“’Giustizia’, c’è scritto sul portone,
Ma chi ci crede è proprio un minchione”
Agli amici detenuti
“Noi a volte pensiamo ciò che loro a volte fanno”:
questa frase mi è come rimbombata in testa al mio ingresso in carcere come
docente di lettere, nel settembre 2023. Al tempo, come quasi tutti “fuori”,
ancora dividevo moralisticamente gli uomini in “buoni” e “cattivi”; questi
ultimi stavano giustamente “dentro”. Il problema non era tanto come ci stessero, ma si riduceva alla certezza che
molti che stavano “fuori” dovessero essere ristretti. La mia esperienza in
carcere mi ha aiutato a rivedere ciò che pensavo, immaginosamente, degli
“altri” per eccellenza: i detenuti.
Che cosa fa sì che noi ci limitiamo a pensare ciò che
i detenuti fanno? L’ambiente, l’educazione ricevuta, certe tendenze soggettive
che da potenziali diventano attuali, ma anche la “fatalità”, e quel “margine”
che sempre sfugge all’indagine scientifica. Lascia sgomenti il solo pensiero
che, a volte, ad un attimo di sconsideratezza succeda una esistenza di pene
gravose (“one moment of madness, one lifetime of sadness”), messe in moto
proprio da quel semplice, singolo atto (che però raramente è “casuale”).
Scelsi Rebibbia come possibilità con cui conciliare
l’insegnamento e, in qualche modo, una sorta di modesta “ricerca sul campo”,
essendo da sempre interessato alle cosiddette “marginalità”, spesso più significative
delle esperienze di vita ordinarie in quanto più
“radicali”: l’”eccentricità”, a volte, implica una maggiore “profondità”. In
questo caso, si è trattato di una marginalità paradossalmente prossima, immersa
nel tessuto urbano e tuttavia del tutto misconosciuta, oltre che conoscibile
solo tramite una “full immersion” (la mia, in realtà, pur essendo durata nove
mesi, non ha ovviamente comportato l’ingresso nelle “sezioni”). Ho scoperto ciò
che al tempo stesso è banale e “nascosto” agli occhi dell’”uomo della strada”:
oltre quelle alte, minacciose mura, ci sono persone come
noi; e là c’è, veramente, un altro mondo,
caratterizzato da sue regole non scritte — su tutte, il “rispetto”, vocabolo
tanto spesso pronunciato quanto vago e riconducibile ad un “campo semantico”
che si apprende solo vivendo nella strada e, poi, in carcere) e da una propria
coerente, spietata logica interna, talora smussata da una certa solidarietà
generale e da lampi di inaspettata umanità.
Si potrebbe dire che, in carcere, usi tramandati
“oralmente” abbiano preminenza rispetto al “regolamento” scritto (ma spesso
“sfuggente”). Per quanto riguarda la mia esperienza, posso dire che in carcere
c’è poca scuola: anche se il carcere è una scuola – e certamente “autentica”!
-, sebbene non delle più “accoglienti”. Il più delle volte, la lezione si
riduce ad un ascolto impotente dei problemi dei detenuti, che non sono né pochi
né poco rilevanti (a volte, ritengo, strutturali per volontà istituzionale). Il
docente, allora, si trasforma in psicologo, assistente sociale, sociologo,
finanche improvvisato etnologo (il detenuto è certamente un “altro”, che può
essere studiato senza che ciò implichi la sua reificazione); talora, dopo
qualche mese di lezione, diviene addirittura amico cui confidare problemi e
patemi.
