
articoli di Pasquale Liguori, Paolo Di Mizio, Alessandro Robecchi, Giulio Cavalli, Redazione RedFlag (ripresi da invictapalestina.org, lantidiplomatico.it, alessandrorobecchi.it, lanotiziagiornale.it)
Gaza: non perdonare mai, non dimenticare mai
I sostenitori occidentali di Israele lo sapevano allora e lo sanno ancora oggi. Hanno dato sostegno incondizionato allo Stato sionista, pienamente consapevoli delle sue intenzioni e dei suoi crimini contro l’umanità.
Fonte: English version
Gli alti funzionari del governo israeliano sono sempre più sfacciati riguardo al genocidio che stanno portando avanti e alla conclusione che ritengono essere a portata di mano.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato all’inizio di questo mese che l’espulsione forzata dei Palestinesi sarà il “risultato inevitabile” della distruzione di Gaza.
Il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, sostenitore della fame come arma di guerra, ha dichiarato in una conferenza stampa: “Stiamo smantellando Gaza, riducendola a cumuli di macerie, con una distruzione totale [che non ha] precedenti a livello globale. E il mondo non ci ferma”.
L’esercito prevede di costringere i palestinesi a rifugiarsi nel sud di Gaza e poi in paesi terzi. “Questo è un cambiamento del corso della storia, niente di meno”, ha detto Smotrich.
E in un articolo per l’edizione ebraica di Haaretz , l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert, la scorsa settimana ha scritto:
“Quello che stiamo facendo a Gaza è una guerra di sterminio: uccisioni indiscriminate, sfrenate, brutali e criminali di civili. Non lo stiamo facendo a causa di una perdita accidentale di controllo in un particolare settore, né a causa di un’esplosione sproporzionata di combattenti in qualche unità, ma a causa di una politica dettata dal governo, consapevolmente, intenzionalmente, maliziosamente, con sconsiderata indifferenza. Sì, stiamo commettendo crimini di guerra.”
La liquidazione della Striscia di Gaza attraverso la fame, le malattie, i bombardamenti incessanti e il terrorismo rappresenterebbe la soluzione finale di Israele: l’annientamento del centro della vita nazionale palestinese e la ridefinizione della mappa politica del Medio Oriente.
È sempre più chiaro che questo è il crimine del secolo. Non perché abbia generato più morti o sofferenze di altre atrocità, ma perché morte e sofferenza sono state sostenute e giustificate a lungo termine da coloro che affermano di rappresentare il mondo “civile”.
Con questa guerra, tutte le vecchie dicerie dell’era coloniale, presumibilmente “bandite”, sulla civiltà che doma la barbarie, tornano con prepotenza per giustificare il barbaro massacro e la fame di diversi milioni di persone.
La scorsa settimana, i governi di Gran Bretagna, Francia e Canada – convinti sostenitori del genocidio sionista – sono finalmente sembrati vacillare di fronte a una rinnovata offensiva israeliana. In una dichiarazione congiunta, hanno definito intollerabili le condizioni a Gaza.
“Non resteremo a guardare mentre il governo Netanyahu persegue queste azioni atroci. Se Israele non cessa la rinnovata offensiva militare e non revoca le restrizioni sugli aiuti umanitari, adotteremo ulteriori misure concrete in risposta”, hanno dichiarato i tre governi.
Ma si trattava solo di teatralità. Un funzionario israeliano ha dichiarato al quotidiano Haaretz che la pressione pubblica era “tutta parte di un’imboscata pianificata di cui eravamo a conoscenza”.
Netanyahu ha chiarito che la ripresa delle piccole consegne di aiuti alla popolazione affamata di Gaza risponde alla “necessità operativa di consentire l’espansione degli intensi combattimenti” e di scongiurare la pressione internazionale mentre il genocidio continua.
In ogni caso, i politici occidentali non possono certo vantarsi di ignoranza. La storia confuterà inevitabilmente qualsiasi tentativo di riscrivere la loro storia di sostegno a questi crimini.
