sabato 13 settembre 2025

II carcere, il cinismo di Nordio e le illusioni di Alemanno - Livio Pepino

L’estate sta finendo e, dopo le illusioni di Ferragosto, quando ci sono state alcune iniziative per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, sul carcere sono nuovamente calati il disinteresse e il silenzio, nonostante le denunce, le testimonianze, un’inedita unità di intenti di magistrati, avvocati e docenti (https://ristretti.org/emergenza-suicidi-in-carcere-impegnarsi-tutti-e-partire-da-qui) e l’apporto di alcune voci eccellenti come quella dell’ex sindaco di Roma Alemanno, direttamente toccato dalla detenzione. Quel che non si ferma è la triste conta dei suicidi: arrivati, nel momento in cui scrivo, a 56 o forse a 59 (nemmeno il conteggio dei morti è certo in carcere…), il numero più elevato di sempre, superato solo nel 2024. Una quantità esorbitate, in sé e rapportata alla percentuale dei suicidi in libertà, che solo il cinismo forcaiolo di Carlo Nordio (ex magistrato chiamato all’incarico di ministro della giustizia non per competenza o per meriti ma per affinità politica) consente di qualificare come “dato inferiore alla media”. Il degrado è insopportabile, acuito dal caldo estivo, dal sovraffollamento, dalle carenze igieniche, dalla mancanza di personale educativo (come documentato, proprio in questi giorni, dal rapporto di Antigone di metà anno 2025 e dal Report sui decessi in carcere nel periodo gennaio-luglio 2025 del Garante nazionale delle persone private della libertà personale). Non è, peraltro, una novità. E ciò impone qualche riflessione che vada alla radice del problema e aiuti a capire come mai, pur in queste condizioni, le proposte di riduzione e umanizzazione del carcere – finanche quelle dei Papi e dei capi dello Stato che si sono succeduti negli anni – restano regolarmente inascoltate, le stesse parole “amnistia” e “indulto” sono diventate tabù, il ricorso al carcere aumenta e le sole proposte di soluzione della destra – e non solo – sono la costruzione di nuovi istituti penitenziari (peraltro ferma anch’essa allo stadio di progetto).

Alla base di tutto ci sono alcuni paradossi.

Primo paradossoIl carcere cresce mentre i reati diminuiscono. La mancata corrispondenza tra andamento dei reati e presenze in carcere è confermata da tutte le ricerche criminologiche, per tutti i tipi di reato. Basti dire che, nel nostro Paese, il picco dei delitti si è avuto nei primi anni Novanta del secolo sorso, quando in carcere c’erano poco più di 30.000 detenuti (35.485 il 31 dicembre 1991) mentre oggi, con i reati più gravi in netto calo (gli omicidi volontari sono passati, da 1.938 del 1991 a 314 del 2024 e il report di Ferragosto 2025 del ministero dell’Interno segnala che, nei primi sette mesi dell’anno, i reati sono calati complessivamene del 9% rispetto allo stesso periodo del 2024 con una diminuzione del 7,7% dei furti, del 6,7% delle rapine, del 17,3% delle violenze sessuali, mentre le persone denunciate sono scese a 461.495, con un calo dell’8%), i detenuti sono circa il doppio (erano 62.728 il 30 giugno scorso). Il fatto è che l’entità della repressione risente delle politiche “criminali” assai più che dell’andamento della criminalità. Il modello di riferimento è quello degli Stati Uniti dove il diritto penale classico (che commisura la pena in base all’entità del fatto) è stato sostituito da un diritto che punisce le persone non per quello che hanno fatto ma per quello che sono, sino all’assurdo di punire con il carcere a vita, in caso di recidiva, il furto di tre mazze da golf, di una pizza o di una merendina (cfr. E. Grande, Il terzo strike. La prigione in America, Sellerio, 207), con la conseguenza che gli ergastolani presenti nelle carceri statunitensi sono, oggi, circa 200.000, pari a uno ogni 1.500 abitanti. Un ulteriore dato su cui riflettere è che, a dispetto delle apparenze, il numero degli ingressi in carcere dalla libertà è nettamente diminuito rispetto a 30 anni fa e che la crescita delle presenze negli istituti penitenziari è determinata dalla diminuzione delle uscite e, dunque, dall’aumento delle pene, nonostante non si abbia un parallelo aumento della gravità dei reati commessi.