Anzitutto, il carcere mi è parso da subito un luogo
innaturale, sottilmente angoscioso, surreale1 (ma non irreale); di più, il prodotto di un
occhio inflessibile, che tutto controlla e sorveglia: in ultima analisi, una
sorta di proiezione moralistico-manichea della Weltanschauung neocapitalistica
(“capitalismo di sorveglianza”). Il penitenziario come sistema è un incubo
neoborghese, razionalista, che riproduce in vitro la dialettica
servo-padrone; si potrebbe affermare persino che il carcere sveli compiutamente
e pienamente i meccanismi vigenti nella società contemporanea, rendendoli
evidenti (sebbene nascosti alla maggioranza dei cittadini). Il carcere è si un
grande business, ma, ancor di più, costituisce – oltre che un “gioco” e, ancor
più, un esperimento di ingegneria sociale — una istituzione simbolica di
potere2, ove il “padrone” non è banalmente
il carceriere – “prigioniero che imprigiona prigionieri”3, come le gabbie più grandi ne contengono altre, più
piccole -, ma la burocrazia senza volto né nome (magari alleggerita da alcuni
slogan, parole d’ordine e pratiche di ambito psicologico): che avrebbe
certamente mandato all’inferno, razionalmente e legalmente, il buon ladrone.
Il carcere, che mette a nudo il
prigioniero (talora anche fisicamente!) alienandolo in un io che non esiste4 e spesso abbandonandolo a se stesso, esposto ad
ogni possibile arbitrio da parte dell’istituzione, costituisce quindi la
proiezione pubblica – al tempo stesso patente ma invisibile, quasi impensabile,
dall’esterno — dell’universo ideologico borghese (privato, o legalizzato); esso
ne esplicita in particolare la dimensione “arcaica”, primitiva e “sospesa”,
come “ibernata”5 nel tempo (e nello spazio): vi
è quindi un rapporto di somiglianza tra carcere e mondo esterno6, che restano tuttavia, per quanto possibile, universi
non comunicanti per necessità “istituzionale”7 (il sistema “a compartimenti stagni” costituisce
un carattere classico della burocrazia). D’altra parte, in entrambi i casi
l’atomizzazione costituisce la condizione necessaria per la reificazione: solo
se si è soli, privi di relazioni “strutturate”, si può essere ridotti a un
numero ed utilizzati come cose. Una tale spoliazione forzata dell’io, sempre
apocalittica nel suo senso etimologico, potrebbe anche essere salvifica;
tuttavia, per lo più, risulta distruttiva (proprio perché artificialmente
coatta su persone non pronte per un tale regime di vita): partecipando al suo
processo di “cosificazione”, il detenuto nega se stesso come
persona per sopravvivere come cosa, numero, mero ingranaggio di un
meccanismo impersonale8; d’altronde, tutte le imitazioni di istituzioni
animate da un fine sovrannaturale risultano coazioni meccaniche.
Qui correrebbe l’obbligo, se questo fosse un lavoro
“scientifico” ed “originale”, di sviluppare comparazioni tra la vita monastica
e quella dei detenuti9: un ristretto, dopo che durante una
lezione avevo parlato dei tre voti monastici (povertà, obbedienza, castità), mi
fece notare che essi sono rinvenibili, pure per costrizione, anche nella vita
dei detenuti. Il carcere come cenobio forzato, terribile luogo di una salvezza
(non richiesta!) già in questo mondo (nel 1873, il convento di Santa
Maria Regina Coeli alla Lungara fu confiscato alle
monache carmelitane per essere trasformato in prigione)10? O come limbo, “notte oscura”, ovvero persino
immagine del purgatorio? Difficile a dirsi, anche se, in relazione
all’istituzione carceraria, suggestioni e motivi tratti dal cattolicesimo non
mancano. Ad ogni modo, si può pensare al passaggio dall’egemonia cattolica
(disciplina dell’ascesi monastica) a quella protestante (disciplina del lavoro)
con riferimento alla nascita del carcere moderno; d’altro canto, non c’è dubbio
che “il crimine e l’ascesi conducono alla cella”.
