Sommario: 1. Il trattamento della protesta e del dissenso
come misura della democrazia / 2. Continuità e novità della repressione in
Italia nel nuovo millennio / 3. Modalità e tecniche della repressione / 4. Il
decreto legge “sicurezza” e l’accelerazione della svolta autoritaria / 5. Che
fare? Spunti per un capitolo da aprire.
1. Il trattamento della protesta e del dissenso come misura della democrazia
Chi – politici, pubblici ministeri e giornalisti –
contesta che sia in atto un processo di criminalizzazione del dissenso e
dell’opposizione politica radicale afferma che la repressione è semplicemente
l’inevitabile risposta alla commissione di reati e che il suo andamento (più o
meno intenso) dipende dal numero e dall’entità dei reati commessi.
L’affermazione è tanto suggestiva quanto infondata.
È vero, infatti, che da sempre i codici penali
prevedono come delitti, a difesa della società, gli atti violenti contro le
istituzioni, le aggressioni all’ordine pubblico e le forme più estreme di
“contestazione”. Ma ciò che distingue i sistemi democratico/liberali da quelli
autoritari è l’entità della repressione e le forme che essa assume: mentre i
sistemi democratico/liberali tendono a minimizzarla e a circondare di garanzie
il suo esercizio, quelli autoritari la usano come strumento ordinario di
governo, azzerando o riducendo al massimo i diritti di chi vi è sottoposto. Per
questo si può dire che oggi il livello di democraticità di un sistema si misura,
più che in base al suo sistema elettorale, in base al grado di repressione
politica che esso esercita. Ci sono casi di scuola di regimi che, pur
prevedendo periodiche elezioni (più o meno libere), sono universalmente
ritenuti illiberali perché caratterizzati da una repressione indiscriminata del
dissenso e/o delle minoranze: l’Iran degli ayatollah, la
Russia di Putin, la Turchia di Erdoğan, l’Egitto di Al Sisi, l’Israele di
Netanyahu (non solo oggi ma da decenni dedita a un violento apartheid nei confronti
della popolazione palestinese), etc. Non è la situazione ordinaria dei paesi
occidentali, ma le differenze si stanno attenuando, ché questi ultimi
rispondono sempre più alla crisi di consenso e di partecipazione che li
attraversa con un surplus di repressione del dissenso radicale[1]. Basta guardare gli Stati Uniti e
l’Europa (non solo l’Ungheria di Orbán ma anche la Spagna, la Francia, la
Germania, la Gran Bretagna e, non ultima, l’Italia, come vedremo più avanti),
tutti coinvolti nel processo di trasformazione dello Stato sociale in Stato
penale, nella crescita – in quantità e in qualità – degli interventi repressivi
nei confronti del “nemico interno”, nella dilatazione (spesso incontrollata o
addirittura favorita) del potere degli apparti, nel deperimento del sistema
delle garanzie. È a questo surplus che si fa riferimento quando si parla di
criminalizzazione del dissenso e di diritto penale del nemico.
Nessuna sorpresa. La mancata corrispondenza tra
andamento dei reati e andamento della repressione è, a livello generale, un
fatto confermato da tutte le ricerche criminologiche, per ogni tipo di reato.
Basti dire che, nel nostro Paese, il picco dei delitti in generale si è avuto
nei primi anni Novanta del secolo sorso, quando in carcere c’erano poco più di
30.000 detenuti (35.485 il 31 dicembre 1991) mentre oggi, con i reati più gravi
in netto calo (gli omicidi volontari, per limitarsi a un esempio, sono passati,
da 1938 del 1991 a 314 del 2024), i detenuti sono circa il doppio (erano 62.728
il 30 giugno scorso). Il fatto è che l’entità della repressione, pur ovviamente
legata alla commissione di reati, risente delle politiche “criminali” assi più
che dell’andamento dei reati stessi.
Un’ultima considerazione. Questa fotografia della
realtà, lungi dall’essere frutto di una visione estremizzata o di parte, è
patrimonio comune degli osservatori imparziali e non mainstream. Uno
per tutti: «La prima cosa che dovrebbero chiedersi i giuristi oggi è che cosa
poter fare con il proprio sapere per contrastare questo fenomeno, che mette a
rischio le istituzioni democratiche e lo stesso sviluppo dell’umanità. In
concreto, la sfida presente per ogni penalista è quella di contenere
l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di
massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di
sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, la criminalizzazione della
protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più
elementari garanzie penali e processuali»[2].
2. Continuità e novità della repressione in Italia nel
nuovo millennio
Nel nostro Paese il tentativo di governare la società
con la repressione non è una novità, ma una sorta di fiume carsico che ha
caratterizzato non solo l’epoca liberale e il fascismo[3] ma anche l’interregno post
fascista[4] e, poi, il periodo
repubblicano. Basti dire che dal 1946 al 1977 si sono contati ben 155 morti nel
corso di manifestazioni (di cui 14 tra le forze di polizia e 141 tra i
dimostranti)[5] e ricordare che le strette
repressive si sono succedute in tutti i periodi di crisi sociale e politica, a
partire dalla fine dei “trent’anni gloriosi”, quando vide la luce la cosiddetta
legge Reale sull’ordine pubblico (legge n. 152 del 1975), che rese più facile e
impunito l’uso di armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine, reintrodusse
il fermo di polizia e aumentò i termini della carcerazione preventiva.
Oggi ci sono, peraltro, due importanti novità che
segnano la stagione iniziata con il nuovo millennio:
a) la rinnovata svolta repressiva avviene dopo un periodo di
allentamento del controllo poliziesco e penale e di (tentata) democratizzazione
degli apparati di polizia. Negli ultimi decenni del secolo scorso, sulla scia
dell’amnistia politica varata nel 1970 per chiudere le pendenze dell’autunno
caldo[6], si era aperta una stagione di
depenalizzazione (pur cauta e contraddittoria), plasticamente evidenziata dalle
vicende dell’oltraggio e del blocco stradale, depenalizzati, in tutto o in
parte, nel 1999 e ripristinati, rispettivamente, 10 e 19 anni dopo con la legge
15 luglio 2009 (uno dei primi “pacchetti sicurezza”) e con il decreto legge 4
ottobre 2018, n. 113 (primo decreto Salvini). Quel che è oggi in atto sul
versante legislativo – con una proliferazione di reati senza precedenti, un
aumento generalizzato delle pene e l’introduzione di aggravanti inedite – è un
nuovo paradigma repressivo, addirittura più accentuato di quello previsto dal
codice Rocco (nel quale, per esempio, la commissione di reati nel corso di
manifestazioni, ora configurata come aggravante per molti reati, era
considerata, a certe condizioni, un’attenuante ai sensi dell’art. 62 n. 3
codice penale). Non solo, ma, sul finire del Novecento, la smilitarizzazione e
la sindacalizzazione della polizia (introdotte con la legge 1 aprile 1981, n.
