sabato 17 maggio 2025

“Beati noi che siamo stati salvati”. Carcere e ideologia neocapitalistica: note a margine di un’esperienza didattica ed umana - Marco Toti

“’Giustizia’, c’è scritto sul portone,

Ma chi ci crede è proprio un minchione”

 

Agli amici detenuti

“Noi a volte pensiamo ciò che loro a volte fanno”: questa frase mi è come rimbombata in testa al mio ingresso in carcere come docente di lettere, nel settembre 2023. Al tempo, come quasi tutti “fuori”, ancora dividevo moralisticamente gli uomini in “buoni” e “cattivi”; questi ultimi stavano giustamente “dentro”. Il problema non era tanto come ci stessero, ma si riduceva alla certezza che molti che stavano “fuori” dovessero essere ristretti. La mia esperienza in carcere mi ha aiutato a rivedere ciò che pensavo, immaginosamente, degli “altri” per eccellenza: i detenuti.

Che cosa fa sì che noi ci limitiamo a pensare ciò che i detenuti fanno? L’ambiente, l’educazione ricevuta, certe tendenze soggettive che da potenziali diventano attuali, ma anche la “fatalità”, e quel “margine” che sempre sfugge all’indagine scientifica. Lascia sgomenti il solo pensiero che, a volte, ad un attimo di sconsideratezza succeda una esistenza di pene gravose (“one moment of madness, one lifetime of sadness”), messe in moto proprio da quel semplice, singolo atto (che però raramente è “casuale”).

Scelsi Rebibbia come possibilità con cui conciliare l’insegnamento e, in qualche modo, una sorta di modesta “ricerca sul campo”, essendo da sempre interessato alle cosiddette “marginalità”, spesso più significative delle esperienze di vita ordinarie in quanto più
“radicali”: l’”eccentricità”, a volte, implica una maggiore “profondità”. In questo caso, si è trattato di una marginalità paradossalmente prossima, immersa nel tessuto urbano e tuttavia del tutto misconosciuta, oltre che conoscibile solo tramite una “full immersion” (la mia, in realtà, pur essendo durata nove mesi, non ha ovviamente comportato l’ingresso nelle “sezioni”). Ho scoperto ciò che al tempo stesso è banale e “nascosto” agli occhi dell’”uomo della strada”: oltre quelle alte, minacciose mura, ci sono persone come noi; e là c’è, veramente, un altro mondo, caratterizzato da sue regole non scritte — su tutte, il “rispetto”, vocabolo tanto spesso pronunciato quanto vago e riconducibile ad un “campo semantico” che si apprende solo vivendo nella strada e, poi, in carcere) e da una propria coerente, spietata logica interna, talora smussata da una certa solidarietà generale e da lampi di inaspettata umanità.

Si potrebbe dire che, in carcere, usi tramandati “oralmente” abbiano preminenza rispetto al “regolamento” scritto (ma spesso “sfuggente”). Per quanto riguarda la mia esperienza, posso dire che in carcere c’è poca scuola: anche se il carcere è una scuola – e certamente “autentica”! -, sebbene non delle più “accoglienti”. Il più delle volte, la lezione si riduce ad un ascolto impotente dei problemi dei detenuti, che non sono né pochi né poco rilevanti (a volte, ritengo, strutturali per volontà istituzionale). Il docente, allora, si trasforma in psicologo, assistente sociale, sociologo, finanche improvvisato etnologo (il detenuto è certamente un “altro”, che può essere studiato senza che ciò implichi la sua reificazione); talora, dopo qualche mese di lezione, diviene addirittura amico cui confidare problemi e patemi.

