Più che la festa dei lavoratori, la festa è stata fatta ai lavoratori.
Con più di 40 anni di riforme regressive del mercato del lavoro che hanno
distrutto i diritti conquistati con un secolo di lotte e che portarono alla
legge 300 del 20 maggio 1970, ovvero allo Statuto dei lavoratori.
Riforme che sono state realizzate dai Governi di tutti i colori con
l’appoggio trasversale dell’intero Parlamento e la complicità dei grandi
sindacati confederati (CIGL, CISL e UIL).
Riforme che ci sono state chieste e imposte (per esempio a colpi di spread
e con la lettera della BCE del 5 agosto 2011) dall’Unione Europea che accusava
l’Italia di avere un mercato del lavoro troppo rigido. Che poi vorrebbe dire
tutelato.
E così nel 1984 è stato prima fortemente depotenziato lo strumento per
adeguare automaticamente i salari al costo della vita (cioè all’inflazione), la
scala mobile, col decreto del 14 febbraio del 1984 e per questo passato alla
storia come decreto San Valentino, come se si trattasse di un atto
d’amore. Poi nel 1992 è stato del tutto abolito dal Governo Amato.
Poi sono arrivati il pacchetto Treu nel 1997 la legge Biagi nel 2003 che
hanno introdotto il lavoro interinale. Che vuol dire provvisorio (ad interim) e
che consente ad aziende private di mediare la domanda e l’offerta di lavoro. Un
ruolo, quello del collocamento, che prima apparteneva esclusivamente allo Stato
ma che era in contrasto col Trattato che istitutiva la Comunità Economica
Europea (CEE).
L’altro passo verso la flessibilità del mercato del lavoro è stato compiuto
attraverso il DL 368/2001, la legge Fornero e il Jobs Act che modificando la
legge 230 del 1962 hanno progressivamente liberalizzato i contratti atipici.
Quelli cioè a tempo determinato.
Il decreto Sacconi del 2011 ha invece consentito accordi sindacali al
ribasso rispetto ai Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro, mentre il
decreto Poletti del 2014 ha ulteriormente favorito la precarizzazione facendo
aumentare i contratti a tempo determinato e quelli di apprendistato.
Il DL Lavoro del Governo Meloni ha infine esteso l’uso dei contratti a
termine, cioè di quelli precari.
E così, finalmente, oggi il mercato del lavoro italiano è più flessibile
(vale a dire meno tutelato) sia di quello francese che di quello tedesco. Al
contrario di come fosse prima di questa lunga serie di riforme regressive (la
cui origine potrebbe essere fatta risalire addirittura alla legge 54 del 5
marzo 1977 che in nome della famigerata produttività abolì diverse festività
religiose).
Com’era prevedibile, al contrario di quello che ci era stato raccontato,
queste riforme hanno avuto un effetto devastante sulla crescita del Paese e
sulle nostre condizioni di vita.
L’obiettivo d’altronde era quello di favorire un sistema economico
mercantilista fortemente orientato alle esportazioni. Cioè il modello tedesco
su cui è stata costruita l’Unione Europea.
Un modello già insostenibile di suo e che all’Italia chiedeva un tributo di
sangue anche maggiore a causa di una moneta, l’euro, che mentre era per noi
troppo forte, era invece troppo debole per i nostri maggiori concorrenti. Vale
a dire per la Germania.
Cosa che ci ha “obbligati” (si tratta di scelte politiche, non del destino
cinico e baro) a contenere violentemente la domanda interna attraverso la
deflazione salariale. D’altronde se non puoi svalutare la moneta, sei costretto
a svalutare i salari.
A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che i conti non tornano perché
ogni mese l’Italia stabilisce un nuovo record dell’occupazione.
Ora, lasciamo perdere che l’Istat – adattandosi ovviamente alle normative
comunitarie – calcola occupato chi nella settimana dell’indagine sulle forze
lavoro abbia lavorato anche solo un’ora e anche se non pagato (in un’azienda di
famiglia) o se pagato in natura.
Andiamo ad analizzare dati alla mano in cosa consiste e a cosa è dovuta
l’occupazione record degli ultimi mesi.
L’occupazione è effettivamente cresciuta passando dai 22,2 milioni di occupati
del 2012 ai 24 milioni del 2024. Ma quale occupazione?
Innanzitutto, “grazie” alla riforma Fornero che ha aumentato l’età
pensionabile, sono cresciuti del 60% i lavoratori con età superiore ai 50 anni
che sono passati dai 6,1 milioni del 2012 ai 9,8 del 2024.
Un aumento talmente imponente da compensare il calo dei lavoratori tra i 25
e i 49 anni che sono scesi da 14,9 milioni a 13.
Anche perché nello stesso lasso di tempo, gli italiani tra i 20 e i 40 anni
ufficialmente espatriati in cerca di lavoro sono passati da 1,1 milioni a 1,7
milioni. Dico ufficialmente perché come dimostrano diversi studi di settore,
gli espatriati che si registrano effettivamente all’AIRE sono la metà se non
addirittura un terzo del totale. Il che vuol dire che gli italiani all’estero
sono almeno il doppio se non il triplo. La maggior parte di quali con meno di
40 anni e laureati.