121) e il ricambio dei vertici degli apparati avevano attenuato la strategia di
controllo della piazza fondata sulla contrapposizione frontale e fatto balenare
la possibilità di un governo negoziato del conflitto nel quale il diritto di
manifestare fosse considerato prioritario, forme anche dirompenti di protesta
fossero tollerate, la comunicazione fra manifestanti e polizia venisse
considerata fondamentale e si cercasse di ridurre l’uso di mezzi coercitivi
puntando alla selettività degli interventi. Questa impostazione (che aveva
dato, in realtà, buoni frutti a cominciare dal venir meno di morti e feriti nel
corso di manifestazioni) si è interrotta nel luglio 2001 a Genova[7] con l’emergere di una nuova
strategia che ha avuto, poi, il banco di prova principale in Val Susa, con un
intervento – tuttora in corso – che di è dispiegato per oltre un decennio
diventando una sorta di “caso di scuola”[8] (a cui, per questo, si faranno
ripetuti riferimenti nel seguito);
b) gli oppositori e i dissenzienti sono cambiati ed è cambiato il loro
riconoscimento sociale. Non per caso, ma perché stanno cambiando i protagonisti
del conflitto e della protesta: non più (almeno in prevalenza) operai e
braccianti, come nella seconda metà del secolo scorso, ma (sempre in
prevalenza) antagonisti, studenti e attivisti ambientali (a cominciare dagli
odiati No Tav), considerati alla stregua di pericolosi sovversivi, dopo il
fallimento dell’iniziale tentativo dell’establishment di blandire i Fridays for
Future e l’irruzione sulla scena di Extinction Rebellion e di Ultima
Generazione. Ma soprattutto gli oppositori e i dissenzienti oggi sono isolati,
sia dalla politica che dai media, che veicolano, anzi, la vulgata
dell’esistenza di un conflitto sociale di particolare intensità. E ciò mentre
la situazione, nel nostro Paese, è quella di un conflitto a bassa intensità (a
differenza di quanto accaduto tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta[9] e di quanto sta accadendo, per
esempio, nella vicina Francia). Superfluo dire che l’opposta narrazione, lungi
dall’essere casuale, è il portato di uno stile di governo della società, della
strumentalizzazione della paura, della considerazione dell’antagonismo alla
stregua di un delitto. Fino a punte grottesche, come l’evocazione continua del
pericolo anarchico o, addirittura, dell’“attacco al cuore dello Stato”
realizzato con l’imbrattamento dell’ingresso del Senato.
3. Modalità e tecniche della repressione
Arriviamo, dunque, alle modalità di repressione del
dissenso e della protesta oggi il Italia.
La repressione ha, come sempre, forme eterogenee e
diversa intensità. Può essere diretta, cioè aggredire il dissenso in quanto
tale al fine di impedirne il manifestarsi (tradizionalmente, il divieto di
scioperare o di manifestare o di esercitare la libertà di stampa etc.):
modalità, oggi, ridotta, stante il tenore della Carta costituzionale (pur
permanendo nella previsione di delitti come l’apologia di reato o nel divieto
di accesso alle sempre più diffuse “zone rosse”); oppure può essere indiretta,
realizzata cioè attraverso l’aggressione dei movimenti e delle manifestazioni
di protesta non in quanto tali ma in modo surrettizio, con l’effetto, peraltro,
di punirli, impedirli o disincentivarli[10]: ed è la modalità oggi prevalente.
Ciò premesso è utile, ancora, segnalare che la repressione è la risultante di
una pluralità di interventi sul versante legislativo, amministrativo e
giudiziario.
Di seguito un elenco, pur sommario e pressoché solo
per titoli, dei principali strumenti e delle molteplici forme di cui si è
avvalsa la repressione del dissenso nel nuovo millennio:
a1) la diffusa militarizzazione del territorio,
presidiato talvolta – come spesso accaduto in Val Susa – non solo da forze di
polizia in tenuta antisommossa ma addirittura da reparti dell’esercito (quasi a
simboleggiare una guerra dello Stato con i suoi cittadini), accompagnata da
controlli preventivi pretestuosi e capillari, per esempio nei luoghi di accesso
alle città sede di manifestazioni, al solo scopo di impedire ai dimostranti di
convergere nei luoghi previsti;
a2) la sempre più frequente istituzione di zone
rosse in cui è precluso l’accesso (sul modello del G8 di Genova del luglio
2001), soprattutto, ma non solo, in occasione di manifestazioni[11];
a3) una gestione dell’ordine pubblico, in occasione
di qualsivoglia evento o manifestazione, aliena da ogni trattativa e
caratterizzata – come si è già ricordato – da una contrapposizione frontale e
violenta tra polizia e dimostranti (dimentica del fatto che l’andamento
dell’ordine pubblico non è mai statico, ma è sempre frutto di relazioni e che
la contrapposizione violenta, lungi dal generare pacificazione, è spesso il
detonatore di ulteriori violenze);
a4) l’accrescimento dei poteri e la sostanziale impunità
delle forze di polizia per abusi e violenze in operazioni di ordine pubblico
(impunità favorita anche dalla mancata introduzione, da parte dei governi di
ogni colore succedutisi negli ultimi anni, di un accorgimento elementare come
l’obbligo di codici identificativi sulle divise). Ultimo esempio di impunità,
anche in caso di accertata responsabilità penale: la promozione a questore di
Monza e della Brianza di Filippo Ferri, condannato in via definitiva a 3 anni e
8 mesi di reclusione nel processo scaturito dalle torture e dai falsi di
polizia alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001;
a5) l’assunzione da parte di molti uffici di Procura
di un protagonismo diretto a tutela dell’ordine pubblico, anche attraverso
formule organizzative e accorgimenti processuali ad hoc, spesso del tutto
anomali. Esemplare il caso torinese, nel quale ai procedimenti a carico di
esponenti del movimento No Tav sono stati assicurati una corsia preferenziale
(con conseguenti tempi rapidissimi anche per reati bagatellari) e un pool
apposito, istituito – caso unico nella nostra storia giudiziaria – prima
dell’esplodere del conflitto e dei conseguenti reati, in un’ottica tipicamente
preventiva (propria dell’attività di polizia più che di quella giudiziaria);
a6) l’introduzione, con ripetuti decreti legge[12], di fattispecie di reato e di aggravanti
disegnati inseguendo le azioni dei movimenti di protesta (in particolare Ultima
Generazione ed Extinction Rebellion), con l’affiancamento alle leggi ad
personam dell’epoca berlusconiana, di una inedita categoria di
leggi ad movimentum;
a7) la reviviscenza dei reati di opinione,
anticipata dai procedimenti avviati dalla Procura di Torino nei confronti dello
scrittore Erri De Luca per istigazione a delinquere con riferimento all’elogio
del sabotaggio della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione e nei
confronti del writer Blu, rinviato a giudizio per
imbrattamento di un cavalcavia (sic!) in relazione a un murale
raffigurante, con accenti critici, la stessa grande opera (considerato da molti
un esempio importante del genere). Entrambi i processi si sono conclusi, a
dibattimento, con assoluzioni piene ma hanno tracciato una strada, che, in
tempi più recenti, è stata intrapresa alla grande, in particolare da parte
dell’autorità di polizia, a fronte di dichiarazioni o slogan antisionisti
postati sui social o gridati nel corso di manifestazioni pro Palestina[13];
a8) l’uso a tappeto, da parte di molti giudici delle
indagini preliminari, delle misure cautelari, trasformate da extrema
ratio in regola e da strumenti interni al processo in misure di
polizia, con strappi della stessa legalità formale e passaggi motivazionali a
dir poco paradossali, come quello secondo cui: «la custodia cautelare in
carcere è il minimo presidio idoneo a fronteggiare in modo adeguato le
consistenti ed impellenti esigenze cautelari» (ordinanza TL Torino 8 febbraio
2012). Tra i molti esempi si possono citare, ancora una volta, i processi a
militanti no Tav davanti ai giudici torinesi in cui: i) le
misure cautelari sono state fondate pressoché sempre su una presunta
pericolosità sociale e sul contesto («I lavori per la costruzione della linea