Anzitutto, il carcere mi è parso da subito un luogo innaturale, sottilmente angoscioso, surreale1 (ma non irreale); di più, il prodotto di un occhio inflessibile, che tutto controlla e sorveglia: in ultima analisi, una sorta di proiezione moralistico-manichea della Weltanschauung neocapitalistica (“capitalismo di sorveglianza”). Il penitenziario come sistema è un incubo neoborghese, razionalista, che riproduce in vitro la dialettica servo-padrone; si potrebbe affermare persino che il carcere sveli compiutamente e pienamente i meccanismi vigenti nella società contemporanea, rendendoli evidenti (sebbene nascosti alla maggioranza dei cittadini). Il carcere è si un grande business, ma, ancor di più, costituisce – oltre che un “gioco” e, ancor più, un esperimento di ingegneria sociale — una istituzione simbolica di potere2, ove il “padrone” non è banalmente il carceriere – “prigioniero che imprigiona prigionieri”3, come le gabbie più grandi ne contengono altre, più piccole -, ma la burocrazia senza volto né nome (magari alleggerita da alcuni slogan, parole d’ordine e pratiche di ambito psicologico): che avrebbe certamente mandato all’inferno, razionalmente e legalmente, il buon ladrone.

Il carcere, che mette a nudo il prigioniero (talora anche fisicamente!) alienandolo in un io che non esiste4 e spesso abbandonandolo a se stesso, esposto ad ogni possibile arbitrio da parte dell’istituzione, costituisce quindi la proiezione pubblica – al tempo stesso patente ma invisibile, quasi impensabile, dall’esterno — dell’universo ideologico borghese (privato, o legalizzato); esso ne esplicita in particolare la dimensione “arcaica”, primitiva e “sospesa”, come “ibernata”5 nel tempo (e nello spazio): vi è quindi un rapporto di somiglianza tra carcere e mondo esterno6, che restano tuttavia, per quanto possibile, universi non comunicanti per necessità “istituzionale”7 (il sistema “a compartimenti stagni” costituisce un carattere classico della burocrazia). D’altra parte, in entrambi i casi l’atomizzazione costituisce la condizione necessaria per la reificazione: solo se si è soli, privi di relazioni “strutturate”, si può essere ridotti a un numero ed utilizzati come cose. Una tale spoliazione forzata dell’io, sempre apocalittica nel suo senso etimologico, potrebbe anche essere salvifica; tuttavia, per lo più, risulta distruttiva (proprio perché artificialmente coatta su persone non pronte per un tale regime di vita): partecipando al suo processo di “cosificazione”, il detenuto nega se stesso come persona per sopravvivere come cosa, numero, mero ingranaggio di un meccanismo impersonale8; d’altronde, tutte le imitazioni di istituzioni animate da un fine sovrannaturale risultano coazioni meccaniche.

Qui correrebbe l’obbligo, se questo fosse un lavoro “scientifico” ed “originale”, di sviluppare comparazioni tra la vita monastica e quella dei detenuti9: un ristretto, dopo che durante una lezione avevo parlato dei tre voti monastici (povertà, obbedienza, castità), mi fece notare che essi sono rinvenibili, pure per costrizione, anche nella vita dei detenuti. Il carcere come cenobio forzato, terribile luogo di una salvezza (non richiesta!) già in questo mondo (nel 1873, il convento di Santa Maria Regina Coeli alla Lungara fu confiscato alle monache carmelitane per essere trasformato in prigione)10? O come limbo, “notte oscura”, ovvero persino immagine del purgatorio? Difficile a dirsi, anche se, in relazione all’istituzione carceraria, suggestioni e motivi tratti dal cattolicesimo non mancano. Ad ogni modo, si può pensare al passaggio dall’egemonia cattolica (disciplina dell’ascesi monastica) a quella protestante (disciplina del lavoro) con riferimento alla nascita del carcere moderno; d’altro canto, non c’è dubbio che “il crimine e l’ascesi conducono alla cella”.