Noi siamo abituati all’istituzione carceraria come
necessità morale e giuridica, e quindi tendiamo a non metterla in dubbio,
evitando di storicizzarla11; tuttavia, essa è storicamente determinata – il
carcere “moderno”, non più unicamente istituto di “custodia preventiva” ma
luogo di espiazione di una pena, nasce verso il XVII secolo, e si sviluppa con
la progressiva abolizione delle pene corporali e, poi, della pena di morte –, e
quindi in teoria reversibile: anche se questa reversione sarebbe oggi molto
problematica, in primo luogo perché difficilmente pensabile. In realtà, l’istituzione carceraria moderna
si fonda su una ideologia che considera uomo e lavoro in modo astratto ed
utilitaristico, in linea con i canoni dell’illuminismo e poi della rivoluzione
industriale, identificando la pena con la privazione della libertà per un tempo determinato, proporzionale al
reato commesso (ed evolvendo dal lavoro “riabilitativo” al puro e semplice
controllo terroristico delle attività del detenuto)12. Il principio della retribuzione si realizza “nello
stadio del processo economico in cui la ‘forma di equivalente’ e il ‘principio
dello scambio’ diventano dominanti, cioè nella società capitalistica”, ove “la
pena del carcere – come privazione di un quantum di
libertà — diviene la pena per eccellenza”, e “l’idea di retribuzione per
equivalente trova così nella pena carceraria la sua massima realizzazione,
proprio in quanto la libertà impedita (temporalmente) è in grado di
rappresentare la forma più semplice ed assoluta di ‘valore di scambio’ (leggi:
valore del lavoro salariato)”13; e ciò non fa altro che confermare il legame
strettissimo tra sistema carcerario e “capitalismo di sorveglianza”: per
abbattere il primo, si dovrebbe eliminare il secondo (vaste programme!). Senonché, il carcere, e con esso
tutte le principali strutture “disciplinari”, è stato interiorizzato come luogo
della giusta (ma invisibile!) pena del reo, che in teoria tende al suo recupero
facendolo consapevole del crimine commesso, cui viene opposto l’”autocontrollo”
borghese (si pensi alle buone maniere, che N. Elias ha inteso come espressione
della “civilizzazione”14). Nella fase della sua nascita, il carcere moderno ha
ricoperto la funzione di “una sorta di struttura di mediazione tra un’economia
capitalistica emergente e il disciplinamento della vita metropolitana
quotidiana”15; esso ha quindi adattato modelli
già presenti nella società del tempo, tra cui quello della “disciplina” a fini
produttivi16 (valore-lavoro calcolato secondo il tempo), per cui, in specie
nella società capitalistica del 1700, ad una libertà/eguaglianza formali si
giustappone una disciplina (ed una sorveglianza) reale17: “nella pena carceraria […] ritroviamo, quindi,
riflessa la contraddizione centrale dell’universo borghese: la forma giuridica
generale che garantisce un sistema di diritti egualitari viene neutralizzata da
uno spesso reticolato di poteri non egualitari”18. Verrebbe anche da pensare che l’umanitarismo
borghese sia una dottrina dei “buoni sentimenti” essenzialmente funzionale al
disciplinamento dei detenuti (ma non solo), a fini evidentemente utilitaristici
(produttivi o “istituzionalizzanti”).
D’altra parte, sarebbe fin troppo facile dimostrare
che il principio del “recupero” del prigioniero, cui tenderebbe la pena, è una
menzogna bella e buona, con cui il sistema (e il cittadino “onesto”) copre la
propria cattiva coscienza, facendo volteggiare nell’aria parole d’ordine tanto
retoriche quanto emotivamente efficaci. Non si dimentichi che, spesso, ciò che
nelle società moderne è affermato ai quattro venti è negato all’atto
dell’applicazione del principio.
Gli stessi meccanismi “teorici” inerenti al sistema
carcerario — ad esempio colpa-pena/castigo-espiazione, riparazione,
“pentimento” etc. — sono fortemente debitori del cattolicesimo. Dal lessico
morale cattolico il diritto ha tratto molte categorie a tutt’oggi utilizzate,
anche se la indistinzione tra custodia e reclusione è occorsa funzionalmente
all’espansione del capitalismo e del razionalismo scientifico19. Questo è un punto cruciale: il carcere moderno come
luogo di “restrizione” in cui si sconta una pena, dunque, sarebbe il prodotto
“sovrastrutturale” di una precisa ideologia, quella borghese-capitalistica20, non scevra da intersezioni con la morale cattolica
post-tridentina. Questa ideologia proietta nella realtà le sue
sovrastrutture-maschere, tra le quali la prigione come luogo di punizione: una
istituzione artificiosamente “totale”21 e, allo stesso tempo, un significativo
“survival”/caricatura delle società dispotiche, che mostra “quanto di
autoritario c’è ancora nella struttura del mondo esterno”22.
