venerdì 26 settembre 2025

SU CÀRRIGU ‘E SA CUSSENZIA - Gian Luigi Deiana

(il peso della coscienza)

dedicherei queste righe agli studenti che in queste ore intraprendono un nuovo anno di scuola, ma in realtà le dedico a me stesso, per come mi sono trovato per anni a insegnare: per cercare di entrare, con una specie di dialogo virtuale immaginato in una classe, dentro il terribile frangente nel quale stiamo vivendo, e stiamo morendo; non sono sorpreso dalle varie raccomandazioni scolastiche, tese a evitare che nelle classi si parli di palestina: evitare i carichi di coscienza è sempre una soluzione; l’alternativa oggi presente, infatti, è la determinazione a entrare nell’abisso;

il carico di coscienza” è un’espressione idiomatica sarda; è un’espressione popolare, ma è densa di profondità filosofica; nel suo significato equivale al fondamentale concetto hegeliano della “coscienza infelice”; la “coscienza infelice” consiste nella consapevolezza del proprio limite, e quindi nel riconoscimento del proprio peccato; la coscienza infelice è l’autocoscienza che non evita il proprio abisso, e ne fa la via della propria redenzione; non sorprende che il grande hegel alludesse, con tale immagine, proprio a gesù di nazareth: la via, la verità, la vita, attraverso il calvario, la menzogna, e la morte;

scrollarsi di dosso il carico di coscienza, ovvero l’inquieta autocoscienza del proprio peccato, è comunque facile da farsi: è sufficiente rimuovere la propria colpa, e addossarne il prezzo su di altri; in filosofia si chiama “la cattiva coscienza”; essa comporta che “l’errore resti sempre dinanzi”, ma si rifiuta riconoscerlo come proprio; nella teoria freudiana si chiama “rimozione”; come è noto sigmund freud era un ebreo austriaco, e non è affatto un caso che il groviglio concettuale della autocoscienza infelice, della rimozione della colpa e della cattiva coscienza sia impregnato di ebraismo: si tratta di un contributo fondamentale alla filosofia, all’umanesimo e all’universalismo, per come questo è possibile nella condizione umana;

la prima volta che sentii l’espressione “cattiva coscienza” avevo quattordici anni; era il 1967, a giugno, e si stava combattendo in palestina la cosiddetta “guerra dei sei giorni”; il telegiornale era condotto da un valente gioŕnalista ebreo, arrigo levi; naturalmente la sua esposizione era molto filoisraeliana, ma il commento era affidato, sera per sera, a un intellettuale cattolico straordinariamente chiaro; si chiamava ettore masina e a me restò impressa, da allora, questa sua conclusione, resa la sera che il telegiornale comunicava la totale vittoria israeliana: “la palestina, oggi, è il luogo della cattiva coscienza del mondo”;

sono passati quasi sessant’anni da allora; ne sono passati quasi ottanta dalla proclamazione dello stato di israele; ne sono passati più di cento da quando la gran bretagna si dispose a favorire il processo di insediamento ebraico in palestina e quindi di progressiva eliminazione della presenza palestinese stessa; cento anni di “cattiva coscienza”;

nel frattempo l’europa ha visto l’olocausto; la germania, con complicità diffuse e con la fattiva collaborazione italiana, ne è stata la massima artefice: ebbene, cosa ne ha pagato la germania? e cosa ne ha pagato la varia rete che vi ha collaborato? e cosa ne ha pagato l’europa? niente: niente di niente, salvo monumentalizzare quanto resta dei lager; la “rimozione” della responsabilità, il lavorio verminoso della cattiva coscienza, è invece ricaduta sulla palestina;

l’esito antropologico di questa ignominia è stato ancora più perverso: ha liberato la società israeliana dall’inquetudine della “coscienza infelice”; si ripete di nuovo, nel segno di una teologia blasfema, l’orrida giustificazione del delitto di cui fu vittima gesù stesso: “se vi è colpa, ricada su di noi e sui nostri figli”;

quale padre può mai permettersi un giuramento simile? e i figli?

ora è ben chiaro che per il popolo palestinese è giunta l’ora della “soluzione finale”; niente fermerà la macchina dello sterminio; resta una sola via di salvezza: che i figli, i figli della società israeliana, ripudino i propri padri; la società israeliana, per risalire la china della propria degenerazione, necessita di una rivolta giovanile intensa quanto può esserlo, in senso antropologico, l’abisso del parricidio;

è al governo oggi, in israele, un partito che si fregia della denominazione “potere ebraico”; il programma politico di tale partito, che si avvale di una radicale teologia blasfema, si sta realizzando ora dopo ora nel genocidio di gaza;

“genocidio di gaza, genocidio, “: ciò avviene sotto gli occhi del mondo, e avviene nel segno del più nazionalistico e del più irrazionalistico e del più disumano dei programmi politici; cosa resta oggi della irrinunciabile lezione umanistica di sigmund freud, di albert einstein, di annah arendt, di theodor adorno, di erich fromm, di herbert marcuse? cosa resta oggi della necessità dell’universalismo, unica via di scampo per una umanità che resti degna di via, di verità e di vita?

restano i figli: che quanto prima possano sentirsi fratelli dei bambini e dei giovani di gaza.

da qui

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