ferroviaria Torino-Lione proseguiranno almeno altri due anni; pertanto, non
avrà fine, a breve termine, il contesto in cui gli episodi violenti sono
maturati»); ii) l’individuazione dei destinatari delle misure
è avvenuta per lo più in base al principio del tipo d’autore e a segnalazioni
di polizia di molti anni addietro (senza verifica dell’esito dei conseguenti
processi[14]; iii) la
motivazione circa l’impossibilità di formulare un giudizio prognostico di
concedibilità della sospensione condizionale della pena (che osterebbe
all’applicazione della custodia in carcere) è diventata una semplice formula di
stile[15]; iv) le misure
cautelari non detentive sono aumentate a dismisura e sono spesso diventate,
anziché un’alternativa al carcere, un improprio percorso alternativo al
processo a piede libero, spesso con una afflittività sproporzionata e inutile
(per esempio la presentazione due volte al giorno a un ufficio di polizia
distante 30 o 40 chilometri dal luogo di abitazione...);
a9) l’impiego sistematico e prolungato oltre ogni
limite ragionevole, da parte di settori della magistratura, delle
intercettazioni telefoniche e ambientali nei confronti di appartenenti a
determinate aree sociali (in particolare anarchici e centri sociali). Clamoroso
il caso due imputati ‒ alla fine assolti da tutte le accuse, dopo una
carcerazione preventiva di oltre 2 anni e 7 mesi ‒ intercettati per alcuni anni
tra il 2003 e il 2009 (in particolare tra il 2003 e il 2005 dalla Procura di
Bologna e dal 2007 in poi da quella di Torino) e, poi, dal giugno 2012 al settembre
2016, per oltre quattro anni di seguito, con una pausa di meno di due mesi, sia
telefonicamente che ambientalmente, con microspie posizionate nel loro
appartamento da due distinte Procure della Repubblica (Torino e Napoli)[16]. Evidente nel caso, e nei molti
consimili, l’intento di monitorare un’area antagonista più che di accertare
l’esistenza di reati specifici a carico degli intercettati;
a10) la dilatazione impropria, in molte contestazioni
e anche in alcune sentenze, del concorso di persone nel reato, attraverso una
sorta di proprietà transitiva in forza della quale la responsabilità viene
estesa a tutti i partecipi a manifestazioni nel corso delle quali sono commessi
dei reati, pur in assenza di specifiche condotte individuali antigiuridiche e/o
della prova di un previo accordo con gli autori dei delitti commessi. Così il
principio classico del carattere individuale della responsabilità penale sfuma
lasciando spazio a una sorta di anomala “responsabilità da contesto”[17];
a11) l’ampia e fantasiosa contestazione di reati
associativi (che non ha risparmiato organizzazioni sindacali[18], centri sociali[19] e nemmeno ong impegnate nel
salvataggio in mare ed esperienze di accoglienza come quella di Riace[20]), l’analoga contestazione di
fattispecie delittuose clamorosamente sovradimensionate (fino all’evocazione
dei fantasmi del terrorismo in contesti che con esso nulla hanno a che fare[21]) e la ritenuta idoneità a integrare
alcuni reati tipici del conflitto sociale di condotte costituenti esplicazione
di diritti fondamentali[22];
a12) l’adozione di forme di detenzione
particolarmente segreganti e afflittive e l’esclusione dell’accesso a misure
alternative al carcere per categorie di soggetti, considerati alla stregua di “nemici
interni”. Anche qui illuminante è una vicenda riguardante il movimento no Tav.
Si tratta del diniego di misure alternative al carcere a una ragazza condannata
per violenza privata con l’incredibile motivazione che «la lunga carriera
militante della condannata è perdurata fino a epoca recentissima, dando prova
della sua incrollabile fede negli ideali politici per i quali non ha mai
esitato di porre in essere azioni contrarie alle norme penali» e che «la
condannata risiede a Bussoleno, comune dell’Alta Val di Susa: la collocazione
geografica del domicilio del soggetto coincide con il territorio scelto come
teatro di azione dal movimento No TAV, il quale ha individuato il cantiere di
Chiomonte per la realizzazione della futura linea dell’Alta Velocità come
scenario per frequenti manifestazioni e scontri con le Forze dell’Ordine. La
vicinanza di tale luogo al luogo di dimora della condannata la espone al
concreto rischio di frequentazione di soggetti coinvolti in tale ideologia e di
partecipazione alle conseguenti iniziative di protesta e dimostrative che, dopo
le stringenti limitazioni imposte dal lockdown, potrebbero in
futuro diventare più frequenti» (magistrato sorveglianza Torino, ordinanza 9-11
settembre 2020 nei confronti di Dana Lauriola)[23];
a13) il sempre più frequente ricorso a misure di
prevenzione o di polizia (in particolare l’avviso orale, il foglio di via e
l’obbligo di soggiorno), usate snaturandone la funzione originaria e sfruttando
la possibilità di standard probatori più ridotti, contro esponenti di movimenti
di protesta a cui viene intimato dal questore, per lo più con motivazioni
tautologiche, di allontanarsi da un determinato comune, di dimorare nel comune
di residenza e di astenersi dal frequentare determinati luoghi. Si noti che
l’uso indiscriminato dei fogli di via (riproposizione in chiave moderna del
domicilio coatto) avviene – in misura sempre maggiore (da ultimo per lavoratori
della logistica e militanti di Ultima Generazione ed Extinction Rebellion) –
quando addirittura negli anni Cinquanta i maggiori costituzionalisti (a
cominciare da un giovane Giuliano Amato) ne mettevano in dubbio la
costituzionalità;
a14) l’aggressione ai patrimoni degli esponenti più attivi
dei movimenti con l’applicazione di sanzioni amministrative e il ricorso ad
azioni civili vessatorie. È il caso, per esempio, della condanna al
risarcimento del danno (quantificato in 191.966,29 euro e spese processuali)
inflitta il 7 gennaio 2014 dal Tribunale di Torino - sezione distaccata di Susa
(e solo in parte attenuata in appello) a tre esponenti del movimento No Tav per
essersi opposti, insieme a molti altri, alla effettuazione, da parte di tecnici
assistiti dalla forza pubblica, di sondaggi propedeutici alla costruzione della
linea ferroviaria. Come dire che il mancato accesso di un camion in uno
stabilimento a causa di un picchetto di lavoratori in sciopero comporta la
responsabilità degli scioperanti presenti per tutti i danni conseguenti alla
mancata produzione, anche di giorni o mesi, ricollegabile in qualche misura
alla indisponibilità del materiale trasportato sul camion! È l’apertura di un
filone. Negli anni successivi sarà spesso il Governo a costituirsi parte civile
chiedendo risarcimenti a dir poco “inusuali” fino ad arrivare, nel cosiddetto
“Processo Sovrano” definito in primo grado da Tribunale di Torino con sentenza 31
marzo 2025, a formulare richieste risarcitorie milionarie, a titolo di danno
patrimoniale, per «il costo dell’attività investigativa svolta ai fini
dell’individuazione dei responsabili degli illeciti, nonché con riferimento
alla spesa sostenuta a titolo di straordinari, indennità accessorie ed
indennità di ordine pubblico corrisposte al personale impiegato per contenere e
limitare i manifestanti e i danni» e, a titolo di danno non patrimoniale, per
il danno alla “immagine”, al “prestigio” e alla “credibilità” dei
ministeri coinvolti nell’attività repressiva. Queste richieste, per ora, sono
state respinte dai giudici ma la loro efficacia deterrente è di tutta evidenza;
a15) l’uso costante e spregiudicato del processo a mezzo
stampa per delegittimare e criminalizzare gli accusati. La prassi è in verità
risalente e ha il capostipite più noto nel cosiddetto “processo 7 aprile”,
iniziato nel 1977[24]. L’ampia pubblicistica al riguardo
consente di limitarsi qui a un semplice richiamo, non senza sottolineare che la
trasformazione della cronaca giudiziaria dei più grandi quotidiani in mattinali
delle Questure o veline delle Procure (talora addirittura estremizzate) la dice
lunga sulla strombazzata libertà di informazione del nostro paese.