In prigione, la vita diviene una iperbole di
squilibri: in essa ogni evento (interno o esterno), ogni fatto, anche minimo,
ogni attesa acquistano un significato ed una frequenza esponenzialmente
potenziati, spesso in maniera insopportabile (da cui il largo uso degli
psicofarmaci, e la triste ricorrenza dei suicidi, tentati o riusciti). Fa molta
tristezza, in un tale ambiente, toccare con mano quante vite sono state gettate
alle ortiche: rendersene conto, in prima persona, deve essere terribile (pur
potendo costituire l’incipit di una “redenzione”).
Come i cimiteri non sono stati fatti tanto per i morti, come le aule di
giustizia non sono state realizzate tanto per chi è giudicato, così il carcere,
mi pare, non è stato ideato tanto per i delinquenti (“qui non ci sono tanti
delinquenti, ma molti fessi che si sono fatti beccare”), quanto per noi, per
farci stare beatamente tranquilli, titillando la nostra “falsa coscienza”. Vi è
sempre da considerare che tutti gli atti degli uomini sono, almeno in parte,
interessati: anche nella più sublime manifestazione di generosità, c’è almeno
una punta di “ego”.
In generale, i detenuti — io ho avuto collaboratori di
giustizia e condannati in via definitiva per reati “comuni”, il più delle volte
connessi alla droga — sono molto rispettosi e umani. Non mi vergogno certo a
dire che mi sono affezionato, essendone ricambiato, ad alcuni di loro.
Ovviamente, spesso i ristretti sono interessati a migliorare la loro
condizione: ma chi di noi non lo è? Molti si danno da fare, ma il lavoro è
scarso, essendo Rebibbia sovraffollata. Il resto della giornata lo passano per
lo più guardando la tv, giocando a carte, seguendo corsi di varia natura o, in
qualche caso emblematico, a rievocare un passato talora mitizzato. Alcuni
restano in branda, anche se ciò di solito non è ben visto. Altri scrivono,
talvolta con una lucidità spietata, sulla propria condizione e sulle proprie
colpe.
Sofferenza – amplificata esponenzialmente a causa
dell’impotenza rispetto sia a ciò che sta “dentro” che, a volte anche di più, a
ciò che sta “fuori” – e noia sono i problemi maggiori del carcerato (la
prigione rimane un luogo violento, ma non più di quanto ci si potrebbe
aspettare: qui si dilatano, in ragione del contesto e delle circostanze, fatti
e problemi che esistono anche fuori. Colpisce inoltre come, in un luogo dove
non è di certo ordinario l’apprezzamento per i magistrati, viga una legge
ferrea ai danni di “infami”, molestatori, stupratori e pedofili). Una certa
quota di sofferenza sarebbe evitabile se le condizioni di vita dei prigionieri fossero
migliori: dal punto di vista degli spazi, della “privacy” e delle cure mediche,
almeno a Rebibbia, esse sono molto problematiche. Non sono pochi i suicidi e le
morti che si potrebbero scongiurare, se le cure – insieme all’ambiente generale
— fossero adeguate.
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Un uomo, accusato forse ingiustamente per uno scippo,
entrò in carcere come scippatore ed uscì rapinatore, per aver frequentato in
cella un ladro provetto. Il carcere, per come è pensato e realizzato, produce,
paradossalmente ma sistematicamente,
criminalità23, follia, angoscia. Abbiamo abolito
la pena di morte e le pene corporali, ma non la tortura e le pene
psicologicamente ed arbitrariamente inflitti (e l’effetto boomerang!).
Della galera si parla tanto, ma si tratta in buona
parte di chiacchiere a vuoto; le persone comuni, poi, quasi sempre non sanno
nulla dell'”istituzione”, e parlano spesso senza cognizione di causa né umana
pietà. Quasi sempre non si fa nulla in merito: i carcerati spesso non votano, e
tutelarli non è mai stato à la page. Eppure,
dovrebbe essere interesse dello Stato agire, per evitare le famose “recidive”,
che risultano in percentuali altissime. D’altra parte, chi assume, fuori, un detenuto
che ha scontato la sua pena? Senza lavoro, disorientati, senza soldi né appoggi
familiari o amicali, si ricade per lo più inevitabilmente nella “coazione a
ripetere” il reato, che a un certo punto diviene quasi una “seconda natura”,
fatta di desiderio di trasgressione, bisogno di sfogo e rivolta, brama di
denaro e mera necessità24: altrimenti, la riacquistata libertà si farà latrice
di un’angoscia spesso letale.
