9 maggio. L’Europa contro il genocidio
Il 9 maggio è la Giornata dell’Europa: ma è anche l’ultimo giorno di Gaza.
Perché il tempo sta finendo, per questa terra nostra. Questa terra del
Mediterraneo, il mare che ci unisce. Per questo, in quella giornata in cui ci
chiediamo chi siamo, vi chiediamo di parlare di Gaza, di farlo ovunque vorrete.
E di farlo, tutte e tutti, sulla rete: su siti, canali video, social. E sempre
con l’hashtag #GazaLastDay, #UltimogiornodiGaza.
Senza il mondo Gaza muore. Ed è altrettanto vero che senza Gaza siamo noi a
morire. Noi, italiani, europei, umani.
Per rompere il silenzio colpevole useremo la rete, che è il solo
mezzo attraverso cui possiamo vedere Gaza, ascoltare Gaza, piangere Gaza.
Perché possano partecipare tutte e tutti, anche solo per pochi minuti. Anche
chi è prigioniero della sua casa, e della sua condizione: come i palestinesi, i
palestinesi di Gaza lo sono. Perché almeno stavolta nessuna autorità e nessun
commentatore allineato possa inventarsi violenze che occultino la violenza:
quella fatta a Gaza.
Sulla rete, e non solo. Per chi vuole mettere in rete ciò che succede nelle
piazze e nelle comunità che si interrogano, assieme, su come fermare la strage.
Con la consapevolezza che noi siamo loro. E che a noi – italiani ed europei
– verrà chiesto conto della loro morte. Perché a compiere la strage è un nostro
alleato, Israele. Per ripudiare l’Europa delle guerre antiche e
contemporanee, per proteggere l’Europa di pace nata da un conflitto
mondiale, esiste un solo modo: proteggere le regole, il diritto, e la giustizia
internazionale. E soprattutto guardarci negli occhi, e guardarci come la sola
cosa che siamo. Umani.
Aggiungiamo tutte le parole che vorremo usare all’hashtag #ultimogiornodigaza#gazalastday.
Senza scomunicarne nessuna, senza renderne obbligatoria nessuna. Per
chiamare le cose con il loro nome. Ora è il momento di costruire una rete di
senza-potere determinati a prendere la parola. E il 9 maggio è la prima tappa
di una strada assieme. Perché la strage, perché il genocidio, abbiano fine.
Ora.
[Paola Caridi, Claudia Durastanti,
Micaela Frulli, Giuseppe Mazza, Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Evelina
Santangelo]
#ultimogiornodigaza#gazalastday
APPUNTAMENTI A ROMA:
§
9 maggio, ore 18: Ponte Sisto e Piazza Trilussa
§
10 maggio, ore 10 al Pantheon con Stop Rearm Europe
Fermare
questo orrore – Moni Ovadia
Negli
anni del dopo Shoah, l’Occidente si è interrogato a lungo se si poteva fare
qualcosa per fermare quell’orrore. Naturalmente si sarebbe potuto fare
qualcosa, ma non si è fatto.
Apprendiamo
che Netanyahu ha deciso un’azione con truppe di terra in Gaza e la deportazione
dei gazawi. Dove?
Siamo a un punto che se il governo israeliano
decidesse di internare i Palestinesi in campi di concentramento, potrebbe farlo
nell’inerzia dei governi degli altri Paesi, dopodiché potrebbe farne
ciò che vuole, come del resto sta già facendo.
Alla
fine di tutto questo, perché prima o poi una fine arriva sempre, ci
interrogheremmo sul come sia potuto accadere e se si sarebbe potuto fare
qualcosa per fermare questo orrore.
Naturalmente
si sarebbe potuto fare qualcosa, ma non si è fatto.
Amos Goldberg: “Gaza non esiste più: questo è
genocidio”
(intervista
di Sabrina Provenzani)
“Quello che Israele sta commettendo a Gaza è un genocidio”. Amos
Goldberg è professore di Storia dell’Olocausto presso il Dipartimento di Storia
Ebraica e Studi Contemporanei dell’Università Ebraica di Gerusalemme. “Mi sono
avvicinato allo studio del genocidio perché credo che, studiandolo, possiamo
comprendere meglio i pericoli e le minacce che affrontiamo come individui,
società e culture. Mettiamo da parte l’Olocausto per un momento: quasi sempre i
genocidi, per chi li perpetra, sono reazioni di autodifesa rispetto a una
minaccia reale o immaginaria. Ora, ed è molto importante sottolinearlo: il 7
ottobre è stata una catastrofe. Un trauma profondo, un crimine atroce, che ha
colpito persone a me molto vicine. Siamo rimasti tutti scioccati; l’abbiamo
vissuta come una minaccia esistenziale. Non abbiamo nemmeno potuto elaborare il
lutto. Ma anche quel crimine deve essere compreso – non giustificato – nel suo
contesto: la Nakba, l’occupazione, l’assedio, l’apartheid… La risposta di
Israele è stata completamente sproporzionata, e nessun crimine, per quanto
atroce come quello del 7 ottobre, giustifica un genocidio.
Ma come rientra nella definizione di
genocidio?