Secondo paradossoIl carcere è inutile ma continua ad aumentare in ogni parte del mondo e anche nel nostro Paese. La detenzione soddisfa (forse) la richiesta di vendetta sociale e isola, per un periodo più o meno lungo, il reo. Ma la sua inutilità, almeno per le finalità dichiarate, è conclamata: non aumenta il senso di sicurezza della collettività, ché il paese occidentale con il maggior indice di carcerazione (gli Stati Uniti d’America, nei quali c’è un detenuto ogni 170 abitanti) è anche il più insicuro, come dimostra il fatto che in esso si vendono più armi per difesa personale che in ogni altro luogo, e non serve a rieducare i condannati, ché la recidiva (cioè la commissione di nuovi reati) è massima tra gli ex detenuti. Alcune ricerche ufficiali fatte nel nostro Paese dagli uffici dell’Amministrazione penitenziaria evidenziano, infatti, che tra i condannati che hanno espiato la pena interamente in carcere il tasso di recidiva supera il 70 per cento mentre tra coloro che l’hanno scontata, in tutto o in parte, in misura alternativa il tasso diminuisce al 20 per cento. Certo, le misure alternative vengono concesse – per definizione – ai condannati “meno pericolosi” ma resta una sproporzione enorme che dimostra come il carcere non diminuisca affatto l’area dei delitti e dei devianti (ma solo isoli, temporaneamente, alcuni di loro). Per questo non sono più i soli abolizionisti storici a contestare il carcere. Ad essi si affiancano operatori di diversa estrazione e persino magistrati. Valga per tutti il caso di Gherardo Colombo, per decenni pubblico ministero milanese impegnato in alcuni dei più rilevanti processi del paese, che, qualche anno fa, ha scritto: «Quando ho iniziato la carriera di magistrato ero convintissimo che la prigione servisse, ma presto ho cominciato a nutrire dubbi. Continuavo a pensare che il carcere fosse utile: ma piano piano ho conosciuto meglio la sua realtà e i suoi effetti. Se il carcere non è una soluzione efficace, ci si arriva a chiedere: somministrando condanne, sto davvero esercitando giustizia?» (Gherardo Colombo, Il perdono responsabile, Ponte alle Grazie, Milano, 2011).

La domanda è, dunque, obbligata: per quali ragioni il carcere, pur non risolvendo i problemi legati a criminalità e devianza, resiste imperturbabile a ogni critica e, anzi, si estende in tutto il mondo? La risposta rinvia alla funzione sociale che la detenzione riveste nelle nostre società.