Noi siamo abituati all’istituzione carceraria come necessità morale e giuridica, e quindi tendiamo a non metterla in dubbio, evitando di storicizzarla11; tuttavia, essa è storicamente determinata – il carcere “moderno”, non più unicamente istituto di “custodia preventiva” ma luogo di espiazione di una pena, nasce verso il XVII secolo, e si sviluppa con la progressiva abolizione delle pene corporali e, poi, della pena di morte –, e quindi in teoria reversibile: anche se questa reversione sarebbe oggi molto problematica, in primo luogo perché difficilmente pensabile. In realtà, l’istituzione carceraria moderna si fonda su una ideologia che considera uomo e lavoro in modo astratto ed utilitaristico, in linea con i canoni dell’illuminismo e poi della rivoluzione industriale, identificando la pena con la privazione della libertà per un tempo determinato, proporzionale al reato commesso (ed evolvendo dal lavoro “riabilitativo” al puro e semplice controllo terroristico delle attività del detenuto)12. Il principio della retribuzione si realizza “nello stadio del processo economico in cui la ‘forma di equivalente’ e il ‘principio dello scambio’ diventano dominanti, cioè nella società capitalistica”, ove “la pena del carcere – come privazione di un quantum di libertà — diviene la pena per eccellenza”, e “l’idea di retribuzione per equivalente trova così nella pena carceraria la sua massima realizzazione, proprio in quanto la libertà impedita (temporalmente) è in grado di rappresentare la forma più semplice ed assoluta di ‘valore di scambio’ (leggi: valore del lavoro salariato)”13; e ciò non fa altro che confermare il legame strettissimo tra sistema carcerario e “capitalismo di sorveglianza”: per abbattere il primo, si dovrebbe eliminare il secondo (vaste programme!). Senonché, il carcere, e con esso tutte le principali strutture “disciplinari”, è stato interiorizzato come luogo della giusta (ma invisibile!) pena del reo, che in teoria tende al suo recupero facendolo consapevole del crimine commesso, cui viene opposto l’”autocontrollo” borghese (si pensi alle buone maniere, che N. Elias ha inteso come espressione della “civilizzazione”14). Nella fase della sua nascita, il carcere moderno ha ricoperto la funzione di “una sorta di struttura di mediazione tra un’economia capitalistica emergente e il disciplinamento della vita metropolitana quotidiana”15; esso ha quindi adattato modelli già presenti nella società del tempo, tra cui quello della “disciplina” a fini produttivi16 (valore-lavoro calcolato secondo il tempo), per cui, in specie nella società capitalistica del 1700, ad una libertà/eguaglianza formali si giustappone una disciplina (ed una sorveglianza) reale17: “nella pena carceraria […] ritroviamo, quindi, riflessa la contraddizione centrale dell’universo borghese: la forma giuridica generale che garantisce un sistema di diritti egualitari viene neutralizzata da uno spesso reticolato di poteri non egualitari”18. Verrebbe anche da pensare che l’umanitarismo borghese sia una dottrina dei “buoni sentimenti” essenzialmente funzionale al disciplinamento dei detenuti (ma non solo), a fini evidentemente utilitaristici (produttivi o “istituzionalizzanti”).

D’altra parte, sarebbe fin troppo facile dimostrare che il principio del “recupero” del prigioniero, cui tenderebbe la pena, è una menzogna bella e buona, con cui il sistema (e il cittadino “onesto”) copre la propria cattiva coscienza, facendo volteggiare nell’aria parole d’ordine tanto retoriche quanto emotivamente efficaci. Non si dimentichi che, spesso, ciò che nelle società moderne è affermato ai quattro venti è negato all’atto dell’applicazione del principio.

Gli stessi meccanismi “teorici” inerenti al sistema carcerario — ad esempio colpa-pena/castigo-espiazione, riparazione, “pentimento” etc. — sono fortemente debitori del cattolicesimo. Dal lessico morale cattolico il diritto ha tratto molte categorie a tutt’oggi utilizzate, anche se la indistinzione tra custodia e reclusione è occorsa funzionalmente all’espansione del capitalismo e del razionalismo scientifico19. Questo è un punto cruciale: il carcere moderno come luogo di “restrizione” in cui si sconta una pena, dunque, sarebbe il prodotto “sovrastrutturale” di una precisa ideologia, quella borghese-capitalistica20, non scevra da intersezioni con la morale cattolica post-tridentina. Questa ideologia proietta nella realtà le sue sovrastrutture-maschere, tra le quali la prigione come luogo di punizione: una istituzione artificiosamente “totale”21 e, allo stesso tempo, un significativo “survival”/caricatura delle società dispotiche, che mostra “quanto di autoritario c’è ancora nella struttura del mondo esterno”22.