La droga è il primo problema: distrugge vite e induce
molti, per procurarsela, a delinquere. Per non parlare dei soldi che si
guadagnano trafficandola: un mio studente, l’ultima ruota del carro di
un’associazione dedita allo spaccio, mi ha detto che, “lavorando” solo la
domenica, guadagnava 1200 euro! Se si riuscisse, per assurdo, a eliminare la
droga (ma soprattutto l’alienazione, che è una evasione da se stessi e che
spinge a drogarsi), moltissimi reati scomparirebbero nel nulla da cui
provengono.
Diverse sono le motivazioni di chi è un “delinquente
abituale”. Una volta, un rapinatore non pentito mi ha confessato che il crimine
per lui è come una droga (mentre per altri, come si è visto, è la droga a
costituire il “movente” del crimine, ed è sempre la droga a “trasformare” l’individuo
in un delinquente): nelle 24-48 ore in cui egli “fiuta” che la polizia gli è
alle calcagna, non riesce a fermarsi, firmando la sua stessa condanna (torna il
peccato più grave, quello di tracotanza). Evidentemente era affascinato dalla
sfida con l’autorità, anche (soprattutto?) quando si tratta di una partita
persa. “Perché?”, gli ho domandato? “Perché siamo matti”, mi ha risposto.
Una volta un altro detenuto mi ha detto: rinchiudere
una persona in una gabbia è un delitto contro la dignità umana (spesso anche i
cortili deputati all’”aria” non sono altro che grandi gabbie di cemento). Il
carcere in sé costituisce allora una violazione dei cdd.
“diritti umani”. In effetti, non è facile dar torto al detenuto in questione
(al “Nuovo Complesso” di Rebibbia stanno in sei in una cella di 18 mq, con
nello stesso ambiente, adiacenti, WC e cucina!). D’altra parte, secondo alcuni
“carcere” viene dall’aramaico “carcar” (“tumulare”): dalla etimologia scopriamo
quindi molto più che dalle declamazioni retoriche ed ipocrite, in bella vista
proprio perché contraddette dalla realtà. I detenuti, in ultima analisi, sono
veramente dei “sepolti vivi”, che espiano una punizione senza che nessuno, tra
i “liberi”, li veda25. L’autorità diviene così una
rappresentazione fantasmatica, cui sia i ristretti “istituzionalizzati” che i
“buoni cittadini” offrono la dovuta riverenza (mentre i pochi non rincitrulliti
dalla propaganda istituzionale non hanno la forza di organizzarsi
politicamente); essa produce altre rappresentazioni, principi che generano
labirinti di norme inaccessibili se non a una ristretta cerchia di tecnici
(burocrati di Stato, magistrati, avvocati specialisti in questo campo e con
afflati umanitari): norme che spesso non sono né conosciute né osservate, ma
solo declamate nelle occasioni “ufficiali” (con meccanismi di manipolazione di
massa che ricordano gli slogan pubblicitari).
