sabato 31 maggio 2025

Suonare Mozart costa, oggi più di ieri - Gaetano Lamanna

 

Le critiche di un noto attore, Elio Germano, e di una brava conduttrice televisiva, Geppi Cucciari, al ministro della cultura Alessandro Giuli, accusato di fare poco o niente per la crisi del cinema, sono state dai media derubricate a gossip o, al massimo, a una questione di tax credit, uno strumento del tutto insufficiente, che serve a finanziare solo in parte i costi delle produzioni cinematografiche. Nei commenti di stampa non viene rilevato che la polemica si inserisce in un quadro grave di attacchi del governo in carica, a partire dalla presidente Meloni, alla nostra democrazia, alla libertà di espressione di giornalisti, magistrati, intellettuali, al diritto di manifestazione, all’equilibrio dei poteri. La reazione scomposta e nervosa del ministro Giuli è segno di una difficoltà a dare risposte, aprendo un tavolo di confronto, a una protesta che monta ed esprime un diffuso disagio dei lavoratori dell’industria cinematografica di fronte a pratiche discrezionali e clientelari nella gestione dei contributi e dei prestiti, alla compressione salariale, alle condizioni di precarietà, alla disoccupazione crescente.

Si sta affermando la consapevolezza delle ricadute negative (finanziarie e sociali) delle nuove tecnologie cognitive. La crisi di importanti settori della produzione culturale – non solo scuola, università, ricerca, editoria, ma anche teatro, musica, danza e i diversi campi delle performing arts – dipende in gran parte dall’uso incontrollato e senza regole dei mutamenti tecnologici. Storicamente la scienza e la sua applicazione tecnica hanno dato un impulso formidabile al progresso umano, civile ed economico. Ma la particolarità dell’informatica e dell’intelligenza artificiale (AI), basate sugli algoritmi e sulla potenza di calcolo, è di essere tecnologie che, nel loro progredire, sostituiscono il lavoro umano, distruggono interi settori dell’economia e del commercio, desertificano i rapporti umani di intere comunità. Sta anche qui, nell’incapacità di risolvere la contraddizione che si è determinata tra lo straordinario avanzamento scientifico e tecnologico e lo spaventoso arretramento sociale e civile che ci circonda, il fallimento del modello di sviluppo capitalistico. Imprese tecnologiche che dovrebbero offrire “servizi di interesse generale” e contribuire al benessere sociale sono piegate alla logica privatistica del massimo profitto, gestite da signori tanto attenti ad accumulare soldi e potere quanto incuranti delle pesanti ricadute sulla società. Il grande tema della democrazia torna ancora nel suo rapporto irrisolto con la tecnica.

Alle proteste e al movimento d’opinione di questi giorni bisogna esprimere solidarietà, ma indicare anche una strada percorribile. L’obiettivo potrebbe essere l’istituzione di un fondo pubblico, ottenuto tramite un’adeguata tassazione dei consistenti profitti aziendali derivanti dall’uso delle nuove tecnologie. Le risorse sarebbero a disposizione sia di chi perde il lavoro, garantendo un reddito dignitoso, e sia, soprattutto, di quegli imprenditori del settore che intendono rimanere sul mercato. Ai soliti opinionisti di regime che dovessero storcere il naso e tacciare questa proposta di ripercorre vecchie strade assistenzialistiche, vorrei ricordare che è stato William Baumol, un grande economista liberale – di origine polacca, vissuto negli Stati Uniti, purtroppo poco conosciuto in Italia – a studiare per primo le cause dell’andamento crescente dei costi di alcuni servizi e a indicare le possibili soluzioni. Baumol ha elaborato un modello teorico, da lui definito della “malattia da costi”, che ha spiegato in modo semplice e sorprendente: il tempo di esecuzione di mezz’ora di Mozart del XVIII secolo richiede oggi esattamente la stessa quantità di tempo e lo stesso numero di musicisti. Un’ora di lavoro produce oggi cento volte più orologi che all’epoca di Mozart, ma un’ora di arpeggio produce altrettanto Mozart di quando lui era vivo. Ciò significa che un concerto di Mozart, ai giorni nostri, costa cento volte più orologi che in quell’epoca. I concerti, la danza, il teatro, gli spettacoli dal vivo, a differenza della produzione manifatturiera, richiedono gli stessi addetti di un secolo fa, ma con costi molto più elevati. Il differenziale di produttività tra le attività industriali e quelle artistico-culturali è cresciuto in modo esponenziale, ma poiché i salari nel settore artistico sono correlati a quelli del resto dell’economia, ne consegue che il costo per spettacolo deve crescere ad un tasso più alto di quello rilevabile in tutti gli altri settori a più alta produttività. Alcune attività hanno la caratteristica di essere refrattarie alla crescita della produttività e, dunque, per Baumol, spetta allo Stato intervenire con misure fiscali che consentano di reperire risorse dai settori a più elevata produttività al fine di coprire i maggiori costi di alcuni settori e servizi fondamentali della vita pubblica. A meno che non si vogliano mantenere costanti i salari nei settori stagnanti, eventualità questa certamente non proponibile.

Le considerazioni finora svolte a proposito delle attività culturali e delle performing arts, valgono, sia pure in termini diversi, per la sanità, per l’istruzione, per l’assistenza agli anziani o all’infanzia, per i trasporti pubblici locali, per la manutenzione urbana. Per tutti questi settori vengono richieste competenze e attenzione personale, talento e creatività. Facoltà tipicamente umane, difficilmente sostituibili dall’AI. Tuttavia è da prendere molto sul serio la preoccupazione e l’allarme per la perdita di posti di lavoro nei settori legati all’attività intellettuale perché si coglie già l’impatto negativo dell’introduzione delle tecnologie cognitive nei processi di produzione. Il rapporto con le nuove tecnologie è quindi lo scoglio da superare per le attività a bassa produttività e ad alta intensità di lavoro.

Un fatto è certo: i concerti, gli spettacoli, i lavori di cura e di assistenza, richiedono tempi difficilmente comprimibili, checché ne pensino i cultori dell’efficienza a tutti i costi. La diffusione dei sensori, della telemedicina o dei videogiochi non potrà mai competere con la preparazione, l’attenzione personale e l’attitudine specifica richieste agli operatori della sanità, dell’assistenza agli anziani o all’infanzia. In alcuni settori, quindi, il progresso tecnico non può determinare più di tanto la contrazione dei costi. Per parlare di un caso limite, nelle scuole materne ed elementari, dove si è passati da uno a più insegnanti per classe, la produttività per addetto è addirittura diminuita. Purtroppo i governi hanno commesso l’errore di finanziare alcuni servizi pensando che la loro efficienza e produttività sia in relazione con i mutamenti tecnologici. Ma in realtà, mentre il settore manifatturiero si avvantaggia della tecnologia per ridurre la componente umana (e i costi che essa comporta), i settori dello spettacolo, della cultura, della sanità, non possono ridurre il numero di chi ci lavora e le loro retribuzioni, pena lo scadimento delle prestazioni. E la stabilità degli stanziamenti, se non una loro riduzione o una crescita in termini nominali, non costituisce quindi un segnale di buon governo.