Fin dall’inizio, nell’ottobre 2023, gli israeliani avevano parlato di distruggere ogni singolo edificio a Gaza. A poche settimane dall’invasione israeliana di terra, i funzionari delle Nazioni Unite avevano lanciato l’allarme: pulizia etnica e potenziale genocidio.
I governi occidentali non solo ignorarono questi avvertimenti, ma fornirono anche il loro appoggio al massacro e continuano ancora oggi a calunniare gli oppositori del genocidio, definendoli razzisti.
Anche i politici israeliani che tenteranno di riscrivere il proprio ruolo in questo evento raccapricciante dovranno affrontare il giudizio della storia.
Yair Golan, leader del partito di opposizione Democratico, in un’intervista alla radio pubblica Kan, ampiamente riportata, ha recentemente affermato che Israele è “sulla strada per diventare uno stato paria, come un tempo lo era il Sudafrica”. Ha poi aggiunto: “Uno stato sano di mente non fa la guerra ai civili, non uccide bambini per hobby e non si pone obiettivi come l’espulsione di una popolazione”.
Ma come tutti i politici che cercano di pararsi le spalle, Golan è coinvolto fino al collo in questi crimini.
“Prima di tutto, dobbiamo interrompere qualsiasi rifornimento a Gaza”, ha dichiarato nell’ottobre 2023. “Penso che in questa guerra non si debba permettere uno sforzo umanitario. Bisognerebbe dire loro: ascoltate, finché non saranno liberati [gli ostaggi], non ci importa se morite di fame. È del tutto legittimo”.
Pochi mesi dopo, nel podcast di Haaretz , ha affermato: “Vorremmo tutti svegliarci una mattina di primavera e scoprire che 7 milioni di palestinesi che vivono tra il mare e il fiume sono semplicemente scomparsi”.
Questa è stata la posizione consolidata dell’establishment israeliano: dal fiume al mare, uno stato etnico ebraico libero dai palestinesi.
I sostenitori occidentali di Israele lo sapevano allora e lo sanno ancora oggi. Hanno dato sostegno incondizionato allo Stato sionista, pienamente consapevoli delle sue intenzioni e dei suoi crimini contro l’umanità.
Anche se la fine si avvicina, continuano a sostenere il governo di Tel Aviv.
Questo non sarà mai dimenticato. E loro non dovranno mai essere perdonati.
Traduzione a cura di Grazia Parolari
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Olocausto in Israele – Paolo Di Mizio
…Il mostro non è solo Netanyahu: è l’insieme della società israeliana, pur con le debite eccezioni. Nell’ottobre 2023 in pieno eccidio (un bimbo palestinese ucciso ogni 10 minuti) un sondaggio dell’Università di Tel Aviv appurò che il 94,1% degli israeliani approvava le stragi e solo l’1,8% le riteneva eccessive. Da un sondaggio di due mesi fa risulta che l’82% della popolazione ebrea è favorevole a una totale pulizia etnica. Come vede, il mostro non è un uomo, è una società dove l’umanità è deragliata e il dibattito pubblico verte sull’eliminazione di un popolo e la supremazia degli ebrei nel mondo. Una società che non rappresenta né la cultura né la religione ebraica ed è disconosciuta da molta della diaspora ebraica. Una società fanatizzata in uno Stato nato da un’ideologia etnico-coloniale-messianica (tale è il sionismo) con il criminale esproprio di terre atavicamente palestinesi. Albert Einstein, ebreo, definì i sionisti “deviati e criminali” (“misled and criminal”). Ripetiamo forte e chiaro ciò che Hajo Meyer, fisico ebreo tedesco-olandese scampato ad Auschwitz, scrisse nel suo libro La fine dell’ebraismo, critica all’olocausto in Israele: “Se vogliamo rimanere umani, dobbiamo alzarci e chiamare i sionisti per ciò che sono: criminali nazisti” (Het Einde van het Jodendom, Amsterdam, 2003).
