L’estate sta finendo e, dopo le illusioni di Ferragosto, quando ci sono state alcune iniziative per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, sul carcere sono nuovamente calati il disinteresse e il silenzio, nonostante le denunce, le testimonianze, un’inedita unità di intenti di magistrati, avvocati e docenti (https://ristretti.org/emergenza-suicidi-in-carcere-impegnarsi-tutti-e-partire-da-qui) e l’apporto di alcune voci eccellenti come quella dell’ex sindaco di Roma Alemanno, direttamente toccato dalla detenzione. Quel che non si ferma è la triste conta dei suicidi: arrivati, nel momento in cui scrivo, a 56 o forse a 59 (nemmeno il conteggio dei morti è certo in carcere…), il numero più elevato di sempre, superato solo nel 2024. Una quantità esorbitate, in sé e rapportata alla percentuale dei suicidi in libertà, che solo il cinismo forcaiolo di Carlo Nordio (ex magistrato chiamato all’incarico di ministro della giustizia non per competenza o per meriti ma per affinità politica) consente di qualificare come “dato inferiore alla media”. Il degrado è insopportabile, acuito dal caldo estivo, dal sovraffollamento, dalle carenze igieniche, dalla mancanza di personale educativo (come documentato, proprio in questi giorni, dal rapporto di Antigone di metà anno 2025 e dal Report sui decessi in carcere nel periodo gennaio-luglio 2025 del Garante nazionale delle persone private della libertà personale). Non è, peraltro, una novità. E ciò impone qualche riflessione che vada alla radice del problema e aiuti a capire come mai, pur in queste condizioni, le proposte di riduzione e umanizzazione del carcere – finanche quelle dei Papi e dei capi dello Stato che si sono succeduti negli anni – restano regolarmente inascoltate, le stesse parole “amnistia” e “indulto” sono diventate tabù, il ricorso al carcere aumenta e le sole proposte di soluzione della destra – e non solo – sono la costruzione di nuovi istituti penitenziari (peraltro ferma anch’essa allo stadio di progetto).
Alla base di
tutto ci sono alcuni paradossi.
Primo
paradosso. Il
carcere cresce mentre i reati diminuiscono. La mancata corrispondenza
tra andamento dei reati e presenze in carcere è confermata da
tutte le ricerche criminologiche, per tutti i tipi di reato. Basti dire
che, nel nostro Paese, il picco dei delitti si è avuto nei primi
anni Novanta del secolo sorso, quando in carcere c’erano poco più
di 30.000 detenuti (35.485 il 31 dicembre 1991) mentre
oggi, con i reati più gravi in netto calo (gli omicidi volontari sono
passati, da 1.938 del 1991 a 314 del 2024 e il report di Ferragosto 2025
del ministero dell’Interno segnala che, nei primi sette mesi dell’anno, i
reati sono calati complessivamene del 9% rispetto allo stesso periodo del 2024
con una diminuzione del 7,7% dei furti, del 6,7% delle rapine, del 17,3% delle
violenze sessuali, mentre le persone denunciate sono scese a
461.495, con un calo dell’8%), i detenuti sono circa il doppio (erano
62.728 il 30 giugno scorso). Il fatto è che l’entità della repressione
risente delle politiche “criminali” assai più che dell’andamento della
criminalità. Il modello di riferimento è quello degli Stati Uniti dove il
diritto penale classico (che commisura la pena in base all’entità
del fatto) è stato sostituito da un diritto che punisce le persone non per
quello che hanno fatto ma per quello che sono, sino all’assurdo di punire con
il carcere a vita, in caso di recidiva, il furto di tre mazze da golf, di una
pizza o di una merendina (cfr. E. Grande, Il terzo strike. La prigione
in America, Sellerio, 207), con la conseguenza
che gli ergastolani presenti nelle carceri statunitensi sono,
oggi, circa 200.000, pari a uno ogni 1.500 abitanti. Un
ulteriore dato su cui riflettere è che, a dispetto delle apparenze, il
numero degli ingressi in carcere dalla libertà è nettamente diminuito
rispetto a 30 anni fa e che la crescita delle presenze negli istituti
penitenziari è determinata dalla diminuzione delle uscite e, dunque,
dall’aumento delle pene, nonostante non si abbia un parallelo aumento della
gravità dei reati commessi.