Le difficoltà finanziarie del bilancio pubblico, insieme a un uso scriteriato dei fondi disponibili, minacciano ormai la qualità della vita e suggeriscono l’impressione che servizi d’importanza vitale siano preclusi alla maggior parte della popolazione, eccezion fatta per le famiglie più facoltose. Se si accetta, però, l’interpretazione basata sul divario di produttività e della crescita dei costi nei servizi, la soluzione potrebbe consistere nell’assegnare parte della crescita della produttività ottenuta nel settore dinamico dell’economia ai servizi caratterizzati da produttività stagnante. Trasferire una certa quantità di risorse dai settori a produttività crescente in quelli della produzione dei “servizi stagnanti” è la condizione per avere più cure sanitarie, più assistenza all’infanzia e alla terza e quarta età, più manutenzione urbana, più cultura e arte. Ci possiamo insomma permettere il costo degli stagnant services, che implicano processi di produzione intrinsecamente non standardizzabili e che presuppongono lavoro manuale e intellettuale, oltre che attenzione personale. La leva fiscale è lo strumento di questo trasferimento di risorse, e sarebbe bene superare luoghi comuni e vecchi schemi che portano a “premiare” fiscalmente i settori ad alta tecnologia e ad alta produttività che poi, oltre a fare record di utili, sono gli stessi che riducono forza-lavoro.

La lezione di Baumal è più che mai attuale. Il caso della sanità pubblica mostra chiaramente che il mancato aumento della spesa equivale a un de-finanziamento del servizio, con una conseguente caduta qualitativa. In Italia l’introduzione di logiche e criteri aziendalistici negli ospedali e nelle attività legate alla cura delle persone, ha procurato danni incalcolabili, ha coperto sprechi e disservizi, testimonia in concreto la débâcle dell’ideologia liberista (“meno Stato più mercato”). Esistono certamente carenze gestionali da superare, sapendo però che non sono queste a determinare l’esplosione dei costi del servizio. Non c’è più tempo da perdere. Bisogna costruire e dare continuità ad un movimento che lotti perché la leva fiscale colmi il differenziale dei costi di alcuni settori, migliorandone la qualità. Dipende però dalla politica, dai rapporti di forza, dai diversi interessi in campo, definire misure di bilancio e modalità di spesa che sappiano rapportarsi al benessere collettivo e alle mutevoli esigenze di una società moderna.

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INCENDI sospetti a casa STARMER: C’entra MOSCA? George GALLOWAY fa il punto su UK, UCRAINA e PUTIN

 

venerdì 30 maggio 2025

Sul panico morale e il coraggio di parlare - Ilan Pappé

Il silenzio dell’Occidente su Gaza

Le reazioni del mondo occidentale alla situazione nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania sollevano una domanda inquietante: perché l’Occidente ufficiale, e in particolare l’Europa Occidentale ufficiale, è così indifferente alle sofferenze dei palestinesi?

Perché il Partito Democratico negli Stati Uniti è Complice, direttamente e indirettamente, nel sostenere la Disumanità quotidiana in Palestina, una Complicità così evidente che probabilmente è stata una delle ragioni per cui ha perso le elezioni, poiché il voto arabo-americano e progressista negli Stati chiave non poteva, e giustamente, perdonare all’amministrazione Biden il suo ruolo nel Genocidio nella Striscia di Gaza?

Questa è una domanda pertinente, dato che abbiamo a che fare con un Genocidio trasmesso in diretta che ora si è rinnovato sul campo. È diverso dai periodi precedenti in cui l’indifferenza e la complicità occidentale sono state dimostrate, sia durante la Nakba che nei lunghi anni di Occupazione dal 1967.

Durante la Nakba e fino al 1967, non era facile reperire informazioni e l’oppressione successiva al 1967 è stata per lo più graduale e, come tale, ignorata dai media e dalla politica occidentale, che si sono rifiutati di riconoscerne l’effetto cumulativo sui palestinesi.

Ma questi ultimi diciotto mesi sono molto diversi. Ignorare il Genocidio nella Striscia di Gaza e la Pulizia Etnica in Cisgiordania può essere descritto solo come intenzionale e non per ignoranza. Sia le azioni degli israeliani che il linguaggio che le accompagna sono troppo visibili per essere ignorati, a meno che politici, accademici e giornalisti non scelgano di farlo.

Questo tipo di ignoranza è, prima di tutto, il risultato di un’efficace attività di pressione israeliana, prosperata sul terreno fertile del complesso di colpa, del Razzismo e dell’islamofobia europei. Nel caso degli Stati Uniti, è anche il risultato di molti anni di un’efficace e spietata macchina di pressione a cui pochissimi nel mondo accademico, nei media e, in particolare, in politica osano disobbedire.

Questo fenomeno è noto nella ricerca recente come Panico Morale, molto caratteristico delle fasce più coscienziose delle società occidentali: intellettuali, giornalisti e artisti.

Il Panico Morale è una situazione in cui una persona ha paura di aderire alle proprie convinzioni morali perché ciò richiederebbe un certo coraggio che potrebbe avere conseguenze. Non sempre veniamo messi alla prova in situazioni che richiedono coraggio, o almeno integrità. Quando accade, è in situazioni in cui la moralità non è un’idea astratta, ma un invito all’azione.

Ecco perché così tanti tedeschi rimasero in silenzio quando gli ebrei vennero mandati nei Campi di Sterminio, ed ecco perché gli americani Bianchi rimasero a guardare quando gli afroamericani vennero linciati o, ancora prima, ridotti in Schiavitù e maltrattati.

Qual è il prezzo che importanti giornalisti occidentali, politici veterani, professori di ruolo o amministratori delegati di note aziende dovrebbero pagare se dovessero incolpare Israele di aver commesso un Genocidio nella Striscia di Gaza?

Sembra che siano preoccupati per due possibili esiti. Il primo è essere condannati come antisemiti o negazionisti dell’Olocausto; il secondo è che temono che la loro risposta onesta inneschi una discussione che includerà la complicità del loro Paese, dell’Europa o dell’Occidente in generale, nel favorire il Genocidio e tutte le Politiche Criminali contro i palestinesi che lo hanno preceduto.

