma di oscenità. Eppure, nel giorno della memoria di Hiroshima (e poi di Nagasaki), guardare quei video è tanto necessario da ricordare una delle scene più raccapriccianti di Arancia Meccanica, quando il protagonista viene costretto – attraverso un singolare strumento da tortura – a tenere gli occhi spalancati e a guardare film violenti.

Non possiamo non costringerci a vedere. A costo di rovinarci, oltre gli occhi, l’anima. Cosa vedere? Polvere. Polvere e sabbia là dove c’era vita. Città, strade, alberi, mercati, macchine. Tutto annichilito. Tutto color sabbia. Pensavo che tutto fosse stato ingrigito dai bombardamenti, a Gaza, e così è nelle immagini scattate dal basso, in mezzo alle macerie e al genocidio, dai fotografi palestinesi. E invece le foto dagli aerei – quelle, impressionanti, di Alessio Mamo per il Guardian,  nel reportage di Lorenzo Tondo, rendono tutto molto più chiaro – dicono altro. Dicono ancor di più, e ancora di più orrendo. I palazzi schiacciati come fossero stati di plastilina. E il nulla attorno, reso ancor più nulla dalle mine che hanno distrutto le macerie dall’interno, e dai bulldozer che hanno rasato definitivamente tutto. Sopra i cadaveri. Sopra le migliaia di palestinesi che non hanno avuto neanche sepoltura degna. Tutto a opera di Israele, perché è tutta Israele che porta la colpa del genocidio se non si ribella e, anzi, sostiene un governo criminale. Finora non si è ribellata, la maggioranza di Israele. Finora i suoi soldati, i suoi figli, hanno compiuto il genocidio senza disobbedire, senza disertare. E sono ora in vacanza, in qualche località di certo molto più gradevole di Gaza (della Gaza da loro distrutta), come dimostrano sempre più spesso le notizie di fermi, arresti, interrogatori, fughe precipitose. Finora le voci, come quelle di David Grossman, hanno riconosciuto – ora, tardivamente – il genocidio, senza però chiedere perdono (necessario!) e concentrare il loro pensiero non sulla reputazione di Israele, ma sulle vittime. Era già successo, peraltro, nelle guerre precedenti, dal dicembre 2008 in poi. I grandi scrittori israeliani che sostenevano le guerre necessarie in commenti pubblicati sui quotidiani. Salvo poi, dopo qualche settimana, a bilancio di morti (soprattutto palestinesi) troppo alti, pubblicare un altro commento per dire che no, ora basta, troppi morti, occorre una tregua. Ho sempre trovato questa pratica – sì alla guerra, ma senza troppi morti, per carità – una modalità che non prendeva di petto tutte le questioni aperte con atti, fatti, gesti importanti, eclatanti, disobbedienti. Occupazione in primis.

Lo sapevamo già, delle macerie di questo genocidio e delle guerre su Gaza che l’hanno preceduto, negli ultimi diciassette anni. I fotografi palestinesi di Gaza erano e sono i nostri testimoni. Sono gli eroi che ci consentono di affermare che è genocidio, con il loro lavoro e il loro sacrificio. Vedere, però, quasi per intero la Striscia nei video girati dagli aerei dell’aviazione militare giordana consente, a noi, spettatori ma anche complici, di non avere più scuse né facili semplificazioni.

Non è Hiroshima. È peggio. Non è Dresda. È peggio. Perché è stato sempre possibile, fin dall’8 ottobre, fermare la macchina militare israeliana. Ne avevamo e ne abbiamo tutti gli strumenti – noi occidentali, europei, italiani. Noi, o per meglio dire, i decisori. Basterebbero non settimane, ma giorni, solo giorni per fermare Israele. Solo a volerlo fare. Lo diciamo non solo noi senzapotere, quelli ai margini, quelli dei sudari, delle luci nel buio e delle campane. Lo dicono pezzi del  nostro Stato, servitori dello Stato, come oltre 70 ex ambasciatori italiani, che sono assieme alle decine di ambasciatori europei. Bastano giorni. E invece i decisori sembrano tutti d’accordo. La cosa che non hanno compreso, per nulla, è che sono sulla tolda del Titanic. E ci siamo anche noi.

da qui

Nessun commento:

Posta un commento