In prigione, la vita diviene una iperbole di squilibri: in essa ogni evento (interno o esterno), ogni fatto, anche minimo, ogni attesa acquistano un significato ed una frequenza esponenzialmente potenziati, spesso in maniera insopportabile (da cui il largo uso degli psicofarmaci, e la triste ricorrenza dei suicidi, tentati o riusciti). Fa molta tristezza, in un tale ambiente, toccare con mano quante vite sono state gettate alle ortiche: rendersene conto, in prima persona, deve essere terribile (pur potendo costituire l’incipit di una “redenzione”). Come i cimiteri non sono stati fatti tanto per i morti, come le aule di giustizia non sono state realizzate tanto per chi è giudicato, così il carcere, mi pare, non è stato ideato tanto per i delinquenti (“qui non ci sono tanti delinquenti, ma molti fessi che si sono fatti beccare”), quanto per noi, per farci stare beatamente tranquilli, titillando la nostra “falsa coscienza”. Vi è sempre da considerare che tutti gli atti degli uomini sono, almeno in parte, interessati: anche nella più sublime manifestazione di generosità, c’è almeno una punta di “ego”.

In generale, i detenuti — io ho avuto collaboratori di giustizia e condannati in via definitiva per reati “comuni”, il più delle volte connessi alla droga — sono molto rispettosi e umani. Non mi vergogno certo a dire che mi sono affezionato, essendone ricambiato, ad alcuni di loro. Ovviamente, spesso i ristretti sono interessati a migliorare la loro condizione: ma chi di noi non lo è? Molti si danno da fare, ma il lavoro è scarso, essendo Rebibbia sovraffollata. Il resto della giornata lo passano per lo più guardando la tv, giocando a carte, seguendo corsi di varia natura o, in qualche caso emblematico, a rievocare un passato talora mitizzato. Alcuni restano in branda, anche se ciò di solito non è ben visto. Altri scrivono, talvolta con una lucidità spietata, sulla propria condizione e sulle proprie colpe.

Sofferenza – amplificata esponenzialmente a causa dell’impotenza rispetto sia a ciò che sta “dentro” che, a volte anche di più, a ciò che sta “fuori” – e noia sono i problemi maggiori del carcerato (la prigione rimane un luogo violento, ma non più di quanto ci si potrebbe aspettare: qui si dilatano, in ragione del contesto e delle circostanze, fatti e problemi che esistono anche fuori. Colpisce inoltre come, in un luogo dove non è di certo ordinario l’apprezzamento per i magistrati, viga una legge ferrea ai danni di “infami”, molestatori, stupratori e pedofili). Una certa quota di sofferenza sarebbe evitabile se le condizioni di vita dei prigionieri fossero migliori: dal punto di vista degli spazi, della “privacy” e delle cure mediche, almeno a Rebibbia, esse sono molto problematiche. Non sono pochi i suicidi e le morti che si potrebbero scongiurare, se le cure – insieme all’ambiente generale — fossero adeguate.

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Un uomo, accusato forse ingiustamente per uno scippo, entrò in carcere come scippatore ed uscì rapinatore, per aver frequentato in cella un ladro provetto. Il carcere, per come è pensato e realizzato, produce, paradossalmente ma sistematicamente, criminalità23, follia, angoscia. Abbiamo abolito la pena di morte e le pene corporali, ma non la tortura e le pene psicologicamente ed arbitrariamente inflitti (e l’effetto boomerang!).