Il carcere, come il mondo “di fuori”, non è più quello
di una volta. Esso ha risentito, in forma a volte ancora più visibile, dei
mutamenti profondi che hanno investito la società degli ultimi decenni. Ad
esempio, i vincoli di solidarietà, un tempo ferrei, si sono oggi allentati,
anche a causa del numero sempre maggiore di detenuti immigrati, che ha
trasformato la popolazione ristretta da un insieme più o meno “omogeneo” ad una
entità più complessa, divisa e sfuggente. Nonostante ciò, l’ex sindaco di Roma
G. Alemanno, arrestato l’ultimo giorno del 2024, ha affermato che il carcere
costituisce “un’intensa esperienza comunitaria” – difficilmente comunicabile a
chi non vi è stato — nell’ambito della quale i compagni di cella condividono
tutto (cibo, lavoro, emozioni, ricordi): un comunitarismo realizzato nel
contesto di una esperienza coatta e di margine (come possono esserlo, da un
altro punto di vista, le comuni), “a metà strada tra il campeggio e la
caverna”: ed è proprio la natura comunitaria dell’esperienza carceraria – non
certo la burocrazia statale — che permetterebbe di concretizzare quella
“rieducazione” del detenuto intesa come fine dall’art. 27 della Costituzione
(oggi in crisi)26. In tal modo, in un certo senso si
riproducono in carcere quei vincoli comunitari che, nel frattempo, sono stati
pesantemente depotenziati nel mondo “libero”27.
Ad ogni modo, in carcere ho imparato, tra le altre
cose, che “delinquente” e “cattivo” non sono sinonimi, nella vita reale. A
volte, i detenuti mi sono sembrati bambini28 (anche per le loro “immaginose” sparate e per il
loro codice basato sull’omertà). Inoltre, fare veramente i conti con se stessi
implica ed induce un certo grado di onestà: nei colloqui che ho avuto con loro,
quasi nessuno si è dichiarato innocente. Ma, in fondo in fondo, chi di noi lo è
del tutto?
MARCO TOTI
1 Non solo per le architetture tutte sviluppate in
orizzontale, i colori, le procedure da seguire ed altri dettagli in parte noti,
ma anche per i discorsi paradossali dei detenuti sulla criminalità (che non
sarebbe più quella di una volta!).
2 M. Foucault, autore del classico Sorvegliare e punire (Parigi 1975, per la prima
volta tradotto in italiano l’anno successivo), ha distinto tra pena pubblica
(destinata al corpo e visibile) e pena privata, invisibile e destinata
all’”anima”. La prima, concepita per lo più come punizione “compensatoria”,
sarebbe inerente ad un universo ideologico religioso, premoderno; la seconda,
intesa come “redenzione” laica, sarebbe nata nell’ambito degli antecedenti
storici del carcere moderno, le cdd. case di correzione: l’antecedente “remoto”
del carcere moderno sarebbero quindi le bridewells,
utilizzate a partire dalla seconda metà del XVI secolo in Inghilterra per i
bambini senzatetto e per la punizione delle “donne problematiche”. L’attività
di una sorveglianza virtualmente ininterrotta è ben espressa nel “carcere
ideale”, il Panopticon di J. Bentham, del
1791, ove i detenuti, che non possono distinguerla in quanto “oscurata”,
possono essere continuamente osservati dalla torre di guardia. Con ciò si è
passati da una violenza esplicita inflitta ai corpi ad un forse più subdolo soft power “psicologico”. Infine, il
detenuto è per l’appunto “ristretto” e “disciplinato” come corpo nello spazio
(sulla falsariga dell’esercito) e come anima nel tempo (al modo dei conventi);
in particolare, i corpi sono macchine da “efficientare” nelle scuole, nelle
fabbriche, negli ospedali, nei monasteri, in famiglia, nelle stesse carceri. In
democrazia, il regime “libertario” che ne risulta sarebbe possibile poiché i
diritti civili sarebbero concessi nel contesto di una ubiqua educazione
all’”autocontrollo” (ossia, per l’appunto, propria di una società
“disciplinare”).
3 A. Ricci-G. Salierno, Il carcere in Italia. Inchiesta sui carcerati, i carcerieri e
l’ideologia carceraria, Torino 1971, p. 274.
4 “[…] sono un bambino al quale è necessario
spiegare tutto”, dice un carcerato di sé, immaginandosi libero (A. Ricci-G.
Salierno, op. cit., p. 283).
5 “’Il linguaggio esterno’ si è arricchito di
nuovi termini e di espressioni che non comprendiamo. Il nostro si è
fossilizzato su vecchie espressioni e involgarito dall’intercalare dei vari
‘cazzo’, ‘in culo’, e via dicendo” (A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 283). Lo stesso discorso vale per certi
gesti, tanto antichi da apparire anacronistici, adoperati dai carcerati più
anziani (e di più lungo corso in galera).
