martedì 2 settembre 2025

La maschera dell’umanitarismo e l’indifferenza occidentale: Gaza tra genocidio e complicità - Marco Pondrelli

 

Su L’Avvenire del 25 luglio, Andrea Lavazza ha giustamente evidenziato la stridente contraddizione tra la scelta di tenere i colloqui di pace tra Israele e Hamas «su un mega yacht in Costa Smeralda» e la drammatica realtà quotidiana a Gaza, dove si continua a morire di fame e sotto le bombe. Se tali colloqui avessero portato a un accordo concreto, forse il dettaglio sarebbe finito nell’oblio mediatico. Ma l’ennesimo stallo, causato dall’intransigenza sionista, rende quel contesto tanto surreale quanto offensivo per chi subisce la tragedia.

Ciò che appare francamente incomprensibile è come ad Israele venga sistematicamente concesso tutto. Non solo da parte dei governi occidentali, ma anche da numerosi politici e opinionisti pronti a giustificare ogni crimine con il mantra che «è tutta colpa di Hamas». Premesso che, se davvero l’obiettivo fosse annientare Hamas, bisognerebbe ammettere il totale fallimento della strategia israeliana: Hamas non solo non è stata indebolita, ma ha accresciuto la propria legittimità popolare, mentre l’Autorità Nazionale Palestinese appare sempre più irrilevante e compromessa.

Ma è proprio qui il nodo centrale: l’obiettivo reale di Israele non è Hamas, bensì ridisegnare radicalmente la mappa della regione, liquidando definitivamente la questione palestinese. Per farlo si usano strumenti che dovrebbero indignare le coscienze di ogni popolo. Come ha scritto Ugo Tramballi su Il Sole 24 Ore, ‘il ministro della Difesa Israel Katz propone di rinchiudere 600.000 gazawi in una cosiddetta «città umanitaria», da cui non possono uscire, nell’attesa della loro deportazione. È il linguaggio orwelliano applicato alla realtà: chiamare «umanitario» ciò che è, di fatto, un campo di concentramento. Anche i nazisti chiamavano il Ghetto di Varsavia un’“area di raccolta” in attesa di una soluzione finale’. La storia sembra ripetersi, ma in un inquietante silenzio complice.

I timidi segnali che provengono dall’Europa — come la lettera dei 29 ministri degli Esteri (con l’eccezione della Germania) per la cessazione delle ostilità o le dichiarazioni del presidente Macron in favore del riconoscimento dello Stato di Palestina — appaiono inadeguati e tardivi. La realtà è che manca il coraggio politico per intraprendere azioni concrete. Le manifestazioni popolari, pur in crescita nonostante la censura e la repressione, vengono ignorate. Nessuno ha il coraggio di affermare che quello in corso a Gaza non è semplicemente una guerra: è un genocidio.

Mentre contro la Russia sono stati adottati ben 18 pacchetti di sanzioni, contro Israele non si muove foglia. Le nostre aziende continuano a commerciare con uno Stato che si macchia di crimini contro l’umanità, inclusa la fornitura di armi. Non dimentichiamo che l’Italia ha una lunga tradizione in tal senso: prima ancora di Gaza, le bombe italiane hanno mietuto vittime tra i bambini yemeniti.

In questo scenario desolante, l’unico strumento che abbiamo concretamente a disposizione è la nostra voce, la nostra mobilitazione, la nostra pressione dal basso. Come ricordato dalla Relatrice Speciale ONU Francesca Albanese, è fondamentale continuare la campagna di boicottaggio nei confronti di Israele. L’obiettivo è spezzare l’impunità sistemica di cui gode Tel Aviv, anche a costo di subire repressioni crescenti. Emblematico è il caso di Gabriele Rubini (Chef Rubio), vittima di un intervento di polizia per le sue posizioni critiche, mentre non si è fatta piena luce sull’aggressione che subì.

Più la repressione diventa capillare, più chi dissente viene colpito, più è necessario rafforzare la nostra determinazione. Boicottare Israele, denunciare la complicità dei governi, informare l’opinione pubblica e sostenere la causa palestinese sono azioni che possiamo e dobbiamo continuare a mettere in atto. Il silenzio è complicità. La solidarietà è lotta. E la giustizia, prima o poi, chiederà conto di tutto questo.

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