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Tajani parla alla Camera e intanto Gaza muore – Giulio Cavalli
Nell’informativa urgente alla Camera, il ministro Tajani ha raccontato un’Italia che salva, costruisce e abbraccia. Peccato che sia un racconto. Mentre a Gaza l’accesso agli aiuti è stato bloccato per oltre 80 giorni, Tajani parlava di ricostruzione, di progetti architettonici e borse di studio, come se la fame e i bombardamenti fossero alle spalle. Secondo l’OCHA, nel solo maggio 2025, l’84% del territorio di Gaza risultava evacuato forzatamente, e oltre il 90% delle strutture ospedaliere era fuori uso. Eppure, Tajani celebrava un’Italia attiva, coinvolta, umanitaria.
La realtà? Dal 2022 il governo Meloni ha sistematicamente evitato di sostenere risoluzioni ONU che chiedevano tregue immediate, cessate il fuoco o il riconoscimento dello Stato palestinese. Tajani stesso ha bollato come “slogan da piazza” la proposta di riconoscere la Palestina, mentre il suo esecutivo votava contro l’apertura di una procedura UE per sanzionare Israele per violazioni dei diritti umani. Perfino sulla Corte Penale Internazionale – che ha chiesto un mandato d’arresto per Netanyahu – il ministro ha definito “irrealizzabile” un’azione legale in Italia.
L’unica coerenza è l’adesione alla linea israeliana: si plaude agli aiuti simbolici, ma si proteggono le forniture militari; si parla di pace ma si silenziano le responsabilità. Il discorso di Tajani alla Camera è stato un esercizio di propaganda travestito da diplomazia. Nessuna autocritica, nessun cambio di rotta, nessuna verità. Solo la solita liturgia di chi invoca la ricostruzione per seppellire, con una colata di cemento politico, i corpi che ancora non hanno smesso di morire.
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Gaza. Quando è Marzabotto ogni giorno le coscienze si svegliano tardi – Alessandro Robecchi
A Gaza è Marzabotto tutti i giorni. Ogni giorno – ogni giorno – da 20 mesi ci alziamo alla mattina e sentiamo di un nuovo massacro. Donne e bambini, soprattutto. I medici internazionali (ancora) in servizio a Gaza parlano tutti di cadaveri di piccoli palestinesi colpiti con colpi singoli alla testa o al collo. I bombardamenti avvengono di preferenza in zone indicate ai profughi come sicure: li ammassano per ammazzarli meglio. Scuole che fanno da rifugio vengono incendiate. Gli ospedali vengono colpiti. Le storie singole spuntano ogni tanto dalla mattanza generale, si prendono un titolo, poi si inabissano, si confondono. Anche Auschwitz era pieno di storie singole, affogate nell’orrore collettivo. La fame gestita dall’esercito di invasione e di sterminio è usata come un’arma di guerra, dove non arriveranno le bombe incendiarie arriveranno gli stenti e le malattie. Non c’è acqua, non c’è corrente elettrica, non c’è benzina, le ambulanze e i soccorritori vengono deliberatamente assassinati dall’esercito israeliano. I carnefici sul campo si vantano sui social delle loro imprese criminali, i carnefici della politica, a Tel Aviv, rivendicano le loro decisioni genocide, spingono per la fame e per il massacro, per la deportazione di un intero popolo e per il suo sterminio. Sono cose note da un anno e mezzo, cose che si fingeva di non vedere.
Per 20 lunghissimi mesi, qui – qui in Italia – ha trionfato una neo-lingua schifosa e negazionista, quella per cui i palestinesi, misteriosamente, “morivano”, a volte addirittura “uccisi dalla guerra”, come se un genocidio fosse una specie di incidente stradale. Le stragi quotidiane finivano in un trafiletto nascosto, o nelle ultime righe degli articoli, con un penoso trucco giornalistico: “Intanto a Gaza…”. Nel frattempo, la grandissima parte dell’informazione compiva il suo ruolo di appoggio logistico: prima negando (“sono cifre di Hamas…”), poi minimizzando e giustificando (“un incidente…”), poi fingendo di credere alle incredibili spiegazioni dei massacratori (Israele, davanti ai fatti che non riesce a nascondere, dice spesso “Apriremo un’inchiesta”). Chiunque possa raccontare ciò che succede nel campo di sterminio di Gaza viene ucciso: oltre 220 giornalisti sono stati assassinati a Gaza per mano dell’esercito dello sterminio.
