(Il Manifesto 08.05.2025)
Gaza è entrata in noi,
anche nel più distratto di noi. Anche in chi non crede di avere spazio per Gaza
dentro di sé. Se Smotrich dice «sarà completamente distrutta» e un minuto dopo
non viene afferrato e messo in vincoli, zittito e condannato, ma resta al suo
posto significa che noi tutti saremo distrutti, che già lo siamo mentre
guardiamo e aspettiamo.
Se qualcuno sente
l’inutilità dei propri giorni e se ne chiede il motivo.
Se il nostro vivere occidentale abituato alle agende da rispettare, ai piccoli
e grandi dolori, al lavoro e al riposo, alle strade da attraversare, sente che
non c’è più tempo per nulla.
Chi dovesse essere
afferrato dall’inanità della vita, e si dovesse chiedere ma perché? Eppure ho
fatto ho detto ho sentito ho scritto, allora perché?
Allora è Gaza.
Dopo settantacinque
anni di apartheid, in cui è stato possibile che tre generazioni di persone
dovessero chiedere il permesso di vivere dove erano nate, chiusi dentro una
striscia di terra, scusa se passo e scusa se torno, e quella terra mangiata
metro dopo metro, e case profanate a una a una. Dopo due intifada, dopo che
abbiamo ascoltato la poesia e il teatro palestinese, e portato la kefiah e
sentito fiorire la possibilità in una stretta di mano tra Rabin e Arafat. Dopo
che abbiamo chiesto che venisse riconosciuto lo stato di Palestina e abbiamo
visto che non succedeva, non qui, non dappertutto, non ora (e quando dico noi
intendo un noi in cui ci si dimentica chi siamo perché non è così importante).
Dopo quasi seicento
giorni di omicidi di bambini e donne, e medici e giornalisti, dopo gli orrori
dei tunnel, dopo l’appoggio palese o velato, politico o economico di tutti alla
destra d’Israele.
Mentre ascoltiamo
Netanyahu capo di stato incriminato dal tribunale de l’Aja dire che domani i
palestinesi saranno ancora deportati, che i soldati israeliani entreranno per
restare. Per restare dove? come? A far che? Per essere uccisi anche loro in uno
scontro finale, per osservare l’ultima volta come si muore di fame e di
malattia perché lì fuori hanno permesso che accadesse ancora. Che i camion si
fermassero. Che il diritto internazionale non entrasse. Avevamo detto mai più e
invece di nuovo.
Lì dove il capo
dell’esercito israeliano si oppone al piano militare del premier e dice «non
possiamo farli morire di fame».
Dove la moglie del
premier abbassa gli occhi perché sa che non è vero: che gli ostaggi del 7
ottobre in vita sono meno di così e comunque cosa accade loro se domani
Netanyahu entra «per restare»?
Quando «occupazione
totale» non è un sintagma nominale qualsiasi perché suona nella sua costruzione
così simile a «soluzione finale», e chi l’ha trovato scritto nei libri ha sperato
di non sentirlo più.
Davanti alla
buganvillea impolverata di Susan Abulhawa quando non c’era già più nulla da
mangiare a nord – eppure fiorita.
Dopo dieci minuti di
buio nelle nostre case per non sopportare la frustrazione del niente potere –
ogni dieci minuti lì muore un bambino, in quei dieci minuti è morto un bambino.
Se cerchiamo di non
pensarci e continuiamo a fare dire pensare attraversare le strade, soffriamo o
ci dimentichiamo, agiamo o scappiamo ma i conti non ci tornano.
Allora è Gaza.
Gaza è entrata in noi,
anche nel più distratto di noi. Anche in chi non crede di avere spazio per Gaza
dentro di sé. Se Smotrich dice «sarà completamente distrutta» e un minuto dopo
non viene afferrato e messo in vincoli, zittito e condannato, ma resta al suo posto
significa che noi tutti saremo distrutti, che già lo siamo mentre guardiamo e
aspettiamo.
Questo peso che ci fa
camminare curvi così che gli occhi non possano guardare alcun orizzonte. Se
l’orizzonte è scomparso, allora è Gaza.
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