È oggi d’estrema evidenza la necessità di aprire cammini verso una dimensione comunitaria e collettiva della vita e non solo umana. Scrivo queste parole mentre cerco di compiere, a modo mio, questo cammino, anche se spesso mi viene il dubbio di segnar tracce sulla sabbia di fronte a un mare sempre più cupo…
È in atto e ben visibile una distruzione della vita in quanto tale sotto la
sferza del dominio assoluto del valore di scambio, nato nella Cultura europea
fa XVI e XVII secolo per venir imposto ovunque. Il genocidio di Gaza ne è la
manifestazione di fronte al mondo senza nessuna mediazione (e con troppo modeste
forme di resistenza). Il ministro israeliano Bezalel Smotrich ha detto “La
striscia è un Eldorado da spartire con gli Usa”. Si tratta di una frattura
nella continuità storica mai avvenuta prima: l’eliminazione attuale e
tendenziale di un intero popolo, giuridicamente chiamata genocidio1, viene eseguito di fronte al mondo intero.
“Genocidio” è una parola ormai giornalisticamente banale.
Primo Levi, nell’introduzione a I sommersi e i salvati, ricorda
il “cinico ammonimento” dei militi SS: “E quando anche qualche prova dovesse
rimanere [delle camere a gas], e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà
che i fatti che voi raccontate sono talmente mostruosi per essere creduti: dirà
che sono esagerazioni della propaganda alleata, e crederà a noi che negheremo
tutto”2.
Quello che sta quotidianamente accadendo a Gaza dal 7 ottobre del 2023
proclama, invece, pubblicamente che le popolazioni e i singoli non
utili a un potere, la cui matrice è l’economia di mercato, ovvero il
capitalismo, possono essere eliminati: uccisi o spostati come pacchi
inutili per essere abbandonati in qualche luogo remoto.
Questa violenza radicale era in germe nella violenza originaria del
nascente capitalismo in Europa, con la sottrazione dei beni di uso collettivo e
la violenza contro tutti i gruppi sociali considerati improduttivi e,
contemporaneamente, in forme ab origine largamente
“genocidarie”, nella conquista europea del resto del mondo.
Dopo la seconda guerra mondiale, questa consapevolezza si era attenuata e
anche culturalmente rimossa, in quella fase storica che possiamo chiamare
“socialdemocratica”, legata anche alla diffusione di dinamiche sociali di
contestazione e di lotta.
Oggi, senza più alcun velame giustificatorio, chi non è utile al sistema
del potere economico può essere tolto di mezzo.
Stiamo entrando in una nuova fase della storia del mondo, che indicherei
come una sorta di atroce sintesi di vecchio e di nuovo. Vecchio: perché ultimo
frutto velenoso dell’esasperazione della cultura dell’individualismo
concorrenziale che porta alla lotta di tutti contro tutti; una società della
concorrenza è una società concepita come lotta per vivere e sopravvivere, è una
società che porta nelle sue viscere la solitudine e la guerra. Nuovo, perché è
ormai scomparsa ogni copertura ideologica, ad esempio l’ideologia dei “diritti
umani”, ma soprattutto perché il potere capillare intrinseco alle dinamiche
economiche sta ormai palesemente distruggendo la vita intera, senza più
contrasti efficaci, limiti o cautele.
Ci sono qua e là resistenze, lotte e anche tentativi d’innovazione, ma al momento non in
grado di contrastare veramente il processo distruttivo dell’equilibrio
essenziale alla vita, così come la conosciamo, che appare sempre più
inesorabile. L’intera natura – l’ambito del nascere per tutti i viventi – è
coinvolta in un illimitato processo di mercificazione, ovvero di distruzione
funzionale al capitalismo. Bisogna prendere atto che questa cultura, nel suo
sviluppo incontrollato e che ormai appare incontrollabile, sta distruggendo le
basi della vita.
