Israele sta perdendo la guerra. Non quella militare, quella morale. E chi aveva tenuto la bocca chiusa per diciannove mesi, chi aveva finto di non vedere, chi aveva giustificato l’ingiustificabile, adesso comincia a cambiare registro.
È il momento
in cui i topi abbandonano la nave. E la nave è l’apparato retorico che per un
anno e mezzo ha sostenuto, coperto, depotenziato il genocidio di Gaza. Ora che
affonda, tutti cercano un salvagente.
Editoriali
che fino a ieri tacevano si mettono il lutto al braccio. Il Financial
Times parla di vergogna (maggio 2025). The Economist evoca
l’uscita da una guerra che non ha più giustificazioni (maggio 2025). The
Independent pubblica un editoriale che accusa Starmer di silenzio
complice (11 maggio 2025). The Guardian si chiede senza
remore: “Cos’è questo, se non un genocidio?” (12 maggio 2025).
Persino The
Times, storicamente conservatore, si sbilancia. Sono comitati editoriali,
non giornalisti individuali. Sono istituzioni della stampa che fino a ora hanno
gestito la cornice narrativa e che solo adesso cambiano posizione.
E questo
cambio di paradigma avviene solo ora. Non nel 2023, non nei mesi iniziali del
massacro, non quando i dati parlavano già di crimini di guerra. È un ritardo
strategico. Una reazione tardiva alla paura: perdere lettori, perdere voti,
perdere l’ultima occasione di non essere complici, come chi dopo il 1944 si
affrettò a dichiararsi antifascista per salvarsi la coscienza e la reputazione.
È un
riflesso da regime in caduta. Come i funzionari del partito fascista che nel
1944 si scoprivano all’improvviso antifascisti. Come i gerarchi che, vista la
disfatta, si dicevano sempre stati in dissenso. Non è una conversione. È un
modo per non marcire con la nave. È la parte più vigliacca della coscienza:
quella che non agisce quando vede l’orrore, ma quando fiuta che l’orrore ha
esaurito la sua legittimità.
Eppure i
dati c’erano. Le immagini c’erano. I bambini carbonizzati. I convogli umanitari
colpiti. Le denunce dell’ONU, delle ONG, dei giornalisti sul campo. Già nel
2023 Amnesty e Human Rights Watch parlavano di crimini di guerra. Già a
novembre 2023 oltre 750 giornalisti firmavano una lettera in cui accusavano i
media di normalizzare una pulizia etnica.
Il punto di
non ritorno arriva tra dicembre e gennaio, con la Corte Internazionale di
Giustizia che riconosce la plausibilità dell’accusa di genocidio. Poi i
bombardamenti su Rafah, poi gli attacchi agli ospedali, poi le immagini che
nemmeno la stampa embedded riesce più a filtrare. E allora, sì, qualcosa si
incrina. Ma non per pietà. Per strategia. Per evitare di essere ricordati tra
quelli che sapevano e tacevano.
Nel
frattempo, a Gaza, i numeri crescono. Più di 50.000 morti a maggio 2025. La
maggioranza donne e bambini. Fame, sete, ferite aperte. E tra questi anche
oltre 85 giornalisti uccisi sotto fuoco israeliano. 124 giornalisti sono stati
uccisi nel mondo nel corso del 2024, 85 di questi sono stati uccisi da fuoco
israeliano durante il conflitto a Gaza e in Libano.
Il 70% dei
giornalisti di guerra UCCISI NEL MONDO, SONO STATI UCCISI DA ISRAELE. Una
guerra contro i testimoni. Una censura che uccide. E allora anche la stampa si
rivolta. Anche chi aveva taciuto per paura ora parla per non essere linciato
dalla storia.
Nel
linguaggio delle redazioni il genocidio diventa plausibile. Poi probabile. Poi
reale. Non perché ci sia stata una rivelazione. Ma perché la bilancia del
consenso ha oscillato. Perché i lettori cambiano idea. Perché i manifestanti
sono diventati troppi. Perché i sondaggi mostrano il crollo di fiducia. Perché
il mercato editoriale non perdona chi rimane indietro.
Si chiama
effetto resistenza, ma non è nei giornali. È nei corpi che hanno resistito
prima. Nelle università occupate. Nei giornalisti che si sono licenziati. Nei
giovani che hanno perso tutto per dire la verità quando non conveniva. Loro
sono la resistenza vera. I giornali arrivano dopo. Arrivano quando si può.
Quando è utile. Quando è già tardi.
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