Su L’Avvenire del 25 luglio, Andrea Lavazza ha giustamente evidenziato la stridente contraddizione tra la scelta di tenere i colloqui di pace tra Israele e Hamas «su un mega yacht in Costa Smeralda» e la drammatica realtà quotidiana a Gaza, dove si continua a morire di fame e sotto le bombe. Se tali colloqui avessero portato a un accordo concreto, forse il dettaglio sarebbe finito nell’oblio mediatico. Ma l’ennesimo stallo, causato dall’intransigenza sionista, rende quel contesto tanto surreale quanto offensivo per chi subisce la tragedia.
Ciò che
appare francamente incomprensibile è come ad Israele venga sistematicamente
concesso tutto. Non solo da parte dei governi occidentali, ma anche da numerosi
politici e opinionisti pronti a giustificare ogni crimine con il mantra che «è
tutta colpa di Hamas». Premesso che, se davvero l’obiettivo fosse annientare
Hamas, bisognerebbe ammettere il totale fallimento della strategia israeliana:
Hamas non solo non è stata indebolita, ma ha accresciuto la propria legittimità
popolare, mentre l’Autorità Nazionale Palestinese appare sempre più irrilevante
e compromessa.
Ma è proprio
qui il nodo centrale: l’obiettivo reale di Israele non è Hamas, bensì
ridisegnare radicalmente la mappa della regione, liquidando definitivamente la
questione palestinese. Per farlo si usano strumenti che dovrebbero indignare le
coscienze di ogni popolo. Come ha scritto Ugo Tramballi su Il Sole 24
Ore, ‘il ministro della Difesa Israel Katz propone di rinchiudere 600.000
gazawi in una cosiddetta «città umanitaria», da cui non possono uscire,
nell’attesa della loro deportazione. È il linguaggio orwelliano applicato alla
realtà: chiamare «umanitario» ciò che è, di fatto, un campo di concentramento.
Anche i nazisti chiamavano il Ghetto di Varsavia un’“area di raccolta” in
attesa di una soluzione finale’. La storia sembra ripetersi, ma in un
inquietante silenzio complice.
I timidi
segnali che provengono dall’Europa — come la lettera dei 29 ministri degli
Esteri (con l’eccezione della Germania) per la cessazione delle ostilità o le
dichiarazioni del presidente Macron in favore del riconoscimento dello Stato di
Palestina — appaiono inadeguati e tardivi. La realtà è che manca il coraggio
politico per intraprendere azioni concrete. Le manifestazioni popolari, pur in
crescita nonostante la censura e la repressione, vengono ignorate. Nessuno ha
il coraggio di affermare che quello in corso a Gaza non è semplicemente una
guerra: è un genocidio.
Mentre
contro la Russia sono stati adottati ben 18 pacchetti di sanzioni, contro
Israele non si muove foglia. Le nostre aziende continuano a commerciare con uno
Stato che si macchia di crimini contro l’umanità, inclusa la fornitura di armi.
Non dimentichiamo che l’Italia ha una lunga tradizione in tal senso: prima
ancora di Gaza, le bombe italiane hanno mietuto vittime tra i bambini yemeniti.
In questo
scenario desolante, l’unico strumento che abbiamo concretamente a disposizione
è la nostra voce, la nostra mobilitazione, la nostra pressione dal basso. Come
ricordato dalla Relatrice Speciale ONU Francesca Albanese, è fondamentale
continuare la campagna di boicottaggio nei confronti di Israele. L’obiettivo è
spezzare l’impunità sistemica di cui gode Tel Aviv, anche a costo di subire
repressioni crescenti. Emblematico è il caso di Gabriele Rubini (Chef Rubio),
vittima di un intervento di polizia per le sue posizioni critiche, mentre non
si è fatta piena luce sull’aggressione che subì.
Più la
repressione diventa capillare, più chi dissente viene colpito, più è necessario
rafforzare la nostra determinazione. Boicottare Israele, denunciare la
complicità dei governi, informare l’opinione pubblica e sostenere la causa
palestinese sono azioni che possiamo e dobbiamo continuare a mettere in atto.
Il silenzio è complicità. La solidarietà è lotta. E la giustizia, prima o poi,
chiederà conto di tutto questo.
Nessun commento:
Posta un commento