4. Il decreto legge “sicurezza” e l’accelerazione
della svolta autoritaria
È in questo contesto che si colloca il recente decreto
legge 11 aprile 2025 n. 45 (convertito nella legge 9 giugno 2025, n. 80) che ha
impresso al sistema un’ulteriore curvatura repressiva. Il testo del decreto e i
suoi profili di irrazionalità e incostituzionalità sono stati oggetto di
numerosi interventi[25], per cui mi limito qui a segnalare
le più rilevanti (e preoccupanti) novità nel settore della criminalizzazione
del dissenso e della opposizione radicale. Quattro su tutte:
b1) c’è, anzitutto, la previsione della resistenza
passiva come condotta idonea a integrare reati. L’articolo 26 del decreto legge
infatti, prevede, mediante l’introduzione dell’articolo 415 bis codice penale,
il delitto di rivolta in istituto penitenziario, consistente in «atti di
violenza o minaccia o di resistenza all'esecuzione degli ordini impartiti,
commessi da tre o più persone riunite», precisando che «costituiscono atti di
resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al
numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici
ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento
degli atti dell'ufficio o del servizio necessari alla gestione dell'ordine e
della sicurezza». Il reato è poi esteso, con lieve riduzione di pena, agli
analoghi comportamenti tenuti nelle «strutture di trattenimento e accoglienza
per i migranti». La novità è dirompente. In particolare: i) la “resistenza
passiva”, sino ad allora ritenuta non penalmente rilevante dalla giurisprudenza
di legittimità[26], viene, per la prima volta in modo
esplicito, considerata idonea a integrare un reato: non a caso la norma è stata
definita, nel dibattito giornalistico, “emendamento anti Gandhi”[27]; ii) la previsione del delitto di
resistenza passiva con riferimento a una categoria di soggetti (i detenuti)
considerati devianti e marginali, oltre ad essere grave in sé, introduce nel
sistema un precedente dotato di evidente capacità espansiva, che potrebbe
ripetere la (triste) esperienza del Daspo, introdotto inizialmente (con
l’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401) per una categoria marginale
come quella dei tifosi violenti e diventato negli anni uno strumento ordinario
di governo del territorio (potenziato anche nel decreto legge in esame[28]); iii) sempre per la prima volta
tutti i luoghi di accoglienza per migranti sono, anche formalmente, equiparati,
ai fini della sussistenza del delitto di “rivolta” (comprensivo della
resistenza passiva) a istituti penitenziari, così cristallizzando il processo
in forza del quale i migranti sono considerati non potenziali autori di reati
ma “reati in sé”, per il solo fatto di esistere;
b2) proseguono, poi, i già segnalati aumenti delle
pene per reati commessi nel corso di manifestazioni e la previsione di misure
amministrative ad hoc in presenza di azioni di protesta. In particolare: i)
l’articolo 12 interviene sull’articolo 635 del codice penale, che punisce il
delitto di danneggiamento, disponendo che, se i fatti realizzati nel corso di
manifestazioni in luogo pubblico sono commessi con violenza alla persona o con
minaccia, la pena è della reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni
(anziché da uno a cinque anni) e della multa fino a 15.000 euro; ii) l’articolo
19 inserisce nell’articolo 339 del codice penale un ultimo comma in forza del
quale, se la violenza o la minaccia a pubblico ufficiale (già aggravata dal
numero delle persone o con il lancio di oggetti e, per questo, punita con la
pena della reclusione da tre a quindici anni) è commessa «al fine di impedire
la realizzazione di infrastrutture destinate all'erogazione di energia, di
servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici», la
pena è aumentata fino a un terzo (i No Tav e i No Ponte sono avvertiti...);
iii) l’articolo 24 introduce un’ipotesi aggravata di deturpamento e
imbrattamento di beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni
pubbliche ricorrente «qualora il fatto sia commesso con la finalità di ledere
l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene»,
punita con la reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi di reclusione e la
multa da 1.000 a 3.000 euro (e con la reclusione da sei mesi a tre anni e la
multa fino a 12.000 euro in caso di recidiva). Evidenti in questa escalation
repressiva, da un lato, il tramonto del carattere di generalità e astrattezza
della legge e, dall’altro, lo stigma di negatività applicato alle
manifestazioni e alle azioni di protesta in quanto tali;
b3) il decreto legge interviene, in terzo luogo, in
settori di grande delicatezza come la sfera dei reati d’opinione e
l’anticipazione della soglia della punibilità. Si segnalano, in questo senso
tre interventi: i) la previsione come reati della divulgazione di materiale
(scritti, video, documenti, istruzioni) potenzialmente idoneo a consentire la
preparazione di reati di stampo terroristico, a prescindere dalla sua valenza e
finalità istigatoria, e della semplice detenzione di materiale contenente
istruzioni su tecniche o metodi per il compimento di atti di violenza o di
sabotaggio di servizi pubblici, con la motivazione – esplicitata negli atti
preparatori dell’originario disegno di legge – che queste norme devono essere
introdotte perché oggi la semplice detenzione di materiale viene punita solo se
ci siano elementi sufficienti per ritenere che chi detiene voglia anche
commettere atti di terrorismo; ii) l’estensione del delitto di occupazione di
immobile destinato ad abitazione anche a chi, «fuori dei casi di concorso nel
reato, si intromette o coopera nell'occupazione dell'immobile»; iii) l’inserimento
nell’articolo 415 codice penale (che disciplina il reato di istigazione a
disobbedire alle leggi) di un’aggravante in forza della quale la pena (della
reclusione da sei mesi a cinque anni di reclusione) è aumentata fino a un terzo
«se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di
scritti o comunicazioni diretti a persone detenute». Evidente in queste
disposizioni, che ampliano a dismisura la sfera della punibilità, l’intento di
criminalizzare i movimenti antagonisti in quanto tali e di fare così “terra
bruciata” intorno ai poveri e ai ribelli[29];
b4) strettamente correlato con i precedenti, c’è un
quarto filone di innovazioni del decreto legge tese ad aumentare i poteri e le
tutele delle forze di polizia. Si tratta di un profilo particolarmente
importante perché prosegue e aggrava l’inversione del già ricordato percorso di