Della galera si parla tanto, ma si tratta in buona parte di chiacchiere a vuoto; le persone comuni, poi, quasi sempre non sanno nulla dell'”istituzione”, e parlano spesso senza cognizione di causa né umana pietà. Quasi sempre non si fa nulla in merito: i carcerati spesso non votano, e tutelarli non è mai stato à la page. Eppure, dovrebbe essere interesse dello Stato agire, per evitare le famose “recidive”, che risultano in percentuali altissime. D’altra parte, chi assume, fuori, un detenuto che ha scontato la sua pena? Senza lavoro, disorientati, senza soldi né appoggi familiari o amicali, si ricade per lo più inevitabilmente nella “coazione a ripetere” il reato, che a un certo punto diviene quasi una “seconda natura”, fatta di desiderio di trasgressione, bisogno di sfogo e rivolta, brama di denaro e mera necessità24: altrimenti, la riacquistata libertà si farà latrice di un’angoscia spesso letale.

La droga è il primo problema: distrugge vite e induce molti, per procurarsela, a delinquere. Per non parlare dei soldi che si guadagnano trafficandola: un mio studente, l’ultima ruota del carro di un’associazione dedita allo spaccio, mi ha detto che, “lavorando” solo la domenica, guadagnava 1200 euro! Se si riuscisse, per assurdo, a eliminare la droga (ma soprattutto l’alienazione, che è una evasione da se stessi e che spinge a drogarsi), moltissimi reati scomparirebbero nel nulla da cui provengono.

Diverse sono le motivazioni di chi è un “delinquente abituale”. Una volta, un rapinatore non pentito mi ha confessato che il crimine per lui è come una droga (mentre per altri, come si è visto, è la droga a costituire il “movente” del crimine, ed è sempre la droga a “trasformare” l’individuo in un delinquente): nelle 24-48 ore in cui egli “fiuta” che la polizia gli è alle calcagna, non riesce a fermarsi, firmando la sua stessa condanna (torna il peccato più grave, quello di tracotanza). Evidentemente era affascinato dalla sfida con l’autorità, anche (soprattutto?) quando si tratta di una partita persa. “Perché?”, gli ho domandato? “Perché siamo matti”, mi ha risposto.

Una volta un altro detenuto mi ha detto: rinchiudere una persona in una gabbia è un delitto contro la dignità umana (spesso anche i cortili deputati all’”aria” non sono altro che grandi gabbie di cemento). Il carcere in sé costituisce allora una violazione dei cdd. “diritti umani”. In effetti, non è facile dar torto al detenuto in questione (al “Nuovo Complesso” di Rebibbia stanno in sei in una cella di 18 mq, con nello stesso ambiente, adiacenti, WC e cucina!). D’altra parte, secondo alcuni “carcere” viene dall’aramaico “carcar” (“tumulare”): dalla etimologia scopriamo quindi molto più che dalle declamazioni retoriche ed ipocrite, in bella vista proprio perché contraddette dalla realtà. I detenuti, in ultima analisi, sono veramente dei “sepolti vivi”, che espiano una punizione senza che nessuno, tra i “liberi”, li veda25. L’autorità diviene così una rappresentazione fantasmatica, cui sia i ristretti “istituzionalizzati” che i “buoni cittadini” offrono la dovuta riverenza (mentre i pochi non rincitrulliti dalla propaganda istituzionale non hanno la forza di organizzarsi politicamente); essa produce altre rappresentazioni, principi che generano labirinti di norme inaccessibili se non a una ristretta cerchia di tecnici (burocrati di Stato, magistrati, avvocati specialisti in questo campo e con afflati umanitari): norme che spesso non sono né conosciute né osservate, ma solo declamate nelle occasioni “ufficiali” (con meccanismi di manipolazione di massa che ricordano gli slogan pubblicitari).