Questo Panico Morale porta ad alcuni fenomeni sorprendenti. In generale, trasforma persone istruite, eloquenti e competenti in perfetti imbecilli quando parlano della Palestina. Impedisce ai membri più perspicaci e riflessivi dei servizi segreti di esaminare le richieste israeliane di includere tutta la Resistenza palestinese in una lista di terroristi, e Disumanizza le vittime palestinesi nei media convenzionali.

La mancanza di un minimo di compassione e solidarietà nei confronti delle vittime del Genocidio è stata messa a nudo dai doppi criteri mostrati dai tradizionali media occidentali, e in particolare dai giornali più affermati negli Stati Uniti, come il New York Times e il Washington Post.

Quando il direttore del Palestine Chronicle, Ramzy Baroud, perse 56 membri della sua famiglia, uccisi dalla Campagna Genocida israeliana nella Striscia di Gaza, nessuno dei suoi colleghi giornalisti americani si degnò di parlare con lui o di mostrare interesse per questa atrocità. D’altra parte, un’accusa inventata da Israele di un legame tra il Chronicle e una famiglia nel cui condominio erano stati tenuti degli ostaggi suscitò un enorme interesse da parte di queste testate e catturò la loro attenzione.

Questo squilibrio di Umanità e Solidarietà è solo un esempio delle distorsioni che il Panico Morale porta con sé. Ho pochi dubbi che le azioni contro studenti palestinesi o filo-palestinesi negli Stati Uniti, o contro noti attivisti in Gran Bretagna e Francia, così come l’arresto del direttore di The Electronic Intifada, Ali Abunimah, in Svizzera, siano tutte manifestazioni di questo comportamento morale distorto.

Un caso simile si è verificato di recente in Australia. Mary Kostakidis, famosa giornalista australiana ed ex presentatrice di SBS World News Australia, un programma settimanale in prima serata, è stata portata davanti alla Corte Federale per il suo servizio – piuttosto insipido, si potrebbe dire – sulla situazione nella Striscia di Gaza. Il fatto stesso che la Corte non abbia respinto subito questa accusa dimostra quanto sia radicato il Panico Morale nel Nord del mondo.

Ma c’è un’altra faccia della medaglia. Per fortuna, esiste un gruppo molto più ampio di persone che non ha paura di correre i rischi impliciti nel dichiarare apertamente il proprio sostegno ai palestinesi, e che dimostra questa solidarietà pur sapendo che potrebbe comportare sospensione, deportazione o persino carcere. Non si trovano facilmente nel mondo accademico, nei media o in politica, ma sono la voce autentica delle loro società in molte parti del mondo occidentale.

I palestinesi non possono permettersi il lusso di lasciare che il Panico Morale occidentale esprima la sua voce o abbia un impatto. Non cedere al panico è un piccolo ma importante passo verso la costruzione di una rete globale per la Palestina, di cui c’è urgente bisogno: primo, per fermare la distruzione della Palestina e del suo popolo e, secondo, per creare le condizioni per una Palestina Decolonizzata e Liberata in futuro.

Ilan Pappé è professore all’Università di Exeter. In precedenza è stato docente di scienze politiche presso l’Università di Haifa. È autore del recente Lobbying for Zionism on Both Sides of the Atlantic (Lobbisti per il Sionismo su entrambi i Lati dell’Atlantico) e di The Physical Cleansing of Palestine, The Modern Middle East (La Pulizia Etnica della Palestina, il Medio Oriente Moderno); Una storia della Palestina moderna: una terra, due popoli (Una Storia Della Palestina Moderna: Una Terra, Due Popoli) e Dieci miti su Israele (Dieci Miti su Israele). Pappé è descritto come uno dei “Nuovi storici” israeliani che, dal rilascio dei pertinenti documenti del governo britannico e israeliano all’inizio degli anni ’80, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. (Traduzione: La Zona Grigia

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La vita è una bellissima avventura e un miracolo - Pepe Mujica

Pepe Mujica, il guerrigliero diventato presidente dell’Uruguay, se ne è andato, all’età di 89 anni. Tupamaro dal 1966 è stato poi per 13 anni – dal 1972 al 1985 – in carcere, per lo più un carcere duro in cui ha subito torture che ne hanno minato il fisico. Presidente del suo Paese nel quinquennio 2010-2015 è riuscito a realizzare profonde riforme sociali, a depenalizzare l’aborto, a legalizzare il matrimonio tra omosessuali e a regolarizzare la vendita della marijuana attraverso lo Stato. È stato un personaggio di primo piano del socialismo sudamericano e, soprattutto, un uomo di grande semplicità e coerenza. Non amava il potere: si rifiutò di stabilirsi nel palazzo presidenziale; si spostava su su un vecchio Maggiolino Volkswagen che guidava personalmente; viveva in maniera frugale dando il 90 per cento del suo stipendio a organizzazioni non profit e trattenendo per sé il corrispettivo di circa 800 euro al mese (più – diceva – di quanto guadagnava gran parte dei suoi connazionali); quando considerò chiusa la sua vicenda politica, nel 2020, si ritirò in una piccola casa rurale nella periferia più povera di Montevideo. «Pepe – ha scritto il regista Kusturica, che su di lui ha girato un film – «è l’ultimo eroe politico in un mondo dove i politici parlano di cose che la gente non intende». È stato un socialista anomalo, fuori dagli schemi. Il suo pragmatismo, a differenza di quello di molti socialisti del nuovo secolo, lo rendeva radicale nelle scelte, soprattutto contro il consumismo. L’orizzonte della sua vita era – come amava dire – la felicità, per tutti gli uomini e le donne. Di questa umanità e di questa concezione della vita sono testimonianza le parole che ci ha lasciato poco prima di morire, una sorta di testamento umano e politico, che pubblichiamo di seguito. (la redazione).

 

Sto morendo.
Il cancro all’esofago sta colonizzando il fegato.
Non posso fermarlo con nulla, perché?
Perché sono un uomo anziano e perché ho due malattie croniche.
Non posso permettermi trattamenti immunologici o interventi chirurgici perché il mio corpo non è in grado di affrontarli.
Quando sarà il mio turno di morire, morirò.
È così semplice come te lo dico.
Sono condannato, hermano.
Questo è quanto.
Quello che voglio fare è salutare i miei compatrioti.
È facile avere rispetto per chi la pensa come te, ma devi imparare che il fondamento della democrazia è il rispetto per chi la pensa diversamente.
Per questo motivo la prima categoria è quella dei miei compatrioti, che saluto.
Li abbraccio tutti.
In secondo luogo, saluto i miei colleghi, i miei sostenitori e tutti gli altri.
Sono più di cinque anni che non partecipo a un organismo direttivo.
La realtà sociale e politica non passa dalla mia fattoria.
Quello che vi chiedo è di lasciarmi in pace.
Non chiedetemi più interviste o altro.
Il mio ciclo è finito.
Onestamente, sto morendo.
E il guerriero ha diritto al suo riposo.
La vita è una bellissima avventura e un miracolo.
Siamo troppo concentrati sulla ricchezza e non sulla felicità.
Morirò qui.
Fuori c’è una grande sequoia.
Manuela* è sepolta lì.
Sto preparando i documenti perché possano seppellire lì anche me.
E questo è tutto.