Va inoltre anche detto che tra il 2013 e il 2024 la popolazione in età
lavorativa (15-64 anni) si è ridotta di 2,2 milioni di unità, passando da 39,1 a
36,9 milioni. Il che molto banalmente vuol dire che anche a parità di occupati,
crescere il tasso di occupazione.
Bisogna poi sottolineare che in Italia negli ultimi vent’anni si è
assistito a una crescita di lavoratori a tempo parziale che sono passati dal
12,4% del 2004 al 16,8% del 2024 (più di 4 milioni). Tra questi, sono
sensibilmente aumentate le persone costrette al tempo parziale involontario,
che sono passate dal 33% del 2004 al 58% del 2024.
I lavoratori e tempo determinato, cioè i precari, sono passati da 1,5
milioni del 1993 ai 2,7 del 2024, un aumento dell’80%.
Gli inattivi nella fascia di età 15-74 anni sono 18,6 milioni (12,5 milioni
nella fascia 15-64 anni). I disoccupati sono 1,5 milioni. Il che vuol dire che,
tanto per cambiare, non abbiamo ancora recuperato i livelli pre-crisi del 2007
quando erano 1,3 milioni.
Ci sta poi quello che forse è uno degli indicatori più importanti: la forza
lavoro sottoutilizzata che comprende disoccupati, inattivi disposti a lavorare
e lavoratori sottoccupati.
In Italia si tratta del 15,8% della forza lavoro, cioè di 4,4 milioni di
persone. La percentuale più alta in Europa dopo Spagna (19,3%), Finlandia
(17,9%) e Svezia (17,8%) e la più alta in valori assoluti dopo Spagna (4,9
milioni) e Francia (4,7 milioni).
Ci sta però a mio avviso un altro fattore che andrebbe preso in
considerazione per valutare il peggioramento delle condizioni di lavoro in
Italia. E cioè lo spostamento del lavoro dall’industria ai servizi (soprattutto
a quelli legati al turismo).
Gli occupati nell’industria manifatturiera sono passati dai 4,6 milioni del
1995 ai 3,9 del 2024, un calo del 13%. Quelli nei servizi dai 14 milioni del
1995 ai 19,5 del 2024 (+38%).
Se si va a calcolare (con tutti i limiti del caso) l’impatto diretto
(include tutti i dipendenti di alberghi, ristoranti, agenzie di viaggio, parchi
divertimento e altre strutture turistiche) e indiretto (include tutti coloro
che lavorano nelle aziende che forniscono servizi al settore turistico, come
fornitori di cibo, bevande, attrezzature, ecc., e che beneficiano
indirettamente delle entrate turistiche) del turismo sul lavoro vediamo che nel
2022 le industrie principalmente legate al turismo hanno dato lavoro a 353.990
persone mentre il settore del turismo allargato a 1.931.670, nel 2023 il
settore turistico diretto ha dato lavoro a 384.786 persone (+8,7%) mentre il
settore del turismo indiretto a 2.043.108 (+5,8%). Tra il1990 e il 1995 i
lavoratori del settore turistico allargato erano tra i 950.00 e i 990.000.
Tra il 1990 e il 1995, secondo i dati ISTAT, il valore aggiunto del turismo
sul PIL era del 3%, nel 2010 del 5,1% e nel 2019 del 5,7%.
Contando invece sia il settore turistico diretto che quello indiretto, nel
2011 l’impatto era dell’8,6% PIL, nel 2019 del 10,6%, nel 2023 dell’11,4% e nel
2024 del 10,8%.
Più in generale, nel 1980 industria valeva il 25% del PIL (circa 320 mld di
euro attualizzati), mentre oggi è scesa al 20% (circa 420 mld). I servizi
invece sono passati dal 64% PIL (circa 850 mld) al 72% (circa 1500 mld).
Si tratta di un dato importante perché mentre il lavoro nel settore
industriale è spesso ad alto valore aggiunto, stabile e con salari migliori,
così non è per il settore dei servizi in generale e del turismo in particolare.
E infatti se è vero che i salari medi reali in Italia sono scesi del 4,4%
tra il 1990 e il 2024, se si vanno a vedere le retribuzioni orarie reali del
settore turistico dal 2012 ad oggi sono diminuite del 14,1%.
Quando per così tanto tempo cala il peso dell’industria e aumenta quello
del turismo, si tratta di un evidente processo di terzomondizzazione che causa
il progressivo deterioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e,
quindi, della popolazione in generale.
Tenendo conto di tutto quello che è stato detto, non dovrebbe quindi
sorprendere che gli italiani in condizioni di povertà assoluta sono passati da
1,9 milioni del 2005 ai 6,2 del 2024, mentre quelli in condizioni di povertà
relativa sono passati dai 6,4 milioni del 1997 agli 8,4 del 2023.
Un processo di impoverimento dei lavoratori da cui ovviamente qualcuno ha
tratto un indebito vantaggio in termini di ricchezza accumulata.
E infatti la quota salari sul PIL è passata dal 67,2% del 1975 all’attuale
52,5%, mentre la quota profitti è passata dal 32,8% del 1975 all’attuale 47,5%.
[Tutti i dati sono stati presi dalla banca dati ISTAT
https://esploradati.istat.it/databrowser/#/it/dw/categories
da quella Eurostat/AMECO
E dall’archivio storico dell’ISTAT per i bollettini con dati non presenti
del database
https://ebiblio.istat.it/SebinaOpac/.do]
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