6 A. Ricci-G. Salierno, op. cit., pp. 279-280. Questo rapporto è ben visibile
nell’ambito della sessualità: in carcere, da necessità il sesso diviene
ossessione, quindi mezzo di sfruttamento ed infine “rito”: “l’80 per cento […]
o inculano o si fanno inculare” (ibidem, p. 209).
Sulla libertà fittizia caratteristica dell’universo ideologico borghese, dentro
e fuori dal carcere, v. ibidem, p. 438.
7 “La prigione crolla se crei un
collegamento tra il mondo esterno e il mondo interno. Il tesoro vero
da salvare nelle carceri è l’isolamento”
(parole di un detenuto riportate in A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 234 [corsivi nostri]). Ciò illustra
bene come, compatibilmente con il carattere della società, nel carcere moderno
la pena, al di là di arbitrii spesso reali, è più “astratta” rispetto alla
“materialità” delle tradizionali pene corporali; ed essa risulta quantificata
in un tempo che si vorrebbe proporzionato al reato commesso. Tuttavia, la
tortura non costituisce solo una pratica che offende il corpo (ed anzi, le torture
più raffinate sono psicologiche).
8 A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 259. “Dopo questi anni di esilio, io già
temo di non ritrovare più me stesso”, afferma un carcerato (A. Ricci-G. Salierno, op. cit, p. 283).
9 Il carcere romano di Regina Coeli era in origine un convento.
10 Ricordiamo che San Giuseppe Cafasso, vissuto a
Torino nel XIX secolo, fu soprannominato “il prete della forca”, in quanto
accompagnava fino al patibolo i condannati a morte, dopo averli indotti alla
riconciliazione con Dio.
11 L’idea della segregazione come espiazione è
ripresa dalla vita monastica, ed è usata dapprima come pena canonica per i
chierici e per i regolari; d’altra parte, il mantenimento di molte persone in
strutture comuni era impensabile, e comunque non praticabile, in epoca
preindustriale (ringrazio il dott. R. Turrini Vita per queste informazioni). In
ambito cattolico, è con l’istituzione dell’Inquisizione ecclesiastica che fu
introdotto il carcere a vita come strumento di espiazione della pena. Sulle origini
del carcere moderno, in prospettiva marxista, è indispensabile D. Melossi-M.
Paravini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario,
Bologna 20184, variamente citato oltre, che significativamente
affermano a p. 144 n. 200: “La connessione tra isolamento, concezione
penitenziale o spirituale, come si diceva, della
pena e follia, è così sintetizzata dal Marx de La sacra
famiglia: ‘[…] Per l’uomo, per il quale il mondo sensibile diventa una semplice idea, le
semplici idee si trasformano per contro in esseri sensibili.
[…] Dentro al suo spirito si crea un mondo di fantasmi palpabili, sensibili. È
questo il mistero di tutte le visioni religiose; è questa nello stesso tempo la
forma universale della follia’”. A parte la forzata analogia tra religione e
follia, riteniamo che tale processo psicologico, certamente esacerbato in
carcere, sia fondamentalmente proprio del mondo moderno.
12 Ibidem, pp. 114-115.
13 Ibidem, p. 314.
14 N. Elias, Il processo di civilizzazione,
tr. it. Bologna 1982-1983.
15 D. Melossi-M. Pavarini, op. cit., p. 12. Il nesso tra penalità e capitalismo è
evidente in specie tra i quaccheri (ibidem, p. 35 n. 9);
inoltre, “il terreno della criminalità […] è quello privilegiato su cui avviene
lo scontro di classe” (ibidem, p. 126).