Solo una piccola parte della società italiana si è ribellata a questo stato di cose. Lo ha fatto rischiando quotidianamente accuse assurde e infamanti. Ora è chiaro e lampante: accusare di “antisemitismo” chi si opponeva al massacro di 20.000 bambini era un’arma miserabile, e oggi quello scudo non funziona più, la strumentalità dell’accusa ha polverizzato ogni briciolo di credibilità.
Da qualche giorno, di colpo, i distratti, i colpevoli fiancheggiatori, i simpatizzanti e i negazionisti del genocidio si sono risvegliati, abbondano i riposizionamenti, i risvegli tardivi, si spezzano i silenzi carichi di complicità. Uno degli argomenti più gettonati e più grotteschi è che “Israele così si fa male”. Che è un po’ come andare dalle SS nel ’44, dopo Marzabotto, e dire: “Ehi, ragazzi, state esagerando, così vi fate male da soli”. Chi oggi – bontà sua – chiede la fine del genocidio con 20 mesi di ritardo tenta vergognosamente di ristrutturarsi la coscienza. Quelli che lo hanno sempre detto, censurati, scherniti, infamati, ricorderanno con un certo ribrezzo chi diceva cosa prima e chi dice cosa adesso. Troppo poco, troppo tardi. Intanto, a Gaza, muoiono, anche oggi, anche domani, ci sarà una nuova Marzabotto.
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7 giugno: la vostra piazza non è casa mia – Pasquale Liguori
C’è un nuovo spirito del tempo che soffia sulla manifestazione del 7 giugno e cortei analoghi per Gaza. Le piazze, all’improvviso, tornano a richiamare chi, per venti lunghissimi e sanguinosi mesi, è rimasto in silenzio: complice, vilmente equidistante, con varie formule e a vari livelli indecentemente legittimante. Gli stessi che, fino a ieri, invocavano il “diritto di Israele a difendersi”, precisavano di essere “né con… né con…”, premettevano a pappardella il rituale incipit “condanno il 7 ottobre, senza se e senza ma…” cancellando quasi un secolo di feroce oppressione, parlavano a sproposito di stupri mai documentati, ricordavano “l’unica democrazia in Medio Oriente”, sceglievano il lessico di “terrorista” omettendo ogni carattere resistente, sminuivano o negavano la denuncia di genocidio.
Da più parti, oggi, si è sollecitati a marciare insieme a loro. Ad accettare questa tardiva e comoda conversione come se fosse abbastanza. Come se bastasse un lenzuolo appeso al balcone, un hashtag ripescato dal fondo del feed, cinque minuti al buio per lavarsi la coscienza. Si sentono redenti, morali, finalmente dalla parte giusta. Ben oltre cinquantamila morti dopo.
Domando loro: dove eravate, quando le voci che gridavano “genocidio” venivano zittite, isolate, bollate come antisemite? Dove eravate quando le kefiah erano “troppo divisive” e le bandiere palestinesi “inadatte” ai vostri raduni per la pace armata? Dove eravate quando i vostri partiti, i vostri comitati d’affari, la vostra “sinistra per Israele” giustificavano ogni bomba con lo sguardo fisso su un 7 ottobre trasformato in licenza di sterminio?
Non è possibile dimenticare. Non dimentico le minacce, l’isolamento, la criminalizzazione subita da chi ha osato parlare da subito di apartheid, colonialismo, annientamento, genocidio. Non dimentico l’etichetta infame di “antisemita” cucita addosso a chi ha avuto il coraggio di dire che non esistono due verità, ma un solo popolo sotto occupazione e un solo potere occupante.