* Manuela era il cane di Mujica che lo ha accompagnato per 22 anni della sua vita.


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giovedì 29 maggio 2025

Chiamare i sionisti per ciò che sono: criminali nazisti

 

articoli di Pasquale Liguori, Paolo Di Mizio, Alessandro Robecchi, Giulio Cavalli, Redazione RedFlag (ripresi da invictapalestina.org, lantidiplomatico.it, alessandrorobecchi.it, lanotiziagiornale.it)

Gaza: non perdonare mai, non dimenticare mai

I sostenitori occidentali di Israele lo sapevano allora e lo sanno ancora oggi. Hanno dato sostegno incondizionato allo Stato sionista, pienamente consapevoli delle sue intenzioni e dei suoi crimini contro l’umanità.

Fonte: English version

 

Gli alti funzionari del governo israeliano sono sempre più sfacciati riguardo al genocidio che stanno portando avanti e alla conclusione che ritengono essere a portata di mano.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato all’inizio di questo mese che l’espulsione forzata dei Palestinesi sarà il “risultato inevitabile” della distruzione di Gaza.

Il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, sostenitore della fame come arma di guerra, ha dichiarato in una conferenza stampa: “Stiamo smantellando Gaza, riducendola a cumuli di macerie, con una distruzione totale [che non ha] precedenti a livello globale. E il mondo non ci ferma”.

L’esercito prevede di costringere i palestinesi a rifugiarsi nel sud di Gaza e poi in paesi terzi. “Questo è un cambiamento del corso della storia, niente di meno”, ha detto Smotrich.

E in un articolo per l’edizione ebraica di Haaretz , l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert, la scorsa settimana ha scritto:

“Quello che stiamo facendo a Gaza è una guerra di sterminio: uccisioni indiscriminate, sfrenate, brutali e criminali di civili. Non lo stiamo facendo a causa di una perdita accidentale di controllo in un particolare settore, né a causa di un’esplosione sproporzionata di combattenti in qualche unità, ma a causa di una politica dettata dal governo, consapevolmente, intenzionalmente, maliziosamente, con sconsiderata indifferenza. Sì, stiamo commettendo crimini di guerra.”

La liquidazione della Striscia di Gaza attraverso la fame, le malattie, i bombardamenti incessanti e il terrorismo rappresenterebbe la soluzione finale di Israele: l’annientamento del centro della vita nazionale palestinese e la ridefinizione della mappa politica del Medio Oriente.

È sempre più chiaro che questo è il crimine del secolo. Non perché abbia generato più morti o sofferenze di altre atrocità, ma perché morte e sofferenza sono state sostenute e giustificate a lungo termine da coloro che affermano di rappresentare il mondo “civile”.

Con questa guerra, tutte le vecchie dicerie dell’era coloniale, presumibilmente “bandite”, sulla civiltà che doma la barbarie, tornano con prepotenza per giustificare il barbaro massacro e la fame di diversi milioni di persone.

La scorsa settimana, i governi di Gran Bretagna, Francia e Canada – convinti sostenitori del genocidio sionista – sono finalmente sembrati vacillare di fronte a una rinnovata offensiva israeliana. In una dichiarazione congiunta, hanno definito intollerabili le condizioni a Gaza.

“Non resteremo a guardare mentre il governo Netanyahu persegue queste azioni atroci. Se Israele non cessa la rinnovata offensiva militare e non revoca le restrizioni sugli aiuti umanitari, adotteremo ulteriori misure concrete in risposta”, hanno dichiarato i tre governi.

Ma si trattava solo di teatralità. Un funzionario israeliano ha dichiarato al quotidiano Haaretz che la pressione pubblica era “tutta parte di un’imboscata pianificata di cui eravamo a conoscenza”.

Netanyahu ha chiarito che la ripresa delle piccole consegne di aiuti alla popolazione affamata di Gaza risponde alla “necessità operativa di consentire l’espansione degli intensi combattimenti” e di scongiurare la pressione internazionale mentre il genocidio continua.

In ogni caso, i politici occidentali non possono certo vantarsi di ignoranza. La storia confuterà inevitabilmente qualsiasi tentativo di riscrivere la loro storia di sostegno a questi crimini.

Fin dall’inizio, nell’ottobre 2023, gli israeliani avevano parlato di distruggere ogni singolo edificio a Gaza. A poche settimane dall’invasione israeliana di terra, i funzionari delle Nazioni Unite avevano lanciato l’allarme: pulizia etnica e potenziale genocidio.

I governi occidentali non solo ignorarono questi avvertimenti, ma fornirono anche il loro appoggio al massacro e continuano ancora oggi a calunniare gli oppositori del genocidio, definendoli razzisti.

Anche i politici israeliani che tenteranno di riscrivere il proprio ruolo in questo evento raccapricciante dovranno affrontare il giudizio della storia.

Yair Golan, leader del partito di opposizione Democratico, in un’intervista alla radio pubblica Kan, ampiamente riportata, ha recentemente affermato che Israele è “sulla strada per diventare uno stato paria, come un tempo lo era il Sudafrica”. Ha poi aggiunto: “Uno stato sano di mente non fa la guerra ai civili, non uccide bambini per hobby e non si pone obiettivi come l’espulsione di una popolazione”.

Ma come tutti i politici che cercano di pararsi le spalle, Golan è coinvolto fino al collo in questi crimini.

“Prima di tutto, dobbiamo interrompere qualsiasi rifornimento a Gaza”, ha dichiarato nell’ottobre 2023. “Penso che in questa guerra non si debba permettere uno sforzo umanitario. Bisognerebbe dire loro: ascoltate, finché non saranno liberati [gli ostaggi], non ci importa se morite di fame. È del tutto legittimo”.

Pochi mesi dopo, nel podcast di Haaretz , ha affermato: “Vorremmo tutti svegliarci una mattina di primavera e scoprire che 7 milioni di palestinesi che vivono tra il mare e il fiume sono semplicemente scomparsi”.

Questa è stata la posizione consolidata dell’establishment israeliano: dal fiume al mare, uno stato etnico ebraico libero dai palestinesi.