Il carcere, come il mondo “di fuori”, non è più quello di una volta. Esso ha risentito, in forma a volte ancora più visibile, dei mutamenti profondi che hanno investito la società degli ultimi decenni. Ad esempio, i vincoli di solidarietà, un tempo ferrei, si sono oggi allentati, anche a causa del numero sempre maggiore di detenuti immigrati, che ha trasformato la popolazione ristretta da un insieme più o meno “omogeneo” ad una entità più complessa, divisa e sfuggente. Nonostante ciò, l’ex sindaco di Roma G. Alemanno, arrestato l’ultimo giorno del 2024, ha affermato che il carcere costituisce “un’intensa esperienza comunitaria” – difficilmente comunicabile a chi non vi è stato — nell’ambito della quale i compagni di cella condividono tutto (cibo, lavoro, emozioni, ricordi): un comunitarismo realizzato nel contesto di una esperienza coatta e di margine (come possono esserlo, da un altro punto di vista, le comuni), “a metà strada tra il campeggio e la caverna”: ed è proprio la natura comunitaria dell’esperienza carceraria – non certo la burocrazia statale — che permetterebbe di concretizzare quella “rieducazione” del detenuto intesa come fine dall’art. 27 della Costituzione (oggi in crisi)26. In tal modo, in un certo senso si riproducono in carcere quei vincoli comunitari che, nel frattempo, sono stati pesantemente depotenziati nel mondo “libero”27.

Ad ogni modo, in carcere ho imparato, tra le altre cose, che “delinquente” e “cattivo” non sono sinonimi, nella vita reale. A volte, i detenuti mi sono sembrati bambini28 (anche per le loro “immaginose” sparate e per il loro codice basato sull’omertà). Inoltre, fare veramente i conti con se stessi implica ed induce un certo grado di onestà: nei colloqui che ho avuto con loro, quasi nessuno si è dichiarato innocente. Ma, in fondo in fondo, chi di noi lo è del tutto?

MARCO TOTI

1 Non solo per le architetture tutte sviluppate in orizzontale, i colori, le procedure da seguire ed altri dettagli in parte noti, ma anche per i discorsi paradossali dei detenuti sulla criminalità (che non sarebbe più quella di una volta!).

2 M. Foucault, autore del classico Sorvegliare e punire (Parigi 1975, per la prima volta tradotto in italiano l’anno successivo), ha distinto tra pena pubblica (destinata al corpo e visibile) e pena privata, invisibile e destinata all’”anima”. La prima, concepita per lo più come punizione “compensatoria”, sarebbe inerente ad un universo ideologico religioso, premoderno; la seconda, intesa come “redenzione” laica, sarebbe nata nell’ambito degli antecedenti storici del carcere moderno, le cdd. case di correzione: l’antecedente “remoto” del carcere moderno sarebbero quindi le bridewells, utilizzate a partire dalla seconda metà del XVI secolo in Inghilterra per i bambini senzatetto e per la punizione delle “donne problematiche”. L’attività di una sorveglianza virtualmente ininterrotta è ben espressa nel “carcere ideale”, il Panopticon di J. Bentham, del 1791, ove i detenuti, che non possono distinguerla in quanto “oscurata”, possono essere continuamente osservati dalla torre di guardia. Con ciò si è passati da una violenza esplicita inflitta ai corpi ad un forse più subdolo soft power “psicologico”. Infine, il detenuto è per l’appunto “ristretto” e “disciplinato” come corpo nello spazio (sulla falsariga dell’esercito) e come anima nel tempo (al modo dei conventi); in particolare, i corpi sono macchine da “efficientare” nelle scuole, nelle fabbriche, negli ospedali, nei monasteri, in famiglia, nelle stesse carceri. In democrazia, il regime “libertario” che ne risulta sarebbe possibile poiché i diritti civili sarebbero concessi nel contesto di una ubiqua educazione all’”autocontrollo” (ossia, per l’appunto, propria di una società “disciplinare”).

3 A. Ricci-G. Salierno, Il carcere in Italia. Inchiesta sui carcerati, i carcerieri e l’ideologia carceraria, Torino 1971, p. 274.

4 “[…] sono un bambino al quale è necessario spiegare tutto”, dice un carcerato di sé, immaginandosi libero (A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 283).

5 “’Il linguaggio esterno’ si è arricchito di nuovi termini e di espressioni che non comprendiamo. Il nostro si è fossilizzato su vecchie espressioni e involgarito dall’intercalare dei vari ‘cazzo’, ‘in culo’, e via dicendo” (A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 283). Lo stesso discorso vale per certi gesti, tanto antichi da apparire anacronistici, adoperati dai carcerati più anziani (e di più lungo corso in galera).