È un crimine difficile da identificare, ma la Convenzione Onu per la
prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948 offre una
definizione ampiamente accettata. Significa non semplicemente uccidere molte
persone, ma avere l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo
etnico, nazionale, razziale o religioso. E, lo indica il nome, include
l’obbligo di prevenirlo. Quell’intento specifico di distruzione è chiaro a
Gaza. Che, come società, non esiste più. Per mesi, in Israele, sono stati
pronunciati pubblicamente, sui media e social media, incitamenti al genocidio,
dall’alto al basso – da funzionari governativi, generali, celebrità dei media,
rabbini, anche soldati. Questo è stato ampiamente documentato. Gli schemi di
annientamento sono innegabili: uccisioni di massa, abbattimento della maggior
parte delle abitazioni, distruzione sistematica di ospedali, infrastrutture,
edifici religiosi, università e istituzioni; fame, cecchini che prendono di
mira persone innocenti, bambini compresi. Queste azioni distruggono le
condizioni che rendono possibile una società: annientano un collettivo mentre
disumanizzano un’intera popolazione. 45 mila morti, oltre 100 mila feriti.
Molti altri muoiono a causa della mancanza di strutture e forniture mediche.
L’intera popolazione è sfollata. Gaza non esiste più.
Ma il termine genocidio porta con sé un peso
enorme. La sua associazione con l’Olocausto continua a influenzare la Germania.
Associare Israele, un paese in fondo nato dall’Olocausto, a un genocidio è
indicibile per molti.
Sì, perché l’unico genocidio a cui pensiamo è l’Olocausto. Quindi, se
non è Auschwitz o Treblinka, non è un genocidio… Gli europei, e soprattutto i
tedeschi, provano sensi di colpa e la responsabilità di proteggere Israele,
anche se è lo stato più potente del Medio Oriente. Può superare la soglia del
crimine più orrendo del diritto internazionale, ma se lo critichi troppo vieni
subito considerato antisemita. Prendiamo Tony Blinken, che nega il genocidio a
Gaza e sostiene incondizionatamente Israele. Poco prima del 7 ottobre ha
visitato il Museo dell’Olocausto a Washington per riconoscere come genocidio le
atrocità commesse in Myanmar. Nella sua dichiarazione basta cambiare le parole
con Gaza e Israele per ottenere un’analogia quasi perfetta. Quindi si può
attingere autorità morale dall’Olocausto per parlare del genocidio in Myanmar,
che fra l’altro è molto diverso dall’Olocausto, ma per Israele saltano tutte le
regole. Capisco la delicatezza di parole come Olocausto e genocidio, la
condivido pienamente. Dobbiamo essere cauti e sensibili. Ma dobbiamo anche
prevenire i genocidi. Il rischio non è solo violare la memoria, destabilizzare
identità o ferire sentimenti. Qui ci sono persone che vengono uccise ogni
giorno a decine, bambini che muoiono di fame. Dobbiamo fermare questo. Perché
studiamo l’Olocausto se non ne impariamo la lezione?
Lei sta ponendo la questione dell’eredità
dell’Olocausto…
Yehuda Elkana era un prestigioso studioso israeliano, sopravvissuto
all’Olocausto. Nel 1988, all’inizio della prima Intifada, scrisse:
“Dall’Olocausto si possono trarre due lezioni: ‘mai più’ e ‘mai più a noi’.
Israele ha deciso di imparare la seconda e, di conseguenza, di non ricordare.
La Germania in teoria ha appreso il ‘mai più’ per tutti, ma più passa il tempo
più sembra che intenda: ‘Mai più dobbiamo sentirci in colpa’.. Difendere
Israele è diventato una parte importante della loro identità. Io apprezzo la
loro cultura della memoria, ma non che sostengano un genocidio attuale in nome
di un genocidio passato, più estremo, che hanno perpetrato. È diventata una
scusa per essere razzisti: puoi essere razzista e sostenere un genocidio ma
mantenere la superiorità morale giustificandoti con la ‘lotta contro
l’antisemitismo’.
Ma Israele è davvero in una posizione
eccezionale, per la sua storia e per la polarizzazione che attrae…
Sì, per molte ragioni. Ma anche perché gode di una protezione che
nessun’altra nazione riceve. Ciò che è davvero eccezionale di Israele è che
viola tutte le regole del diritto internazionale e la fa franca.
Lei è uno dei molti ebrei che lo denunciano…
si sente ancora, in qualche modo, parte di quella realtà?
Non ‘in qualche modo’. Ne faccio completamente parte. È la mia
società. Lo fanno a nome mio. Insegno all’università: sono le mie tasse. Siamo
complici. Lasciamo che accada. Non lo abbiamo prevenuto. Ci ho messo sei mesi
per capirlo: avrei dovuto capirlo prima. Protestare comporta un rischio
personale, soprattutto per i palestinesi, anche quelli con cittadinanza
israeliana. O tacciono del tutto o vengono arrestati, quindi in Israele sono
quasi invisibili. Ma questo è il momento di insistere sulle voci palestinesi,
anche se dicono verità molto dolorose per noi israeliani e anche per voi
europei, anche voi complici. Il mio amico Alon Confino non smetteva mai di
ricordarlo: uno degli imperativi morali e politici dell’Olocausto è che dobbiamo
sempre ascoltare la voce delle vittime.

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