I sostenitori occidentali di Israele lo sapevano allora e lo sanno ancora oggi. Hanno dato sostegno incondizionato allo Stato sionista, pienamente consapevoli delle sue intenzioni e dei suoi crimini contro l’umanità.

Anche se la fine si avvicina, continuano a sostenere il governo di Tel Aviv.

Questo non sarà mai dimenticato. E loro non dovranno mai essere perdonati.

Traduzione a cura di Grazia Parolari

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Olocausto in Israele – Paolo Di Mizio

…Il mostro non è solo Netanyahu: è l’insieme della società israeliana, pur con le debite eccezioni. Nell’ottobre 2023 in pieno eccidio (un bimbo palestinese ucciso ogni 10 minuti) un sondaggio dell’Università di Tel Aviv appurò che il 94,1% degli israeliani approvava le stragi e solo l’1,8% le riteneva eccessive. Da un sondaggio di due mesi fa risulta che l’82% della popolazione ebrea è favorevole a una totale pulizia etnica. Come vede, il mostro non è un uomo, è una società dove l’umanità è deragliata e il dibattito pubblico verte sull’eliminazione di un popolo e la supremazia degli ebrei nel mondo. Una società che non rappresenta né la cultura né la religione ebraica ed è disconosciuta da molta della diaspora ebraica. Una società fanatizzata in uno Stato nato da un’ideologia etnico-coloniale-messianica (tale è il sionismo) con il criminale esproprio di terre atavicamente palestinesi. Albert Einstein, ebreo, definì i sionisti “deviati e criminali” (“misled and criminal”). Ripetiamo forte e chiaro ciò che Hajo Meyer, fisico ebreo tedesco-olandese scampato ad Auschwitz, scrisse nel suo libro La fine dell’ebraismo, critica all’olocausto in Israele: “Se vogliamo rimanere umani, dobbiamo alzarci e chiamare i sionisti per ciò che sono: criminali nazisti” (Het Einde van het Jodendom, Amsterdam, 2003).

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Tajani parla alla Camera e intanto Gaza muore – Giulio Cavalli

Nell’informativa urgente alla Camera, il ministro Tajani ha raccontato un’Italia che salva, costruisce e abbraccia. Peccato che sia un racconto. Mentre a Gaza l’accesso agli aiuti è stato bloccato per oltre 80 giorni, Tajani parlava di ricostruzione, di progetti architettonici e borse di studio, come se la fame e i bombardamenti fossero alle spalle. Secondo l’OCHA, nel solo maggio 2025, l’84% del territorio di Gaza risultava evacuato forzatamente, e oltre il 90% delle strutture ospedaliere era fuori uso. Eppure, Tajani celebrava un’Italia attiva, coinvolta, umanitaria.

La realtà? Dal 2022 il governo Meloni ha sistematicamente evitato di sostenere risoluzioni ONU che chiedevano tregue immediate, cessate il fuoco o il riconoscimento dello Stato palestinese. Tajani stesso ha bollato come “slogan da piazza” la proposta di riconoscere la Palestina, mentre il suo esecutivo votava contro l’apertura di una procedura UE per sanzionare Israele per violazioni dei diritti umani. Perfino sulla Corte Penale Internazionale – che ha chiesto un mandato d’arresto per Netanyahu – il ministro ha definito “irrealizzabile” un’azione legale in Italia.

L’unica coerenza è l’adesione alla linea israeliana: si plaude agli aiuti simbolici, ma si proteggono le forniture militari; si parla di pace ma si silenziano le responsabilità. Il discorso di Tajani alla Camera è stato un esercizio di propaganda travestito da diplomazia. Nessuna autocritica, nessun cambio di rotta, nessuna verità. Solo la solita liturgia di chi invoca la ricostruzione per seppellire, con una colata di cemento politico, i corpi che ancora non hanno smesso di morire.

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Gaza. Quando è Marzabotto ogni giorno le coscienze si svegliano tardi – Alessandro Robecchi

A Gaza è Marzabotto tutti i giorni. Ogni giorno – ogni giorno – da 20 mesi ci alziamo alla mattina e sentiamo di un nuovo massacro. Donne e bambini, soprattutto. I medici internazionali (ancora) in servizio a Gaza parlano tutti di cadaveri di piccoli palestinesi colpiti con colpi singoli alla testa o al collo. I bombardamenti avvengono di preferenza in zone indicate ai profughi come sicure: li ammassano per ammazzarli meglio. Scuole che fanno da rifugio vengono incendiate. Gli ospedali vengono colpiti. Le storie singole spuntano ogni tanto dalla mattanza generale, si prendono un titolo, poi si inabissano, si confondono. Anche Auschwitz era pieno di storie singole, affogate nell’orrore collettivo. La fame gestita dall’esercito di invasione e di sterminio è usata come un’arma di guerra, dove non arriveranno le bombe incendiarie arriveranno gli stenti e le malattie. Non c’è acqua, non c’è corrente elettrica, non c’è benzina, le ambulanze e i soccorritori vengono deliberatamente assassinati dall’esercito israeliano. I carnefici sul campo si vantano sui social delle loro imprese criminali, i carnefici della politica, a Tel Aviv, rivendicano le loro decisioni genocide, spingono per la fame e per il massacro, per la deportazione di un intero popolo e per il suo sterminio. Sono cose note da un anno e mezzo, cose che si fingeva di non vedere.

Per 20 lunghissimi mesi, qui – qui in Italia – ha trionfato una neo-lingua schifosa e negazionista, quella per cui i palestinesi, misteriosamente, “morivano”, a volte addirittura “uccisi dalla guerra”, come se un genocidio fosse una specie di incidente stradale. Le stragi quotidiane finivano in un trafiletto nascosto, o nelle ultime righe degli articoli, con un penoso trucco giornalistico: “Intanto a Gaza…”. Nel frattempo, la grandissima parte dell’informazione compiva il suo ruolo di appoggio logistico: prima negando (“sono cifre di Hamas…”), poi minimizzando e giustificando (“un incidente…”), poi fingendo di credere alle incredibili spiegazioni dei massacratori (Israele, davanti ai fatti che non riesce a nascondere, dice spesso “Apriremo un’inchiesta”). Chiunque possa raccontare ciò che succede nel campo di sterminio di Gaza viene ucciso: oltre 220 giornalisti sono stati assassinati a Gaza per mano dell’esercito dello sterminio.

Solo una piccola parte della società italiana si è ribellata a questo stato di cose. Lo ha fatto rischiando quotidianamente accuse assurde e infamanti. Ora è chiaro e lampante: accusare di “antisemitismo” chi si opponeva al massacro di 20.000 bambini era un’arma miserabile, e oggi quello scudo non funziona più, la strumentalità dell’accusa ha polverizzato ogni briciolo di credibilità.