16 Ibidem, pp. 19 e 21.
“La stessa ‘invenzione’ del capitalismo prese forma nell’invenzione della casa
di lavoro”, avvenuta fin dalla seconda metà del 1500 in Inghilterra
(sulle workhouses quali antecedenti del carcere moderno
si può vedere ibidem, pp. 69-75); il principio di
costruzione del già menzionato Panopticon,
progettato da J. Bentham alla fine del XVIII secolo quale “casa di ispezione”,
viene poi esteso “a ciascuna sorta di stabilimento ove persone di condizione
assai diversa debbano essere sottoposte a sorveglianza”, ossia carceri,
fabbriche, case di lavoro, ospizi per poveri, manifatture, ospedali per folli,
lazzaretti, ospedali e scuole” (ibidem, p. 20), cioè
istituzioni “disciplinari” e tendenzialmente “totali”. Che la
concentrazione forzata di malati, proletari,
studenti e marginali (tutte categorie “deboli”) in un luogo preciso sia
un’immagine concreta – anche se parziale — della massificazione moderna?
17 Ibidem, pp. 25-26
(Foucault). V. anche ibidem, pp. 124-126.
18 Ibidem, p. 315 (v.
anche p. 316).
19 A. Ricci-G. Salierno, op. cit., pp. 18-19.
20 La “struttura” è quindi l’”universo ideologico”,
il modo di vita borghese-capitalistico, e non semplicemente le forze e i
rapporti produttivi.
21 A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 181.
22 A. Ricci-G. Salierno, op. cit., pp. 234-235. L’autoritarismo borghese è una
degenerazione del legittimo principio di autorità.
23 Questa connessione strutturale tra carcere e
criminalità “in uscita” serve a giustificare l’apparato repressivo, la cui
funzione tacita è quella di salvaguardare l’”ordine”, ossia l’ideologia
dominante (A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 277).
Tale salvaguardia costituisce una delle rappresentazioni più
efficaci del sistema: non è tanto importante infatti contenere la criminalità
entro limiti fisiologici, quanto rappresentare il potere che l’apparato statale
sembra avere su di essa (soprattutto per mezzo dell’apparato massmediatico). La
rappresentazione, ovviamente, è finalizzata alla perpetuazione dell’ordine
vigente.
24 In questo senso, senza che si annulli il
principio della responsabilità personale — senza però dimenticare che per molti
il crimine è una professione e il carcere un rischio, come negli scambi di
borsa! –, bisognerebbe sempre tener presente il contesto sociale di provenienza
del detenuto (e di quello in cui il detenuto si reinserirà, eventualmente, dopo
la sua scarcerazione). Sui problemi materiali e psicologici di chi esce v. A.
Ricci-G. Salierno, op. cit., pp.
285-306 (“l’angoscia è quando tu non sai dove appoggiarti” [p. 296]). Per chi
esce e non ha supporti esterni “rimane o la fuga, o la carriera di delinquente,
o il suicidio. […] la fuga può essere intesa appunto come suicidio” (p. 301).
Significativo quanto afferma un ex detenuto: “Ora sono un delinquente!”
(all’uscita dal carcere; all’ingresso, egli dice, non aveva contatti con la
malavita).
25 Su tale problema v. S. Ferraro, La pena visibile o della fine del carcere, Soveria
Mannelli (Cz) 2013.
26 https://www.barbadillo.it/120510-rebibbia-calling-alemanno-una-intensa-esperienza-comunitaria/. Teniamo a ricordare come da un
lato il modello comunitarista non sia facilmente adattabile a contesti
nazionali di una certa estensione e popolazione, dall’altro come sia
auspicabile una indagine approfondita sulla “comunità” quale luogo elettivo di
realizzazione della persona (anche nel suo essere un “tramite” fondamentale tra
questa e lo Stato).
27 Si pensi alla “visione del mondo” dei
totalitarismi novecenteschi, che non a caso utilizzarono, tra le parole
individuanti il modo di concepire i rapporti umani e politici, termini quali
“camerata” e “compagno”. Ciò manca, significativamente, nel liberalismo.
28 “[…] la caratteristica tipica di un prigioniero
è la regressione a livello infantile” (A. Ricci-G. Salierno, op. cit., p. 279). Di particolare interesse è la
“fantasmatizzazione dell’autorità”, operata spesso dal carcerato, in una sorta
di conflitto di odio-amore che può ricalcare il rapporto col padre-ombra (sul
tema v. anche ibidem, p. 283 e supra, n. 4). Un giorno un detenuto, osservando i libri
che portavo con me per la lezione, mi chiese: “professore, ma lei li sa tutti a
memoria questi libri?”.
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