Secondo
paradosso. Il
carcere è inutile ma continua ad aumentare in ogni parte del mondo e anche nel
nostro Paese. La detenzione soddisfa (forse) la richiesta di vendetta sociale
e isola, per un periodo più o meno lungo, il reo. Ma la sua inutilità, almeno
per le finalità dichiarate, è conclamata: non aumenta il senso di
sicurezza della collettività, ché il paese occidentale con il maggior
indice di carcerazione (gli Stati Uniti d’America, nei quali c’è un detenuto
ogni 170 abitanti) è anche il più insicuro, come dimostra il fatto che in esso
si vendono più armi per difesa personale che in ogni altro luogo, e non
serve a rieducare i condannati, ché la recidiva (cioè la
commissione di nuovi reati) è massima tra gli ex detenuti. Alcune
ricerche ufficiali fatte nel nostro Paese dagli uffici
dell’Amministrazione penitenziaria evidenziano, infatti, che tra i condannati
che hanno espiato la pena interamente in carcere il tasso di recidiva supera il
70 per cento mentre tra coloro che l’hanno scontata, in tutto o in parte, in
misura alternativa il tasso diminuisce al 20 per cento. Certo, le misure
alternative vengono concesse – per definizione – ai condannati “meno
pericolosi” ma resta una sproporzione enorme che dimostra come il carcere non
diminuisca affatto l’area dei delitti e dei devianti (ma solo
isoli, temporaneamente, alcuni di loro). Per questo non sono più i soli
abolizionisti storici a contestare il carcere. Ad essi si affiancano
operatori di diversa estrazione e persino magistrati. Valga per tutti il
caso di Gherardo Colombo, per decenni pubblico ministero milanese impegnato in
alcuni dei più rilevanti processi del paese, che, qualche anno fa, ha scritto:
«Quando ho iniziato la carriera di magistrato ero convintissimo che la prigione
servisse, ma presto ho cominciato a nutrire dubbi. Continuavo a pensare che il
carcere fosse utile: ma piano piano ho conosciuto meglio la sua realtà e i suoi
effetti. Se il carcere non è una soluzione efficace, ci si arriva a chiedere:
somministrando condanne, sto davvero esercitando giustizia?» (Gherardo
Colombo, Il perdono responsabile, Ponte alle Grazie, Milano, 2011).
La
domanda è, dunque, obbligata: per quali ragioni il carcere, pur non
risolvendo i problemi legati a criminalità e devianza, resiste imperturbabile a
ogni critica e, anzi, si estende in tutto il mondo? La risposta rinvia alla
funzione sociale che la detenzione riveste nelle nostre società.
Le prigioni
come oggi le conosciamo, cioè come risposta generalizzata a comportamenti
devianti, non esistono da sempre. Al contrario sono relativamente recenti. Fino al sedicesimo secolo esse
sono state utilizzate, e in misura limitata, come strumento per assicurare la
presenza dell’accusato al processo o come strumento dell’inquisizione. Le
prigioni che conosciamo sono nate meno di 500 anni fa. Prima di allora l’idea
che la risposta al delitto fosse la chiusura del reo in uno spazio ristretto
per un tempo più o meno lungo era semplicemente sconosciuta. Le pene erano
altre: varie e talora crudeli e disumane. Non erano migliori. Anzi
spesso erano esattamente il contrario. Ma non erano il carcere, che fece la sua
comparsa nel secolo sedicesimo, il secolo della grande reclusione, susseguente
alla crisi del sistema feudale, quando la cacciata dei contadini dalle terre
accrebbe a dismisura miseria e vagabondaggio e provocò, soprattutto nel secolo
successivo, un fiorire di bandi, leggi e ordinanze dirette a colpire mendicanti
e vagabondi con tanto di guardie ad hoc, a difesa delle città e finanche
delle chiese. La nascita della prigione ne rende esplicito anche l’uso
politico: controllare poveri e vagabondi e poi, con l’inizio della rivoluzione
industriale, disciplinarli al lavoro in fabbrica. La situazione non si è
modificata oggi, nonostante i filoni di pensiero che hanno ispirato il