democratizzazione della polizia perseguito, seppur contraddittoriamente, nella
storia repubblicana. Vengono in rilievo in particolare: i) gli
articoli 19 e 20, che prevedono consistenti aumenti di pena per i reati di violenza
e resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni quando i fatti sono commessi in
danno di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia
giudiziaria; ii) l’articolo 22, in forza del quale «agli
ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria appartenenti
alle Forze di polizia a ordinamento civile o militare, agli appartenenti alle
Forze armate e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco, indagati o imputati per
fatti inerenti al servizio (nonché agli eredi), che intendono avvalersi di un
libero professionista di fiducia, può essere corrisposta, anche in modo
frazionato, una somma, complessivamente non superiore a euro 10.000 per
ciascuna fase del procedimento, destinata alla copertura delle spese legali,
salva rivalsa se al termine del procedimento è accertata la responsabilità
dell’ufficiale o agente a titolo di dolo»; iii) l’articolo 28,
che autorizza gli appartenenti alla polizia di Stato, all’arma dei Carabinieri,
alla Guardia di finanza, al corpo degli agenti penitenziari e alle polizie
municipali, a portare, senza licenza, un’arma diversa da quella di ordinanza
quando non sono in servizio (così consentendo l’immissione in circolazione,
potenzialmente, di decine o centinaia di migliaia di pistole in più delle
attuali); iv) l’articolo 31, in forza del quale l’immunità
penale per operazioni di infiltrazione in organizzazioni terroristiche (fino ad
allora prevista in via transitoria) diventa permanente e viene estesa anche al
caso di assunzione di un ruolo di direzione e organizzazione di associazioni
con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine
democratico: al cosiddetto “infiltrato” si affianca così, nell’area della non
punibilità, l’agente provocatore (potenzialmente organizzatore e promotore ex novo
di un’organizzazione terrorista, con connessa commissione di reati), sia pure
al fine di smascherare e punire appartenenti ad associazioni
terroristiche; v) l’articolo 21, che prevede, stanziando per
la bisogna più di 23 milioni di euro per il triennio 2024-2026, la possibilità
di dotare «il personale delle Forze di polizia impiegato nei servizi di
mantenimento dell'ordine pubblico, di controllo del territorio e di vigilanza
di siti sensibili nonché in ambito ferroviario e a bordo dei treni […] di dispositivi
di videosorveglianza indossabili, idonei a registrare l'attività operativa e il
suo svolgimento»: si tratta delle cosiddette bodycam attivabili
ben oltre i limiti indicati dal Garante per la protezione dei dati personali,
secondo cui esse possono essere indossate solo «in situazioni di pericolo di
turbamento dell’ordine pubblico». La conclusione è obbligata. Anziché investire
in formazione e dispositivi di tutela degli operatori di polizia, si aumentano
le pene per i reati commessi nei loro confronti, si incentiva l’uso delle armi
da parte loro e se ne potenzia in modo indiscriminato il ruolo (con uno
sbilanciandolo sempre più accentuato rispetto alla posizione dei cittadini). Il
risultato non sarà certamente una crescita democratica del paese e un miglior
rapporto della polizia con la società. Non importa, ché ad interessare è altro:
spostare l’asse istituzionale verso gli apparati militari e le forze di
polizia, cementando alleanze tradizionali della destra con i settori più
corporativi e reazionari degli stessi, con effetti imponenti nella direzione di
uno Stato di polizia.
5. Che fare? Spunti per un capitolo da aprire
Il “che fare” non è oggetto specifico del mio
intervento, ma vi dedico, egualmente, alcuni flash necessari, se non altro, per
evitare il senso di frustrazione conseguente all’analisi sin qui svolta. Sono
flash che riguardano la politica, i magistrati e i movimenti.
La politica (quella progressista, intendo, o quella
che si autodefinisce tale) ha un’occasione storica per ripensarsi e per uscire
dalle ambiguità e dal piccolo cabotaggio che la caratterizzano da decenni.
L’evolversi della situazione nel nuovo millennio non lascia spazio a dubbi:
cavalcare la paura e puntare sulla repressione e su politiche d’ordine come
strumenti ordinari di governo della società è semplicemente suicida. Anzitutto
perché, lungi dal risolvere, alimenta ulteriormente la crisi politica e sociale
contribuendo a intensificare la deriva autoritaria in atto. E, poi, perché è
una scelta che non paga neppure in termini di consenso ché assecondare la
paura, invece di governarla, produce, inevitabilmente, la vittoria
dell’originale (cioè la destra) e non delle sue goffe imitazioni. La
provocazione della realtà indica una strada priva di alternative: il recupero e
il potenziamento del welfare, un grande investimento su scuola e formazione, un
governo inclusivo delle migrazioni, la valorizzazione (in termini culturali ed
economici) della società multietnica, una politica e un diritto miti sul piano
interno come su quello internazionale, il perseguimento della partecipazione e
la valorizzazione dei corpi intermedi e del pluralismo istituzionale…
Anche i magistrati non possono esimersi da un
ripensamento profondo. La svolta autoritaria in corso è stata prodotta, o quantomeno
favorita, come si è visto, anche da prassi e orientamenti di giudici e, ancor
più, di pubblici ministeri appiattiti sulle richieste e pulsioni securitarie
della politica (e anche della società). Sono prassi e orientamenti da cui non
sono andati esenti neppure settori “progressisti” della corporazione. Eppure
il proprium della giurisdizione sta nel presidio dei diritti
di tutti e nel rigoroso rispetto delle regole, anche quando, in nome della
sicurezza, le sono richieste scorciatoie e deroghe. Questa vocazione è stata
inverata dalla magistratura in settori come le migrazioni e la bioetica. Assai
meno è accaduto nel settore penale con riferimento alle variegate forme di
dissenso e protesa. È, dunque, tempo di una riflessione autocritica che abbia
come stella polare il garantismo e non la tutela acritica dello status quo
(come impone, del resto, l’articolo 101 della Costituzione, che vuole i giudici
«soggetti soltanto alla legge»). Un posizionamento come quello prospettato
provocherà polemiche e ritorsioni da parte dell’establishment ma è l’unico
ancoraggio di un’indipendenza intesa come condizione per una reale imparzialità
e non come privilegio di casta.