Oggi, dunque, dovremmo stringerci – uniti – in nome della “massa critica”? Dovremmo tacere per non “disunirci”? Unirci a chi? Con chi? Con chi anche in un comunicato, frutto di palese e ridicolo compromesso, ancora elude la parola “genocidio”? Con chi, perciò, sarà pronto alla restaurazione dello status quo ante: due popoli, due stati, purché nulla incrini la coscienza indecente dell’Occidente. Con chi ci riporterà, passo dopo passo, verso l’apartheid normalizzata, l’occupazione legittimata, la colonizzazione digerita con un blando condimento umanitario.
No, grazie. La vostra piazza non è casa mia.
Non basta dire “meglio tardi che mai” per redimere venti mesi di complicità attiva. Non basta sventolare uno slogan per cancellare la disumanizzazione sistematica di un intero popolo. Non basta la piazza se, in quella piazza, marciano quelli che hanno contribuito al massacro, che lo hanno coperto, negato, ridotto a “conflitto complicato”.
Chi ha parlato da subito di genocidio, chi ha sostenuto la lotta antisionista senza esitazioni, oggi verrebbe a trovarsi davanti a un bivio: accodarsi a questa riconciliazione ipocrita o restare coerente nella solitudine.
Lo dico chiaramente: non marcio con chi si è fatto bastare un post, uno switch-off, lo sventolio di un lenzuolo, il ripensamento in “zona Cesarini” dei media mainstream. Non marcio con i restauratori della finta equidistanza, i riabilitati del progressismo igienico.
La loro coscienza è pulita solo per chi si accontenta di lavarsi le mani. La mia memoria, la mia rabbia e la mia solidarietà non sono in saldo.
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Gaza. Ingegneria coloniale - Yousef Hamdouna
Ciò che sta
accadendo a Gaza non è semplicemente una guerra militare o una tragedia
umanitaria, ma un momento cruciale di trasformazione nell’approccio alla
questione dei popoli sottoposti a occupazione. Siamo di fronte a un momento
storico in cui viene attuata una strategia complessa che mira non solo
a smantellare le strutture dei movimenti di liberazione di tali popoli, ma
anche a disgregarne la società stessa dall’interno, ricostruendola come una
forma fragile, incapace di riorganizzarsi se non secondo le condizioni imposte
dall’occupante.
Da qui,
l’uso della fame come arma non può essere compreso se non come parte di
un’ingegneria sociale violenta, attuata attraverso fasi precise e
pianificate. Svuotare le aree dal cibo non significa solo affamare la
popolazione di Gaza, ma rappresenta allo stesso tempo un atto simbolico e
concreto che determina importanti conseguenze: il crollo del
concetto di sicurezza autonoma: nessuno Stato, nessuna istituzione, nessuna
capacità collettiva di sopravvivere riescono a trasmettere un senso di
sicurezza; la disgregazione del patto sociale: l’essere umano
non percepisce più il proprio ambiente come una “società”, ma come un insieme
di concorrenti in lotta per la sopravvivenza; la frammentazione
dell’identità collettiva: quando il sistema alimentare crolla, crollano
anche i valori della solidarietà e della dignità, e l’individuo comincia a
pensare soltanto al proprio “io” affamato.
La fame non
è solo uno strumento di sottomissione, ma un processo di frattura
interiore che
distrugge la coesione dell’identità individuale e della società nel suo
complesso. Ed è proprio qui che risiede la pericolosità della fame: non a caso,
la starvation della popolazione civile è considerata un
crimine di guerra. Nel caso della Striscia di Gaza, essa rappresenta
uno strumento per provocare un “cambiamento percettivo forzato” all’interno
delle comunità, spostandone il focus e le priorità: dal pensiero
rivolto alla liberazione collettiva, al pensiero rivolto alla sopravvivenza
individuale a qualunque costo. Questo apre la strada a uno stato di caos
interno che può portare ad accettare soluzioni che, prima della crisi,
sarebbero state completamente rifiutate, o a negoziare cose prima ritenute non
negoziabili. Non solo. Questo porta anche al dissolvimento del legame
sociale dei movimenti di liberazione con la popolazione: essi si
trasformano da ‘protettori’ a ‘impotenti’, e forse persino ad ‘accusati’. Tutto
ciò contribuisce a ridefinire il concetto stesso di autorità e leadership nella
coscienza collettiva della società, trasferendo così il potere dalla
‘leadership politica’ a chi possiede e controlla cibo e acqua.