Occorre far risuonare nella sua profondità originaria una parola, resa
banale, come “natura”: la vita è la temporalità del nascere, del crescere e del finire. Finisce un
percorso di vita per dar seguito ad un altro: il nascere e il morire,
l’iniziare e il finire, costituiscono due facce di una sola dinamica vitale e,
nel caso umano, storica.
Detto in termini più astratti, la vita si articola nel ciclo di
riproduzione e produzione (produzione del necessario alla riproduzione, il
nutrimento), ma è ormai storicamente lanciata verso la rottura dell’equilibrio
fra queste due dinamiche fondanti. Siamo, infatti, catturati da un processo in
cui la produzione si sta mangiando la riproduzione, perché il fine ultimo della
riproduzione è diventato la produzione di oggetti che non sono necessari o
anche utili alla riproduzione, al contrario, molto spesso nocivi, servono
soltanto alla loro trasformazione in valore di scambio, in denaro, peraltro
dissolto ormai in meccanismi finanziari. Potere allo stato puro, sganciato da
ogni fine che non sia uno smisurato impulso ad invadere – a divorare – ogni
anfratto vitale.
Questa dinamica illimitata di potere ha oggi, nel genocidio pubblico di Gaza,
la sua proclamazione, locale ma con valenza generale: non c’è più alcun
limite a un potere che si manifesta come trasformazione della vita in merce,
ossia in valore di scambio fine a sé stesso. È l’instaurazione di un illimitato
dominio antropologico sulla vita – ma di cui responsabile è solo una piccola
parte degli umani -, che sta mettendo in crisi l’equilibrio della vita stessa.
Oggi noi non possiamo più avere un immaginario e quindi neanche delle
rappresentazioni del futuro. Possiamo avere speranze e desideri per il futuro,
senza però un rapporto con la dinamica storica effettiva e quindi con possibili
alternative. Ciò significa che è avvenuta, per la prima volta nella storia, una
rottura a livello mondiale della trasmissione fra le generazioni, una rottura
della narrazione storica, cioè del senso stesso della vita, sociale e
singolare: un genitore oggi non può prefigurare al figlio il mondo in
cui vivrà da adulto. Oggi mettere al mondo un figlio è qualcosa di diverso
da ieri: un bambino è gettato in un mondo, le cui dinamiche future ci sono
ignote. In tal modo la vita storica tende a perdere senso: per quel che
riguarda i singoli, sembra evaporare in un pulviscolo caotico di
cunicoli individuali, di drammi di sopravvivenza, coinvolti e sconvolti da
lotte mondiali di potere.
È necessario allora, per ridare senso alla nostra vita e a quella dei
nostri figli e delle generazioni future, scavare a fondo. Il compito
antropologico, storico, politico di ridare senso alla vita deve partire dalla
consapevolezza che la vita e la morte non sono contrapposte, come la cultura
moderna dell’Occidente vuol imporre, ma sono complementari – altre culture
dall’Occidente distrutte o recluse lo sapevano. Ciò significa fondare un
orizzonte narrativo politico, quindi comunitario, nel quale accogliere il
transito generazionale: la morte. È questo il fondamento di una vita storica
comunitaria.
Accogliere la finitezza di ogni singola vita come intrinseca portatrice di
un messaggio del proprio transito vitale da lasciare agli altri, a chi resta e
a chi nasce, vuol dire creare le condizioni della trasmissibilità fondamento
della storia in quanto comunicazione fra le generazioni.
Questo è il tratto, che si può chiamare “ontologico”, alla base della
dimensione comunitaria della vita, che l’umano potrebbe e dovrebbe esaltare,
mentre ha finito con l’esaltare un’altra dimensione, che pur nella vita esiste:
la predazione.
Il capitalismo, accentuando al massimo il fenomeno predatorio contenuto in
natura entro limiti certi, ha finito con il contrapporre la morte al contesto
della vita e della storia. Ha annullato la funzione culturale della morte: il
passaggio del testimone nel tempo della narrazione storica, il passaggio
comunicativo fra le generazioni. Ha reso la morte soverchiante e distruttiva
per il tramite di una illimitata espansione dell’umana capacità di agire,
divenuta predazione della vita stessa. Ha modificato, in tal modo, le basi
stesse della vita, riducendola a materiale da predazione: consumare la vita
invece di alimentarla: una dinamica tendenzialmente suicida.