Restano i movimenti che – come mi ha ricordato un
giovane in un dibattito in Val Susa – sono sempre stati capaci, nella storia,
di trovare le strade per esprimersi e di adottare contromisure a fronte della
repressione. Quella è la strada: resistere alla repressione ma anche esercitare
la fantasia, rinnovare i propri metodi di lotta, percorrere strade fino ad oggi
inesplorate, produrre nuove alleanze, parlare in modo comprensibile
all’opinione pubblica e via seguitando. In parte già accade ed è l’alternativa
a un’autoreferenzialità e una chiusura prive di sbocchi.
[1] Merita aggiungere che, parallelamente, anche la valenza
democratica dei sistemi elettorali di molti paesi occidentali va scemando. Da
un lato per il prevalere di sistemi maggioritari, che riducono massicciamente
la rappresentanza, e per la caduta verticale del numero dei votanti (spesso inferiore
alla metà degli aventi diritto). Dall’altro perché – come dimostrano numerose
indagini negli Stati Uniti e in Europa – il protagonista delle elezioni è
sempre meno il popolo e sempre più il denaro, al punto che, da alcuni decenni,
si sta affermando la regola – smentita da pochissime eccezioni – che a vincere
le elezioni sono i candidati che hanno a disposizione il budget maggiore (cfr.
sul punto, già più di dieci anni fa, M. Revelli, Finale di partito,
Einaudi, 2013, pp. 84 ss.).
[2]Forse qualcuno si sorprenderà, ma la citazione e di
Papa Francesco, nel discorso indirizzato il 15 novembre 2019 ai partecipanti al
XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale.
[3] Il riferimento è ai ricorrenti interventi
limitativi di diritti fondamentali (fin dalla legge Pica del 1863 per la
repressione del brigantaggio); alle ripetute proclamazioni, durante il periodo
liberale, dello stato di assedio; all’affidamento della gestione dell’ordine
pubblico all’esercito (come nel 1898 a Milano, quando le truppe del generale
Bava Beccaris spararono con i cannoni sulla folla); ai processi agli anarchici
di fine Ottocento (con imputazioni mirabolanti e carcerazioni preventive
prolungate, seguite per lo più, ad anni di distanza dai fatti, da assoluzioni
dibattimentali); alle interpretazioni giurisprudenziali in tema di domicilio
coatto o di «associazione di malfattori» (ripetutamente contestata ad anarchici
e socialisti); all’uso spregiudicato dei reati di opinione (fino al punto da
ritenere, in alcune sentenze, integrato il delitto di eccitamento all’odio di
classe, in espressioni come «abbasso la borghesia, viva il socialismo!» o
addirittura nel semplice canto dell’inno dei lavoratori); alla previsione come
reati dei comportamenti tipici del conflitto sociale (a cominciare dallo
sciopero: art. 502, comma 2, del codice Rocco del 1930, rimasto in vigore sino
alla dichiarazione di illegittimità avvenuta con la sentenza 4 maggio 1960, n.
29, della Corte costituzionale), etc.
[4] Prima dell’avvento della Repubblica,
all’indomani della caduta del regime fascista, la circolare 26 luglio 1943,
emanata per impedire manifestazioni popolari contro il Governo e contro la
guerra, dispose lo stato d’assedio provocando 80 morti, 300 feriti e 1.500
arresti. Nel testo della circolare si legge: «qualunque pietà e riguardo nella
repressione è un delitto. Poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di
sangue in seguito. Ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in
origine. Non è ammesso il tiro in aria. Si tira sempre a colpire come in
combattimento»
[5] In particolare va ricordata la circolare
Pacciardi del 1° giugno 1950, con cui venne militarizzato l’ordine pubblico per
contrastare le manifestazioni di operai e braccianti, con l’effetto che, dal
gennaio 1948 al luglio 1950, ci furono, nel corso di manifestazioni di piazza,
62 lavoratori morti, 3.123 feriti, 91.433 arrestati e 19.313 condannati.
[6] L’amnistia politica concessa con l’art. 1 del
decreto presidenziale 22 maggio 1970 fu finalizzata a chiudere la stagione del
’68-’69 nella quale – con riferimento al solo ultimo quadrimestre del 1969 –
erano state denunciate, secondo i dati del ministero dell'Interno, 8.396
persone per 14.036 reati, tra i quali 235 per lesioni personali, 19 per
devastazione e saccheggio, 4 per sequestro di persona, 124 per violenza
privata, 1.610 per blocchi stradali e ferroviari, 29 per attentati alla
sicurezza dei trasporti, 3.325 per invasione di aziende, terreni ed edifici e
1.376 per interruzione di pubblici servizi. Disse, allora, il relatore della
legge autorizzativa dell’amnistia che occorreva dare risposta al «disagio
diffuso nella pubblica opinione che, pur deprecando taluni episodi di autentica
delittuosità e pericolosità sociale, ritiene in gran parte sproporzionata e
sostanzialmente ingiusta la rubricazione di quelle vicende sotto titoli di
reato che erano stati dettati in un'epoca in cui era sconosciuta la realtà
storica dei conflitti che caratterizzano tutti gli Stati moderni». Da notare
che l’amnistia riguardò tutti i reati «commessi, anche con finalità politiche,
a causa e in occasione di agitazioni o manifestazioni sindacali o studentesche,
o di agitazioni o manifestazioni attinenti a problemi del lavoro,
dell'occupazione, della casa e della sicurezza sociale e in occasione ed a
causa di manifestazioni ed agitazioni determinate da eventi di calamità
naturali» punibili con una pena non superiore nel massimo a cinque anni e,
sempre alle stesse condizioni, la violenza o minaccia a corpo politico o
amministrativo, la devastazione, gli attentati alla sicurezza di impianti, il
porto illegale di armi o parte di esse e l’istigazione a commettere taluno dei
reati anzidetti.
[7] Il bilancio delle manifestazioni in occasione
del G8 di Genova è stato, tra il 20 e la notte sul 22 luglio, di 253 arresti
tra i manifestanti (di cui 93 nel corso della perquisizione alle scuole Diaz e
Pertini la notte sul 22). Ad essi vanno aggiunti 49 arrestati nel giorni
successivi (soprattutto cittadini stranieri che si stavano allontanando da Genova).
Dei 253 arrestati 28 sono stati posti in libertà direttamente dalla Procura che
ha chiesto, per gli altri 225, la convalida dell’arresto. I gip non hanno
convalidato 76 arresti; alle 149 convalide hanno fatto seguito 100
scarcerazioni per mancata emissione di misure cautelari, 29 misure cautelari
non detentive e 20 applicazioni della custodia in carcere. Il bilancio dei
feriti è stato di 560 medicati o ricoverati in ospedale (e si tratta,
ovviamente, di una rappresentazione sottodimensionata della situazione,
dovendosi tener presenti i molti che non si sono recati in ospedale per timore
di ritorsioni e quelli che hanno fatto ricorso a cure in ospedali non
genovesi).