Quando si
nega il cibo alle persone e la forza della fame le spinge al saccheggio e al
caos, non le si sta solo affamando, ma si compie un’operazione più
profonda: si priva quel popolo della propria immagine morale agli occhi
del mondo, si costruisce una nuova narrazione secondo cui non è in grado di
autogestirsi, e si apre così la strada a una ‘ri-colonizzazione umanitaria’,
attraverso una gestione internazionale o araba – in ogni caso straniera –
subordinata a specifiche condizioni politiche e di sicurezza. Ci troviamo di
fronte a una forma di colonialismo che non impone la propria autorità solo
attraverso la forza militare, ma riscrive la struttura psicologica e
sociale delle persone mediante strumenti soft, come la
gestione del cibo e il controllo degli aiuti. In questo modo si impone una
nuova realtà, presentata come un passaggio necessario per porre fine alla
sofferenza della popolazione.
Il problema
non è solo ciò che sta accadendo, ma ciò che si vuole che diventi. Ciò che sta
accadendo oggi a Gaza rappresenta un momento cruciale nella storia palestinese,
e forse anche nella storia moderna in generale: è il più grande
esperimento di ingegneria sociale violenta condotto su un
intero popolo, all’interno della propria terra (senza via di fuga) e sotto il
giogo dell’occupazione. Il caos attuale non è un effetto collaterale, ma
parte integrante di un progetto volto a distruggere la società palestinese
dall’interno, per poi ricostruirla o come un corpo senza anima, o come un
popolo disposto ad accettare di (soprav)vivere senza alcuna prospettiva
politica e senza diritti. Il fatto che tutto ciò stia accadendo in diretta,
davanti agli occhi del mondo intero, rappresenta una riscrittura dei
concetti e dei principi del diritto internazionale umanitario nella coscienza
collettiva delle società. Sta educando le menti delle nuove generazioni a
una verità amara: che la legge della giungla è l’unica legge dominante in
quest’epoca; che libertà, giustizia e uguaglianza sono utopie platoniche del
nostro tempo; che chi osa opporsi all’ingiustizia e alla tirannia subirà ciò
che oggi stanno subendo i palestinesi; e che non sono il diritto
internazionale umanitario e i diritti umani a determinare il destino dei
popoli, ma la forza e gli interessi.
Questa
grande verità la si sta toccando con mano in una terra che si preferisce
percepire come altra, lontana, mentre ci si abitua all’idea che “è una
questione troppo complicata” o che “è qualcosa di più grande di noi”. Eppure,
queste verità si riflettono anche a livello micro, nelle relazioni tra le
persone in ogni parte del mondo, e si manifestano in modo già tangibile nelle
nostre società, spesso in maniera inconscia. Ne sono prova il diffuso e
indefinito senso di incertezza, la paura del futuro, l’individualismo crescente
e l’investimento – globale, nazionale, comunitario – negli strumenti di forza,
mentre si screditano quelli del diritto. Per questo motivo, la
questione non riguarda solo Gaza o la Palestina, ma riguarda l’intera umanità.
Ed è nostro dovere lottare, affinché possiamo restare umani.
* L’autore,
cooperante di una ONG italiana con cui lavora da alcuni anni spostandosi tra
l’Italia e la striscia di Gaza, è in questi giorni impegnato con la
delegazione italiana (di giornalisti, parlamentari, cooperanti
di ONG, attivisti di Arci, Assopace etc.) che si è recata al
valico di Rafah, al confine con la striscia di Gaza, per cercare di fare
pressione per un cessate il fuoco immediato e per fermare il genocidio.
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