Questo è accaduto nel contesto di una complessa dinamica storica di
rimozione dell’angoscia propria della condizione umana: l’angoscia per la morte
che abita ogni vivente umano e la cui elaborazione è stata il fondamento di
tutte le culture: dalle prime mitologie alle religioni più complesse.
Rimozione è il contrario di elaborazione.
Sembra opportuno un rapidissimo cenno storico.
Questo percorso storico di rimozione è sorto in Europa, principalmente, nei
meandri della corrente calvinista della Riforma del cristianesimo agli inizi di
ciò che chiamiamo “epoca moderna” (XVI-XVII secolo). Sommariamente: sotto la
spinta iniziale del bisogno di capire il misterioso disegno divino sulla
condizione umana – chi sarà salvato e chi perduto3 – il calvinismo poneva il senso e lo scopo della
vita nell’affermazione sociale, intesa ormai in termini individuali e non
comunitari, che si veniva rapidamente identificando con il successo sociale,
cioè in definitiva economico, sciolto infine da ogni connotazione religiosa. La
vita e l’opera di Benjamin Franklin, il cui volto appare esemplarmente sulla
banconota da cento dollari, offre una narrazione perfettamente adeguata di
questo fondamentale passaggio storico nell’affermazione di una vita operosa
tutta dedita, con incrollabile serenità, all’”onesto guadagno”. Nel 1787
scrive: “Più vivo, più colgo prove convincenti di questa verità, ovvero che è
Dio a governare le umane faccende”; ma per il tramite del denaro quale
controllo e misura del tempo4: “il tempo è denaro”, “il denaro è di sua natura
fecondo e produttivo”. In Franklin, infatti, si può leggere con grande
chiarezza il capillare lavoro di rimozione dell’angoscia nell’operatività
quotidiana: il denaro usurpando e sterilizzando la misteriosa e drammatica
fecondità della vita, riducendola alla misura quantitativa, produce un ordine
astratto ma rassicurante e una garanzia di controllo del futuro che trova nella
“Rivoluzione“ americana l’esempio più caratteristico5.
Lo ribadisce molto bene un’ulteriore considerazione dei nostri giorni: “La
Banca Mondiale ha fatto sua la teoria dell’economista peruviano Hernan de Soto
secondo cui solo il denaro è produttivo, mentre la terra in sé è sterile e se
utilizzata per la sussistenza è causa di povertà…”6.
Il denaro viene visto come garanzia di vita e, almeno, sopravvivenza. Ma
oggi possiamo capire che è vero esattamente il contrario.
L’atteggiamento di sereno distacco di Franklin non è alternativo alla
violenza più estrema. Ne possiamo trovare un esempio estremamente significativo
un secolo prima, proprio nel pieno di quella rivoluzione calvinista in
Inghilterra, che è alla base di questa dinamica storica, nell’invasione
dell’Irlanda da parte del New Modern Army guidato da Cromwell.
La violenza estrema, giunta fino al genocidio, e la serena operosità di
ogni giorno sono perfettamente complementari, come il fascismo e la
socialdemocrazia, dinamiche diverse ma che perseguono lo stesso scopo7.
Oggi, nella fase di violento neoliberismo che sta imperversando senza più
alcun limite, possiamo ben dire che, abbandonato ogni tipo di giustificazione,
il mero potere del valore di scambio indica pienamente il valore, ovvero il
grado di potere, di un individuo o di un gruppo.
Importante, però, è cercar di comprendere le origini di un fenomeno storico
che oggi sembra ormai privo di ogni capacità di autocontrollo.
In tale contesto, di cui ho sommariamente accennato la matrice storica,
l’impegno con il nuovo fenomeno migratorio, nato e sviluppato da circa
un ventennio, è un punto fondamentale d’azione e d’osservazione.