[8] In Val Susa nel decennio 2010-2020 sono state
indagate circa 2.500 persone (con una punta di 327, quasi uno al giorno, nel
2011) con una incidenza territoriale percentuale che non ha pari nemmeno nei
territori di mafia. A ciò si sono accompagnati arresti e misure cautelari in
gran numero, contestazioni di reati gravissimi (fino all’attentato con finalità
di terrorismo) e forzature di diverso genere su cui si tornerà più avanti.
[9] Basta riandare alle tappe principali della
storia del dopoguerra con i veri e propri moti successivi all’attentato a
Togliatti, la sommossa di Genova del luglio 1960, le manifestazioni di piazza
Statuto e di corso Traiano a Torino o, ancora, alcune manifestazioni del 1968;
e lo stesso vale per Reggio Calabria e il movimento dei “boia chi molla” che,
tra il 1970 e il 1971 paralizzò la città per sei mesi con 6 morti, assalti alla
questura e alla prefettura, carri armati sul lungo mare.
[10] Rientra nella repressione indiretta quella
realizzata colpendo comportamenti collaterali ma essenziali. L’input viene dal
paese guida, gli Stati Uniti, dove la libertà di esprimere il proprio pensiero
e di dissentire, astrattamente tutelata – almeno fino a qualche tempo fa –
nella maniera più ampia dal Bill of Rights del 1791, è in concreto erosa da
interventi repressivi indiretti che finiscono per vanificarla quasi in toto. Per
esempio, secondo linee guida delle autorità di polizia di New York, i
manifestanti possono esprimere le critiche più radicali ma vanno arrestati se
lo fanno usando cartelli sorretti da aste (considerate alla stregua di armi) o
se scendono dai marciapiedi occupando il sedime stradale; la resistenza passiva
può essere perseguita come «ostruzione dell’amministrazione pubblica»; la
bandiera americana può essere bruciata ma chi lo fa può essere arrestato per
aver cagionato il pericolo di incendio e via dicendo.
[11] Un caso particolare di “zona rossa” permanente è
quello dell’area circostante il cantiere Tav della Maddalena di Chiomonte in
cui «l’ingresso e lo stazionamento di persone, mezzi e cose estranei allo
svolgimento delle previste attività connesse con l’apertura del cantiere» è
vietato «fino al venir meno delle preminenti esigenze di ordine pubblico», in
forza di oltre 50 ordinanze prefettizie emesse senza soluzione di continuità
dal 22 giugno 2011 ad oggi. Da notare che si tratta di ordinanze che partono
ancor prima degli scontri del 27 giugno e del 3 luglio e che sono rinnovate per
15 anni benché l’art. 2 TULPS ne preveda la possibilità solo «nel caso di
urgenza e per grave necessità pubblica» e il Consiglio di Stato abbia
ripetutamente stabilito che le ordinanze contingibili e urgenti non possono
disciplinare una situazione in modo stabile, ma debbono necessariamente
possedere il carattere della temporaneità (Cons. Stato, sez. V, n. 580 del 9
febbraio 2001; Cons. Stato, sez. IV – n. 6169 del 13 ottobre 2003). In Val Susa
opera inoltre, anche qui da quasi 15 anni, la legge n. 183/2011 il cui art. 19
prevede che «le aree ed i siti del Comune di Chiomonte, individuati per
l’installazione del cantiere della galleria geognostica e per la realizzazione
del tunnel di base della linea ferroviaria Torino-Lione, costituiscono aree di
interesse strategico nazionale. / Fatta salva l’ipotesi di più grave reato,
chiunque si introduce abusivamente nelle aree di interesse strategico nazionale
di cui al comma 1 ovvero impedisce o ostacola l’accesso autorizzato alle aree
medesime è punito a norma dell’articolo 682 del codice penale».
[12] Il riferimento è, in particolare, ai decreti
legge asseritamente diretti a tutelare la sicurezza adottati negli ultimi 15
anni e consegnati ai posteri con i nomi dei ministri degli Interni proponenti:
Maroni (23 febbraio 2009, n. 11); Minniti (17 febbraio 2017 n. 13 e 20 febbraio
2017, n. 14), Salvini (4 ottobre 2018, n. 113 e 14 giugno 2019, n. 53);
Lamorgese (21 ottobre 2020, n. 130). La serie è stata, infine (per ora),
completata, con il decreto legge Piantedosi (11 aprile 2025, n. 48 convertito
in legge 9 giugno 2025, n. 80).
[13] Merita segnalare, al riguardo, la presentazione,
da parte di alcuni senatori leghisti (primo firmatario il capogruppo
Massimiliano Roneo), del disegno di legge «Disposizioni per l’adozione della
definizione operativa di antisemitismo, nonché per il contrasto agli atti di
antisemitismo» il cui articolo 3 prevede che «il diniego all’autorizzazione di
una riunione o manifestazione pubblica [...] può essere motivato anche in caso
di valutazione di grave rischio potenziale per l’utilizzo di simboli, slogan,
messaggi e qualunque altro atto antisemita ai sensi della definizione operativa
di antisemitismo adottata dalla presente legge». Evidente la finalità,
perseguita con una previsione estremamente ampia e generica, di vietare o
limitare le manifestazioni e le iniziative contro il genocidio in atto a Gaza.
[14] Si è arrivati finanche alla sottolineatura della
pericolosità di un indagato – poi condannato, nel giudizio di primo grado, a
due mesi di reclusione – desunta dalla circostanza che «nel 1970 (cioè 42 anni
prima dei fatti, ndr) – è contiguo ai movimenti della sinistra
extraparlamentare Lotta continua e Potere operaio e partecipa a una
manifestazione non preavvisata all’autorità di pubblica sicurezza, promossa dai
predetti movimenti» (gip Torino, 20 gennaio 2012).
[15] Esemplare il caso dei 25 imputati sottoposti
alla misura della custodia in carcere per resistenza e violenza a pubblico
ufficiale in relazione allo sgombero del cantiere della Maddalena del 27 giugno
2011 e alla successiva manifestazione del 3 luglio: come era ampiamente
prevedibile nonostante il clamore degli inquirenti e dei media, all’esito del
giudizio (svoltosi con alcuni stralci e separazioni e con un doppio passaggio
in appello e in Cassazione) ben 4 imputati sono stati assolti per ragioni di
merito e 10 hanno beneficiato della sospensione condizionale della pena mentre
agli altri sono state applicate pene pari o inferiori a due anni, con
conseguente ampia possibilità, almeno in linea teorica, di beneficiare, in sede
esecutiva, di misure alternative al carcere.