Da qualche giorno, di colpo, i distratti, i colpevoli fiancheggiatori, i simpatizzanti e i negazionisti del genocidio si sono risvegliati, abbondano i riposizionamenti, i risvegli tardivi, si spezzano i silenzi carichi di complicità. Uno degli argomenti più gettonati e più grotteschi è che “Israele così si fa male”. Che è un po’ come andare dalle SS nel ’44, dopo Marzabotto, e dire: “Ehi, ragazzi, state esagerando, così vi fate male da soli”. Chi oggi – bontà sua – chiede la fine del genocidio con 20 mesi di ritardo tenta vergognosamente di ristrutturarsi la coscienza. Quelli che lo hanno sempre detto, censurati, scherniti, infamati, ricorderanno con un certo ribrezzo chi diceva cosa prima e chi dice cosa adesso. Troppo poco, troppo tardi. Intanto, a Gaza, muoiono, anche oggi, anche domani, ci sarà una nuova Marzabotto.

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7 giugno: la vostra piazza non è casa mia – Pasquale Liguori

C’è un nuovo spirito del tempo che soffia sulla manifestazione del 7 giugno e cortei analoghi per Gaza. Le piazze, all’improvviso, tornano a richiamare chi, per venti lunghissimi e sanguinosi mesi, è rimasto in silenzio: complice, vilmente equidistante, con varie formule e a vari livelli indecentemente legittimante. Gli stessi che, fino a ieri, invocavano il “diritto di Israele a difendersi”, precisavano di essere “né con… né con…”, premettevano a pappardella il rituale incipit “condanno il 7 ottobre, senza se e senza ma…” cancellando quasi un secolo di feroce oppressione, parlavano a sproposito di stupri mai documentati, ricordavano “l’unica democrazia in Medio Oriente”, sceglievano il lessico di “terrorista” omettendo ogni carattere resistente, sminuivano o negavano la denuncia di genocidio.

Da più parti, oggi, si è sollecitati a marciare insieme a loro. Ad accettare questa tardiva e comoda conversione come se fosse abbastanza. Come se bastasse un lenzuolo appeso al balcone, un hashtag ripescato dal fondo del feed, cinque minuti al buio per lavarsi la coscienza. Si sentono redenti, morali, finalmente dalla parte giusta. Ben oltre cinquantamila morti dopo.

Domando loro: dove eravate, quando le voci che gridavano “genocidio” venivano zittite, isolate, bollate come antisemite? Dove eravate quando le kefiah erano “troppo divisive” e le bandiere palestinesi “inadatte” ai vostri raduni per la pace armata? Dove eravate quando i vostri partiti, i vostri comitati d’affari, la vostra “sinistra per Israele” giustificavano ogni bomba con lo sguardo fisso su un 7 ottobre trasformato in licenza di sterminio?

Non è possibile dimenticare. Non dimentico le minacce, l’isolamento, la criminalizzazione subita da chi ha osato parlare da subito di apartheid, colonialismo, annientamento, genocidio. Non dimentico l’etichetta infame di “antisemita” cucita addosso a chi ha avuto il coraggio di dire che non esistono due verità, ma un solo popolo sotto occupazione e un solo potere occupante.

Oggi, dunque, dovremmo stringerci – uniti – in nome della “massa critica”? Dovremmo tacere per non “disunirci”? Unirci a chi? Con chi? Con chi anche in un comunicato, frutto di palese e ridicolo compromesso, ancora elude la parola “genocidio”? Con chi, perciò, sarà pronto alla restaurazione dello status quo ante: due popoli, due stati, purché nulla incrini la coscienza indecente dell’Occidente. Con chi ci riporterà, passo dopo passo, verso l’apartheid normalizzata, l’occupazione legittimata, la colonizzazione digerita con un blando condimento umanitario.

No, grazie. La vostra piazza non è casa mia.

Non basta dire “meglio tardi che mai” per redimere venti mesi di complicità attiva. Non basta sventolare uno slogan per cancellare la disumanizzazione sistematica di un intero popolo. Non basta la piazza se, in quella piazza, marciano quelli che hanno contribuito al massacro, che lo hanno coperto, negato, ridotto a “conflitto complicato”.

Chi ha parlato da subito di genocidio, chi ha sostenuto la lotta antisionista senza esitazioni, oggi verrebbe a trovarsi davanti a un bivio: accodarsi a questa riconciliazione ipocrita o restare coerente nella solitudine.

Lo dico chiaramente: non marcio con chi si è fatto bastare un post, uno switch-off, lo sventolio di un lenzuolo, il ripensamento in “zona Cesarini” dei media mainstream. Non marcio con i restauratori della finta equidistanza, i riabilitati del progressismo igienico.

La loro coscienza è pulita solo per chi si accontenta di lavarsi le mani. La mia memoria, la mia rabbia e la mia solidarietà non sono in saldo.

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Gaza. Ingegneria coloniale - Yousef Hamdouna

Ciò che sta accadendo a Gaza non è semplicemente una guerra militare o una tragedia umanitaria, ma un momento cruciale di trasformazione nell’approccio alla questione dei popoli sottoposti a occupazione. Siamo di fronte a un momento storico in cui viene attuata una strategia complessa che mira non solo a smantellare le strutture dei movimenti di liberazione di tali popoli, ma anche a disgregarne la società stessa dall’interno, ricostruendola come una forma fragile, incapace di riorganizzarsi se non secondo le condizioni imposte dall’occupante.

Da qui, l’uso della fame come arma non può essere compreso se non come parte di un’ingegneria sociale violenta, attuata attraverso fasi precise e pianificate. Svuotare le aree dal cibo non significa solo affamare la popolazione di Gaza, ma rappresenta allo stesso tempo un atto simbolico e concreto che determina importanti conseguenzeil crollo del concetto di sicurezza autonoma: nessuno Stato, nessuna istituzione, nessuna capacità collettiva di sopravvivere riescono a trasmettere un senso di sicurezza; la disgregazione del patto sociale: l’essere umano non percepisce più il proprio ambiente come una “società”, ma come un insieme di concorrenti in lotta per la sopravvivenza; la frammentazione dell’identità collettiva: quando il sistema alimentare crolla, crollano anche i valori della solidarietà e della dignità, e l’individuo comincia a pensare soltanto al proprio “io” affamato.