costituzionalismo contemporaneo e il sogno di eliminare la povertà e di ridurre
il carcere. È sufficiente guardare all’esperienza degli Stati Uniti d’America
in cui – secondo le cifre più attendibili (ché, stante la complessità del
sistema, i dati variano a seconda dei criteri di rilevazione) – si contano
oltre 2 milioni di detenuti su poco più di 340 milioni di abitanti, pari a 580
ogni 100 mila abitanti, cioè uno ogni 170 (mentre in Italia e in Europa siamo intorno
a uno ogni 1000 abitanti). Ancora più significativo è il fatto che, mentre la
popolazione degli Stati Uniti è circa il 5 per cento di quella mondiale, la sua
popolazione carceraria è pari al 25 cento di quella del pianeta. Il che – non
essendoci apprezzabili differenze tra la criminalità degli Stati Uniti e quella
di stati consimili – dimostra come il ricorso alla carcerazione non è una
risposta oggettiva alla criminalità ma lo strumento di una
politica di organizzazione sociale. La cosa diventa ancor più chiara se si
considera che il 41 per cento dei detenuti del Paese è nero (mentre la comunità
afroamericana costituisce solo il 13 per cento della popolazione), con un terzo
dei ventenni afroamericani in carcere. In questo modo il carcere ha
sempre più il ruolo di strumento per la creazione e il consolidamento di un
doppio livello di cittadinanza, con diversità di diritti, funzionale a una
organizzazione sociale fondata sulle differenze sociali.
E sia –
dicono i suoi sostenitori –, il carcere esalterà e cristallizzerà le differenze
sociali, ma rappresenta pur sempre, prima di tutto e inevitabilmente, la
risposta dello Stato alla criminalità. L’affermazione è suggestiva ma smentita
dai fatti. Anzitutto – come si è già detto – non è vero che l’aumento del carcere
è determinato dalla crescita dei reati commessi. Ma, poi, non è
vero neppure che il carcere è una risposta alla criminalità.
Basta, limitandosi al nostro paese, leggere i dati sulla composizione della
popolazione ristretta risultanti dalle statistiche ministeriali (talora
incompleti ma comunque indicativi): nel 2024, oltre il 40 per cento era
detenuto per delitti contro il patrimonio o per violazioni della legge sulla
droga e meno del 20 per cento per delitti contro la persona (comprensivi anche
di lesioni e percosse), mentre per i reati contro l’economia pubblica
(comprensivi anche di frodi alimentari e simili) l’aliquota di presenze era
inferiore all’1 per cento; il 32 per cento dei detenuti presenti il 31 dicembre
2024 era costituito da stranieri e il 31,9 per cento da tossicodipendenti; dei
presenti alla stessa data solo il 9 per cento aveva come titolo di studio la
licenza media superiore e l’1 per cento la laurea, mentre gli analfabeti erano
l’1,3 per cento e si era fermato alla licenza elementare l’8 per cento. Anche
sotto questo profilo, dunque, emerge una indicazione univoca: il
carcere non sanziona i comportamenti criminali tout court ma alcuni comportamenti
criminali e, per il loro tramite, la povertà e la marginalità sociale.
È possibile,
a questo punto, trarre qualche conclusione sulle ragioni per cui
il carcere è, oggi, intoccabile, ragioni che hanno a che fare con
un’opzione politica e non con la necessità di arginare una criminalità
dilagante. Aggredire queste ragioni e il loro presupposto ideologico è il
solo modo possibile per contenere e umanizzare il carcere. Altrimenti la pena
detentiva e le prigioni continueranno a espandersi a dispetto delle denunce e
delle proposte di cambiamento. Senza rimetter mano criticamente alla filosofia
e alla concezione della società e dello Stato oggi dominanti la realtà resterà
immutata o peggiorerà ulteriormente. Nonostante l’illusione di Alemanno sulla
conversione del suo vecchio camerata Ignazio La Russa.
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