[16] Cfr. C. Novaro: https://volerelaluna.it/societa/2019/07/09/repressione-giudiziaria-e-movimenti-gli-anarchici-i-processi-le-regole/
[17] Due esempi per tutti di motivazioni in tal
senso: «È ragionevole ritenere che nel caso in cui la G. avesse avuto
intenzione di limitarsi a manifestare pacificamene, non appena la
manifestazione ha assunto carattere violento si sarebbe allontanata» (ordinanza
Tribunale del riesame di Torino, 22 settembre 2011) e «È superflua
l’individuazione dell’oggetto specifico che ha raggiunto ogni singolo
appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come lo è l’individuazione
del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i partecipanti agli
scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o anche solo
prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si trovavano»
(ordinanza Giudice per le indagini preliminari Torino, 20 gennaio 2012).
[18] Cfr. L. D’Ancona: https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-piacenza-sindacati-o-associazioni-a-delinquere
[19] Cfr. L. Ferrajoli: https://volerelaluna.it/commenti/2025/01/28/askatasuna-no-tav-e-le-nuove-frontiere-della-repressione/
[20] Cfr. M. Revelli: https://volerelaluna.it/controcanto/2021/12/20/kafka-nella-locride-sulla-surreale-condanna-di-mimmo-lucano/
[21] Il massimo dell’esemplarità sta nella
contestazione a quattro attivisti della Val Susa dei delitti di «attentato per
finalità terroristiche» (art. 280 codice penale) e di «atto di terrorismo con
ordigni micidiali o esplosivi» (art. 280 bis) in relazione a un “assalto” al
cantiere della Maddalena realizzato mediante il superamento delle reti e
l’incendio un compressore da parte di alcuni mentre gli altri impedivano
l’intervento degli operai e degli agenti di polizia con il lancio di artifici
esplosivi e incendiari, senza lesioni di sorta per alcuno. Evidenti i reati di
danneggiamento aggravato e di violenza a pubblico ufficiale, ma davvero
difficile pensare al terrorismo. Eppure esso venne evocato facendo ricorso a
due argomenti grotteschi: a) l’idoneità del fatto ad arrecare un grave danno al
Paese (con il venir meno della sua immagine, in ambito europeo, di partner
affidabile»); b) l’attitudine dell’attacco al cantiere, in considerazione delle
sue modalità e coerentemente con l’obiettivo perseguito, a intimidire la
popolazione valsusina e/o a costringere i poteri pubblici ad astenersi dalle
attività necessarie per realizzare la nuova linea ferroviaria Torino-Lione.
L’infondatezza dell’impostazione ha determinato l’esclusione del reato in tutti
i gradi del giudizio e da parte della Corte di legittimità (attivati da ricorsi
dei pubblici ministeri) ma la contestazione non è rimasta senza effetto
sortendo numerosi esiti: un anno di carcere duro per gli imputati, in
condizioni di sostanziale isolamento; un anno di massacro mediatico per gli
imputati e per l’intero movimento No Tav; la possibilità di procedere a
intercettazioni telefoniche sostanzialmente illimitate nei confronti di interi
settori del movimento; l’effetto di induzione per i giudici, pur nel momento in
cui hanno escluso il reato, a mantenere livelli di pena più elevati del
consueto per i reati residui (con un processo psicologico automatico seppur,
verosimilmente, inconscio).
[22] È il caso delle contestazioni dei reati di
resistenza o violenza a pubblico ufficiale e di violenza privata in cui, ai
fini della sussistenza del reato, viene evocata la «minaccia implicita
determinata dal numero di persone schierate». Evidente la forzatura e la
sostanziale cancellazione di diritti costituzionali fondamentali, posto che le
manifestazioni e i picchetti prevedono per definizione la presenza di più
persone. Eppure ciò accade abitualmente nella repressione del movimento No Tav
e in quella dell’antagonismo sociale ma anche in numerosi processi per
picchettaggio.
[23] Cfr. L. Pepino: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/09/18/dana-la-vendetta-del-tav/
[24] Cfr. G. Scarpari, Processo a mezzo
stampa: il “7 aprile”, in Qualegiustizia, n. 51, maggio-giugno
1979.
[25] Si vedano, per tutti i documenti critici del
direttivo dell’Associazione italiana professori di diritto penale (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/04/14/tutti-i-rischi-del-decreto-sicurezza/), di 237 professori di diritto
piubblico (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/05/02/237-professori-di-diritto-pubblico-il-decreto-sicurezza-viola-la-costituzione/) e del Massimario della Corte di
cassazione
(https://volerelaluna.it/materiali/2025/07/01/le-molte-falle-del-decreto-sicurezza/).
[26] Il riferimento è alla giurisprudenza in tema di
resistenza a pubblico ufficiale che afferma – con valenza, evidentemente,
generale – che «non integra il delitto di cui all'art. 337 codice penale la
condotta consistente nel mero divincolarsi posto in essere da un soggetto
fermato dalla polizia giudiziaria per sottrarsi al controllo, quando lo stesso
si risolva in un atto di mera resistenza passiva, implicante un uso moderato di
violenza non diretta contro il pubblico ufficiale» (così Cass. Sez. 6, 6
novembre 2012, Roccia, pres. Milo, est. Conti G.).
[27] Merita sottolineare che la considerazione della
resistenza passiva come illecito penale è implicita anche nella nuova
disciplina del blocco stradale nella quale è esplicitamente menzionata
l’ostruzione stradale realizzata con solo corpo (cioè la condotta tipica delle
manifestazioni non violente). Con tale modifica normativa sono criminalizzati –
in caso di mancato preavviso di manifestazione o di intervenuto divieto del
questore ai sensi dell’art. 18 del Testo unico di pubblica sicurezza o di
modalità di attuazione difformi da quelle concordate – anche i manifestanti
pacifici che stazionino continuativamente e in gruppo in una strada
prospiciente i cancelli di una fabbrica (dove, per esempio, è in corso uno
sciopero) o l’ingresso di una scuola (dove, sempre per esempio, gli studenti
sono in agitazione), ovvero che blocchino una strada o un’autostrada,
sdraiandosi a terra o semplicemente percorrendola, senza alcuna violenza (dove
il riferimento a cortei di operai in sciopero o ad azioni dimostrative di
gruppi come Ultima generazione o Extinction Rebellion è trasparente).
[28] Il riferimento è all’articolo 13 del decreto che
prevede l’estensione del Daspo urbano alle persone denunciate o condannate,
anche con sentenza non definitiva, per delitti contro la persona o contro il
patrimonio commessi in aree interne delle infrastrutture ferroviarie,
aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano,
e delle relative pertinenze.
[29] Anche qui si tratta di una scelta di fondo del
disegno di legge (e non solo), come dimostra anche la previsione dall’articolo
29 che, modificando alcune norme del codice della navigazione, ostacola
ulteriormente le attività delle ONG impegnate nei soccorsi in mare, facendo
così “terra bruciata” intorno ai migranti.
Il testo è la rielaborazione della relazione svolta il
19 luglio 2025 nel corso di formazione di Rovigo di Amnesty International.
https://www.questionegiustizia.it/articolo/criminalizzazione-attivisti
Nessun commento:
Posta un commento