La fame non è solo uno strumento di sottomissione, ma un processo di frattura interiore che distrugge la coesione dell’identità individuale e della società nel suo complesso. Ed è proprio qui che risiede la pericolosità della fame: non a caso, la starvation della popolazione civile è considerata un crimine di guerra. Nel caso della Striscia di Gaza, essa rappresenta uno strumento per provocare un “cambiamento percettivo forzato” all’interno delle comunità, spostandone il focus e le priorità: dal pensiero rivolto alla liberazione collettiva, al pensiero rivolto alla sopravvivenza individuale a qualunque costo. Questo apre la strada a uno stato di caos interno che può portare ad accettare soluzioni che, prima della crisi, sarebbero state completamente rifiutate, o a negoziare cose prima ritenute non negoziabili. Non solo. Questo porta anche al dissolvimento del legame sociale dei movimenti di liberazione con la popolazione: essi si trasformano da ‘protettori’ a ‘impotenti’, e forse persino ad ‘accusati’. Tutto ciò contribuisce a ridefinire il concetto stesso di autorità e leadership nella coscienza collettiva della società, trasferendo così il potere dalla ‘leadership politica’ a chi possiede e controlla cibo e acqua.

Quando si nega il cibo alle persone e la forza della fame le spinge al saccheggio e al caos, non le si sta solo affamando, ma si compie un’operazione più profonda: si priva quel popolo della propria immagine morale agli occhi del mondo, si costruisce una nuova narrazione secondo cui non è in grado di autogestirsi, e si apre così la strada a una ‘ri-colonizzazione umanitaria’, attraverso una gestione internazionale o araba – in ogni caso straniera – subordinata a specifiche condizioni politiche e di sicurezza. Ci troviamo di fronte a una forma di colonialismo che non impone la propria autorità solo attraverso la forza militare, ma riscrive la struttura psicologica e sociale delle persone mediante strumenti soft, come la gestione del cibo e il controllo degli aiuti. In questo modo si impone una nuova realtà, presentata come un passaggio necessario per porre fine alla sofferenza della popolazione.

Il problema non è solo ciò che sta accadendo, ma ciò che si vuole che diventi. Ciò che sta accadendo oggi a Gaza rappresenta un momento cruciale nella storia palestinese, e forse anche nella storia moderna in generale: è il più grande esperimento di ingegneria sociale violenta condotto su un intero popolo, all’interno della propria terra (senza via di fuga) e sotto il giogo dell’occupazione. Il caos attuale non è un effetto collaterale, ma parte integrante di un progetto volto a distruggere la società palestinese dall’interno, per poi ricostruirla o come un corpo senza anima, o come un popolo disposto ad accettare di (soprav)vivere senza alcuna prospettiva politica e senza diritti. Il fatto che tutto ciò stia accadendo in diretta, davanti agli occhi del mondo intero, rappresenta una riscrittura dei concetti e dei principi del diritto internazionale umanitario nella coscienza collettiva delle società. Sta educando le menti delle nuove generazioni a una verità amara: che la legge della giungla è l’unica legge dominante in quest’epoca; che libertà, giustizia e uguaglianza sono utopie platoniche del nostro tempo; che chi osa opporsi all’ingiustizia e alla tirannia subirà ciò che oggi stanno subendo i palestinesi; e che non sono il diritto internazionale umanitario e i diritti umani a determinare il destino dei popoli, ma la forza e gli interessi.

Questa grande verità la si sta toccando con mano in una terra che si preferisce percepire come altra, lontana, mentre ci si abitua all’idea che “è una questione troppo complicata” o che “è qualcosa di più grande di noi”. Eppure, queste verità si riflettono anche a livello micro, nelle relazioni tra le persone in ogni parte del mondo, e si manifestano in modo già tangibile nelle nostre società, spesso in maniera inconscia. Ne sono prova il diffuso e indefinito senso di incertezza, la paura del futuro, l’individualismo crescente e l’investimento – globale, nazionale, comunitario – negli strumenti di forza, mentre si screditano quelli del diritto. Per questo motivo, la questione non riguarda solo Gaza o la Palestina, ma riguarda l’intera umanità. Ed è nostro dovere lottare, affinché possiamo restare umani.

L’autore, cooperante di una ONG italiana con cui lavora da alcuni anni spostandosi tra l’Italia e la striscia di Gaza, è in questi giorni impegnato con la delegazione italiana (di giornalisti, parlamentari, cooperanti di ONG, attivisti di Arci, Assopace etc.) che si è recata al valico di Rafah, al confine con la striscia di Gaza, per cercare di fare pressione per un cessate il fuoco immediato e per fermare il genocidio.

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L’Occidente e l’apartheid: Trump e non solo - Sergio Labate

 

Cos’è l’apartheid? È una politica di segregazione. Un regime di separatezza che si rivolge a certi gruppi in base a delle caratteristiche comuni: razza, ceto, genere ecc. Dunque c’è apartheid dove c’è una politica che separa e perseguita delle persone non in termini individuali o in relazione a gesti delittuosi, ma per il solo fatto di essere se stesse e di appartenere a un gruppo sociale più o meno riconoscibile. Cos’è la proiezione, in psicologia? È un elementare meccanismo di difesa, per cui proiettiamo sugli altri sentimenti o azioni o convinzioni che proviamo o mettiamo in atto e che non riusciamo o non vogliamo o non possiamo attribuire a noi stessi.

Pensavo a questi due semplicissimi concetti, mentre ascoltavo le ultime puntate dei deliri di Trump. Nell’ordine, la sua accusa al Presidente del Sud Africa di essere razzista nei confronti dei bianchi e, poche ore dopo, la decisione di proibire a una delle più grandi e prestigiose Università americane di ammettere studenti stranieri.

La scenetta col Presidente sudafricano è simile a quella con Zelensky, se non fosse per la prontezza di riflessi dell’interlocutore. Una vera e propria trappola a favore di telecamere, con la costruzione artificiale di fake news per legittimare quella che non è una semplice tesi bislacca, ma rappresenta precisamente un rovesciamento proiettivo. L’unico dato di realtà da cui parte questa narrazione palesemente falsa è che vi è una legge che permette l’esproprio (del tutto risarcito, salvo casi di terreni abbandonati a se stessi da tempo) di terra a fini pubblici, in un paese in cui il latifondo non è un’arcaica categoria dell’Ottocento. Per il resto, accusare il Paese dell’apartheid di perseguitare i bianchi in quanto bianchi non è solo un oltraggio alla memoria, ma è anche una follia rispetto al presente. Un presente in cui i bianchi continuano ad essere i ricchi e i neri ad essere i poveri. Non c’è stato nessuno spostamento economico e l’apartheid è rimasto dov’era, fondato ora su basi economiche e non più politiche. In fin dei conti, la pace non è stata che la continuazione dell’apartheid con altri mezzi. Ma perché quest’accusa di apartheid non può che essere interpretata nei termini d’un rovesciamento proiettivo, avendo a che fare con le politiche che il Presidente statunitense mette in atto?