6 A. Ricci-G. Salierno, op. cit., pp. 279-280. Questo rapporto è ben visibile nell’ambito della sessualità: in carcere, da necessità il sesso diviene ossessione, quindi mezzo di sfruttamento ed infine “rito”: “l’80 per cento […] o inculano o si fanno inculare” (ibidem, p. 209). Sulla libertà fittizia caratteristica dell’universo ideologico borghese, dentro e fuori dal carcere, v. ibidem, p. 438.

7 “La prigione crolla se crei un collegamento tra il mondo esterno e il mondo interno. Il tesoro vero da salvare nelle carceri è l’isolamento” (parole di un detenuto riportate in A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 234 [corsivi nostri]). Ciò illustra bene come, compatibilmente con il carattere della società, nel carcere moderno la pena, al di là di arbitrii spesso reali, è più “astratta” rispetto alla “materialità” delle tradizionali pene corporali; ed essa risulta quantificata in un tempo che si vorrebbe proporzionato al reato commesso. Tuttavia, la tortura non costituisce solo una pratica che offende il corpo (ed anzi, le torture più raffinate sono psicologiche).

8 A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 259. “Dopo questi anni di esilio, io già temo di non ritrovare più me stesso”, afferma un carcerato (A. Ricci-G. Salierno, op. cit, p. 283).

9 Il carcere romano di Regina Coeli era in origine un convento.

10 Ricordiamo che San Giuseppe Cafasso, vissuto a Torino nel XIX secolo, fu soprannominato “il prete della forca”, in quanto accompagnava fino al patibolo i condannati a morte, dopo averli indotti alla riconciliazione con Dio.

11 L’idea della segregazione come espiazione è ripresa dalla vita monastica, ed è usata dapprima come pena canonica per i chierici e per i regolari; d’altra parte, il mantenimento di molte persone in strutture comuni era impensabile, e comunque non praticabile, in epoca preindustriale (ringrazio il dott. R. Turrini Vita per queste informazioni). In ambito cattolico, è con l’istituzione dell’Inquisizione ecclesiastica che fu introdotto il carcere a vita come strumento di espiazione della pena. Sulle origini del carcere moderno, in prospettiva marxista, è indispensabile D. Melossi-M. Paravini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Bologna 20184, variamente citato oltre, che significativamente affermano a p. 144 n. 200: “La connessione tra isolamento, concezione penitenziale o spirituale, come si diceva, della pena e follia, è così sintetizzata dal Marx de La sacra famiglia: ‘[…] Per l’uomo, per il quale il mondo sensibile diventa una semplice idea, le semplici idee si trasformano per contro in esseri sensibili. […] Dentro al suo spirito si crea un mondo di fantasmi palpabili, sensibili. È questo il mistero di tutte le visioni religiose; è questa nello stesso tempo la forma universale della follia’”. A parte la forzata analogia tra religione e follia, riteniamo che tale processo psicologico, certamente esacerbato in carcere, sia fondamentalmente proprio del mondo moderno.

12 Ibidem, pp. 114-115.

13 Ibidem, p. 314.

14 N. Elias, Il processo di civilizzazione, tr. it. Bologna 1982-1983.

15 D. Melossi-M. Pavarini, op. cit., p. 12. Il nesso tra penalità e capitalismo è evidente in specie tra i quaccheri (ibidem, p. 35 n. 9); inoltre, “il terreno della criminalità […] è quello privilegiato su cui avviene lo scontro di classe” (ibidem, p. 126).