Dato che chi scrive è un cittadino europeo, mi riferisco soprattutto al
comportamento degli Stati europei e “occidentali” in cui, – sotto l’affaticata
egemonia degli Usa -, appaiono senza veli l’indifferenza per la vita e la
supremazia indiscutibile del valore di scambio8, accompagnati dalla fine di tutto ciò che si
raccoglieva storicamente sotto l’etichetta “diritto”.
L’indifferenza per le decine di migliaia di morti migranti in Mediterraneo,
e anche nei Balcani, il cinico ma tradizionale uso politico del razzismo – e,
in particolare ricadendo in casa nostra, la complicità dell’attuale governo,
con le bande criminali libiche, esemplificato dal “caso Almasri” – sono stati
un passaggio fondamentale verso il salto israeliano nell’abisso di un futuro
che si preannuncia catastrofico.
Questi morti indifferenti sono un esercizio della libertà di uccidere il
cui culmine “osceno” – ma di un fuori scena sbattuto brutalmente in scena – si
manifesta quotidianamente a Gaza: Israele è l’avanguardia
sperimentatrice di un capitalismo ormai pienamente epidemico.
Dire “catastrofico”, però, non implica aggiungere anche l’aggettivo
“inevitabile”: l’impegno, ad esempio, di coloro che si riconoscono intorno
all’incontro quotidiano con i migranti della Rotta balcanica nella piazza della
stazione di Trieste – la “Piazza del Mondo” – vuol proprio essere un tentativo
di iniziare una pratica meditativa di costruzione politica di relazioni
comunitarie, nel rifiuto di ogni forma di delega a qualsivoglia
pretesa di rappresentanza. Si tratta di iniziare a costruire resistenza sociale
a partire dal rapporto con l’altro basato sulla costruzione di forme
comunitarie unite dalla reciprocità della cura, prevedendo in futuro anche
possibili nuove forme di lotta: è necessario essere consapevoli che siamo
ormai in una nuova diffusa forma di Terza guerra mondiale, che non è esagerato
chiamare guerra contro la vita. Il nostro compito oggi, concreto e quotidiano,
sta nel raccogliere il messaggio inciso dalla violenza delle frontiere sui
corpi umiliati e offesi dei migranti, corpi memori delle violenze genocide di
secoli di colonialismo, ma che ci indicano anche un futuro di devastazione
dell’equilibrio vitale. Ciò implica il coinvolgimento in un impegno che
è politico nella precisa misura in cui è diventato ormai, sic et simpliciter,
un impegno per la vita.
1 Ho qualche remora a usare il termine “genocidio”, nato in ambito
giuridico e fortemente segnato da questa origine in termini di potere.
2 Primo Levi, I sommersi e i salvati, in Opere Complete,
vol. II, Einaudi 2016, p. 1147.
3 Questa è la lettura di Weber nell’Etica protestante e lo
spirito del capitalismo, 1904-1905.
4 D. Sassoon, Rivoluzioni. Quando i popoli cambiano la storia,
Garzanti, Milano 2024, p. 110.
5 Un articolo di Francesco Raparelli, sul “Manifesto” del 13 marzo
2025, p. 15, intitolato “Musk innovatore nel solco della storia
Usa”, tenta un collegamento storico fra una figura come quella di Elon Musk
e la storia statunitense di cui Franklin è figura esemplare, proprio in
riferimento al testo di Sassoon.
6 Silvia Federici, Reincantare il mondo. Femminismo e politica
dei commons, Ombre corte, Verona 2018, p.28. LEGGI ANCHE:
7 È necessario però ricordare che all’epoca di Cromwell sorsero anche
i Levellers e altri movimenti di contestazione radicale e di
scelte comunitarie.
federici8 Da notare il lucido conciso articolo di Chiara Mattei ‘Austerità,
militarismo, censura: Trump ci mostra il loro legame’ sul “Fatto
quotidiano” del 18 agosto, p. 12
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