Le prigioni come oggi le conosciamo, cioè come risposta generalizzata a comportamenti devianti, non esistono da sempre. Al contrario sono relativamente recenti. Fino al sedicesimo secolo esse sono state utilizzate, e in misura limitata, come strumento per assicurare la presenza dell’accusato al processo o come strumento dell’inquisizione. Le prigioni che conosciamo sono nate meno di 500 anni fa. Prima di allora l’idea che la risposta al delitto fosse la chiusura del reo in uno spazio ristretto per un tempo più o meno lungo era semplicemente sconosciuta. Le pene erano altre: varie e talora crudeli e disumane. Non erano migliori. Anzi spesso erano esattamente il contrario. Ma non erano il carcere, che fece la sua comparsa nel secolo sedicesimo, il secolo della grande reclusione, susseguente alla crisi del sistema feudale, quando la cacciata dei contadini dalle terre accrebbe a dismisura miseria e vagabondaggio e provocò, soprattutto nel secolo successivo, un fiorire di bandi, leggi e ordinanze dirette a colpire mendicanti e vagabondi con tanto di guardie ad hoc, a difesa delle città e finanche delle chiese. La nascita della prigione ne rende esplicito anche l’uso politico: controllare poveri e vagabondi e poi, con l’inizio della rivoluzione industriale, disciplinarli al lavoro in fabbrica. La situazione non si è modificata oggi, nonostante i filoni di pensiero che hanno ispirato il costituzionalismo contemporaneo e il sogno di eliminare la povertà e di ridurre il carcere. È sufficiente guardare all’esperienza degli Stati Uniti d’America in cui – secondo le cifre più attendibili (ché, stante la complessità del sistema, i dati variano a seconda dei criteri di rilevazione) – si contano oltre 2 milioni di detenuti su poco più di 340 milioni di abitanti, pari a 580 ogni 100 mila abitanti, cioè uno ogni 170 (mentre in Italia e in Europa siamo intorno a uno ogni 1000 abitanti). Ancora più significativo è il fatto che, mentre la popolazione degli Stati Uniti è circa il 5 per cento di quella mondiale, la sua popolazione carceraria è pari al 25 cento di quella del pianeta. Il che – non essendoci apprezzabili differenze tra la criminalità degli Stati Uniti e quella di stati consimili – dimostra come il ricorso alla carcerazione non è una risposta oggettiva alla criminalità ma lo strumento di una politica di organizzazione sociale. La cosa diventa ancor più chiara se si considera che il 41 per cento dei detenuti del Paese è nero (mentre la comunità afroamericana costituisce solo il 13 per cento della popolazione), con un terzo dei ventenni afroamericani in carcere. In questo modo il carcere ha sempre più il ruolo di strumento per la creazione e il consolidamento di un doppio livello di cittadinanza, con diversità di diritti, funzionale a una organizzazione sociale fondata sulle differenze sociali.

E sia – dicono i suoi sostenitori –, il carcere esalterà e cristallizzerà le differenze sociali, ma rappresenta pur sempre, prima di tutto e inevitabilmente, la risposta dello Stato alla criminalità. L’affermazione è suggestiva ma smentita dai fatti. Anzitutto – come si è già detto – non è vero che l’aumento del carcere è determinato dalla crescita dei reati commessi. Ma, poi, non è vero neppure che il carcere è una risposta alla criminalità. Basta, limitandosi al nostro paese, leggere i dati sulla composizione della popolazione ristretta risultanti dalle statistiche ministeriali (talora incompleti ma comunque indicativi): nel 2024, oltre il 40 per cento era detenuto per delitti contro il patrimonio o per violazioni della legge sulla droga e meno del 20 per cento per delitti contro la persona (comprensivi anche di lesioni e percosse), mentre per i reati contro l’economia pubblica (comprensivi anche di frodi alimentari e simili) l’aliquota di presenze era inferiore all’1 per cento; il 32 per cento dei detenuti presenti il 31 dicembre 2024 era costituito da stranieri e il 31,9 per cento da tossicodipendenti; dei presenti alla stessa data solo il 9 per cento aveva come titolo di studio la licenza media superiore e l’1 per cento la laurea, mentre gli analfabeti erano l’1,3 per cento e si era fermato alla licenza elementare l’8 per cento. Anche sotto questo profilo, dunque, emerge una indicazione univoca: il carcere non sanziona i comportamenti criminali tout court ma alcuni comportamenti criminali e, per il loro tramite, la povertà e la marginalità sociale.

È possibile, a questo punto, trarre qualche conclusione sulle ragioni per cui il carcere è, oggi, intoccabile, ragioni che hanno a che fare con un’opzione politica e non con la necessità di arginare una criminalità dilagante. Aggredire queste ragioni e il loro presupposto ideologico è il solo modo possibile per contenere e umanizzare il carcere. Altrimenti la pena detentiva e le prigioni continueranno a espandersi a dispetto delle denunce e delle proposte di cambiamento. Senza rimetter mano criticamente alla filosofia e alla concezione della società e dello Stato oggi dominanti la realtà resterà immutata o peggiorerà ulteriormente. Nonostante l’illusione di Alemanno sulla conversione del suo vecchio camerata Ignazio La Russa.

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