Per rispondere a questa domanda, veniamo al secondo episodio. Quel geniaccio di Trump continua la sua guerra alle università americane (che peraltro non sono università pubbliche, ma sono fortemente elitarie sia nel reclutamento dei docenti sia soprattutto nella selezione degli studenti. Sono insomma modelli di un sapere esclusivo ed escludente, che dovrebbe piacere molto agli esponenti della destra). L’ultimo plateale gesto è quello di prendersela con gli studenti universitari “stranieri”: un gruppo sociale piuttosto cospicuo ed eterogeneo, ad occhio. Con un gesto di puro maccartismo, la sua amministrazione ha sospeso le iscrizioni per gli studenti stranieri. Perché prendersela con loro? Per punire le posizioni “antisemite” dell’Università, ufficialmente. Scelta interessante. In primo luogo, perché punisce solo indirettamente l’Università, punendo direttamente persone che – non avendo nome e cognome ma essendo un gruppo sociale piuttosto corposo – non possono essere accusate di condividere quelle idee che a quanto pare in una democrazia liberale non possono essere diffuse. In secondo luogo, perché si basa su un’ennesima contraffazione della realtà, definendo ogni critica alle politiche israeliane come “antisemitismo”. Il che ci permette di correggere la declinazione di un’altra domanda che ricorre sempre di più in queste settimane. La questione non è: “perché assistiamo alle semplificazioni che prendono il posto della complessità?” ma piuttosto: “perché assistiamo alle contraffazioni che prendono il posto della complessità?”. La differenza tra semplificazione e contraffazione è evidente e concerne l’uso politico delle parole. Quando semplifichiamo qualcosa, l’accusa che ci viene rivolta è che le cose non stanno esattamente così come le stiamo descrivendo. Ma la contraffazione non è per forza una semplificazione. Mentre la semplificazione conserva in sé parti di verità che magari distorce, la contraffazione non si occupa più di dir male la verità, ma si occupa direttamente di dire il falso come fosse veroQuesta non è più l’epoca della semplificazione, è ormai l’epoca della contraffazione.

Di fatto, anche questo piccolo episodio dimostra come l’apartheid è diventato un principio politico che unisce l’Occidente contro coloro che decide di designare come i suoi nemici. In questo caso i nemici contro cui agire sono duplici: sono gli stranieri e sono coloro che credono ancora al valore dell’istruzione. Sono dunque da perseguitare perché non appartengono alla nostra comunità e perché pretendono di imparare a maneggiare lo strumento di emancipazione e di critica al potere per eccellenza, la cultura. Ma il modo in cui si agisce risponde perfettamente ai canoni che definiscono l’apartheid. Che è esattamente una persecuzione che non è fondata su alcuna notizia di reato ma esclusivamente sull’appartenenza a un gruppo razziale (gli stranieri) e a un gruppo sociale (il “ceto medio riflessivo”, avremmo detto un tempo). Ma non è lo stesso apartheid che vediamo in azione nelle politiche securitarie del nostro Paese? Oppure nelle direttive europee sulla migrazione e sul diritto d’asilo? O ancora a Gaza, dove la segregazione e l’apartheid non hanno nemmeno il bisogno di celarsi dietro il rispetto di leggi e di diritti?

Sono due piccoli episodi, apparentemente minimi rispetto a tutto ciò che ci sta esplodendo in mano. Ma non fanno che confermare il fatto che è l’Occidente tutto oggi a poter essere accusato di aver plasmato le proprie politiche a immagine e somiglianza dell’apartheid che in Sud Africa è invece per fortuna solo un tragico ricordo del passato, almeno come fenomeno politico.

Se le cose stanno cosi, non riesco a trovare altre spiegazioni se non ricorrendo al buon vecchio Freud. Accusare l’altro di ciò che di fatto si persegue con accanimento ormai reiterato ed esplicito. Oltretutto, non è ciò che accade costantemente anche nelle nostre relazioni private? Non trovo più una persona violenta che non rivendichi alla fine di essere essa stessa vittima della violenza. Mentre alle vittime è tolto il diritto di parola, i carnefici si difendono facendo le vittime. Piccolo inciso che conferma questa sommaria analisi di psicologia sociale: nei giorni scorsi ho avuto la pessima idea di ascoltare cinque minuti di dibattito politico in televisione. Qualcuno ha provato a dire che a Gaza si sta consumando un genocidio. Apriti cielo. La conduttrice progressista e di sinistra si è indignata dicendo che non vuole che nella sua trasmissione si pronuncino simili parole. Dopo qualche minuto un brillante (sono decisamente ironico) esponente della destra, uno di quelli che sta trovando una nuova giovinezza perché disposto a difendere in ogni occasione l’indifendibile, ha detto testualmente: “il 7 ottobre si è consumato un vero e proprio genocidio del popolo ebraico”. In questo caso, la nostra conduttrice progressista e di sinistra non ha ritenuto di interrompere né di indignarsi (e con questo, è inutile dirlo, non voglio in alcun modo minimizzare la crudeltà del 7 ottobre).

Il piccolo insegnamento che dobbiamo trarne è immediatamente politico e attraversa tutto questo tempo così poco chiaro che ci accade di vivere. La domanda giusta non è: “perché i carnefici fanno i carnefici?”, ma è: “perché i carnefici rappresentano sistematicamente se stessi come vittime?”. Qualcuno direbbe per autoassolversi. Forse non sarebbe una contraffazione, ma certamente sarebbe una semplificazione. Perché ciò che l’Occidente fa non è solo non sentirsi in colpa per quel che ha scelto di diventare, ma accusare gli altri di essere ciò che esso stesso è diventato. Dietro il vittimismo c’è non solo la necessità di non sentirsi in colpa, ma anche il bisogno di far sentire in colpa coloro che si perseguitano, in modo da legittimare i propri comportamenti.

Tra muri e deportazioni, mi pare che la cartografia che stiamo cercando di imporre al mondo intero sia fondata sulla segregazione e il controllo di interi gruppi sociali, estesi a livello planetario. Non più guerre tra Stati, ma guerre di un gruppo sociale minoritario a gruppi sociali a cui vengono ormai negati senza ragione i diritti più elementari. Sono gruppi sociali eterogenei, ho scritto. Ma se dovessi indicarne un tratto comune, direi che sono tutti gruppi sociali non abbienti. Palestinesi, stranieri in genere, ceto medio riflessivo, persone non binarie, donne: ho certamente dimenticato qualcuno nell’elenco. Di fatto poveri, sottoposti a un regime di apartheid plateale da parte dei ricchi. Si chiama apartheid, si legge neo-capitalismo: non più soltanto un dispositivo economico, ma un vero e proprio dispositivo economico-politico.

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