16 Ibidem, pp. 19 e 21. “La stessa ‘invenzione’ del capitalismo prese forma nell’invenzione della casa di lavoro”, avvenuta fin dalla seconda metà del 1500 in Inghilterra (sulle workhouses quali antecedenti del carcere moderno si può vedere ibidem, pp. 69-75); il principio di costruzione del già menzionato Panopticon, progettato da J. Bentham alla fine del XVIII secolo quale “casa di ispezione”, viene poi esteso “a ciascuna sorta di stabilimento ove persone di condizione assai diversa debbano essere sottoposte a sorveglianza”, ossia carceri, fabbriche, case di lavoro, ospizi per poveri, manifatture, ospedali per folli, lazzaretti, ospedali e scuole” (ibidem, p. 20), cioè istituzioni “disciplinari” e tendenzialmente “totali”. Che la concentrazione forzata di malati, proletari, studenti e marginali (tutte categorie “deboli”) in un luogo preciso sia un’immagine concreta – anche se parziale — della massificazione moderna?

17 Ibidem, pp. 25-26 (Foucault). V. anche ibidem, pp. 124-126.

18 Ibidem, p. 315 (v. anche p. 316).

19 A. Ricci-G. Salierno, op. cit., pp. 18-19.

20 La “struttura” è quindi l’”universo ideologico”, il modo di vita borghese-capitalistico, e non semplicemente le forze e i rapporti produttivi.

21 A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 181.

22 A. Ricci-G. Salierno, op. cit., pp. 234-235. L’autoritarismo borghese è una degenerazione del legittimo principio di autorità.

23 Questa connessione strutturale tra carcere e criminalità “in uscita” serve a giustificare l’apparato repressivo, la cui funzione tacita è quella di salvaguardare l’”ordine”, ossia l’ideologia dominante (A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 277). Tale salvaguardia costituisce una delle rappresentazioni più efficaci del sistema: non è tanto importante infatti contenere la criminalità entro limiti fisiologici, quanto rappresentare il potere che l’apparato statale sembra avere su di essa (soprattutto per mezzo dell’apparato massmediatico). La rappresentazione, ovviamente, è finalizzata alla perpetuazione dell’ordine vigente.

24 In questo senso, senza che si annulli il principio della responsabilità personale — senza però dimenticare che per molti il crimine è una professione e il carcere un rischio, come negli scambi di borsa! –, bisognerebbe sempre tener presente il contesto sociale di provenienza del detenuto (e di quello in cui il detenuto si reinserirà, eventualmente, dopo la sua scarcerazione). Sui problemi materiali e psicologici di chi esce v. A. Ricci-G. Salierno, op. cit., pp. 285-306 (“l’angoscia è quando tu non sai dove appoggiarti” [p. 296]). Per chi esce e non ha supporti esterni “rimane o la fuga, o la carriera di delinquente, o il suicidio. […] la fuga può essere intesa appunto come suicidio” (p. 301). Significativo quanto afferma un ex detenuto: “Ora sono un delinquente!” (all’uscita dal carcere; all’ingresso, egli dice, non aveva contatti con la malavita).

25 Su tale problema v. S. Ferraro, La pena visibile o della fine del carcere, Soveria Mannelli (Cz) 2013.

26 https://www.barbadillo.it/120510-rebibbia-calling-alemanno-una-intensa-esperienza-comunitaria/. Teniamo a ricordare come da un lato il modello comunitarista non sia facilmente adattabile a contesti nazionali di una certa estensione e popolazione, dall’altro come sia auspicabile una indagine approfondita sulla “comunità” quale luogo elettivo di realizzazione della persona (anche nel suo essere un “tramite” fondamentale tra questa e lo Stato).

27 Si pensi alla “visione del mondo” dei totalitarismi novecenteschi, che non a caso utilizzarono, tra le parole individuanti il modo di concepire i rapporti umani e politici, termini quali “camerata” e “compagno”. Ciò manca, significativamente, nel liberalismo.

28 “[…] la caratteristica tipica di un prigioniero è la regressione a livello infantile” (A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 279). Di particolare interesse è la “fantasmatizzazione dell’autorità”, operata spesso dal carcerato, in una sorta di conflitto di odio-amore che può ricalcare il rapporto col padre-ombra (sul tema v. anche ibidem, p. 283 e supra, n. 4). Un giorno un detenuto, osservando i libri che portavo con me per la lezione, mi chiese: “professore, ma lei li sa tutti a memoria questi libri?”.

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