Un motore trainante dell’economia: tale è, per Giorgia Meloni, il turismo. Dobbiamo essere grati, ha puntualizzato Meloni, al Ministro Santanché e all’imprenditoria, in particolare al settore ricettivo. Ma siamo proprio sicuri di questa scelta e, ancor più, della riconoscenza dispensata? Nonostante tutto quel che sappiamo di lei (e non è poco), Santanché è da ritenere utile alla Repubblica? Ristoratori e albergatori sono davvero dei benemeriti della comunità nazionale, nonostante il trattamento economico riservato ai lavoratori del settore? E poi siamo certi che ci salveremo grazie all’overtourism, nonostante i gravissimi dissesti che esso produce su ambiente, monumentalità, residenzialità delle nostre città e, in generale, del territorio nazionale? Nel calcolo costi-benefici, il saldo, specie in prospettiva, sarà davvero positivo, anzi ultra-positivo?
Meloni
non ha dubbi. Però, un poco incautamente, evoca il confronto con la Grecia, pur
riconoscendo che non siamo ancora ai suoi livelli: ci arriveremo, sì, e la
supereremo. Il confronto con la Grecia evoca scenari del secolo scorso non
proprio incoraggianti per l’Italia. Il punto è che noi abbiamo dimostrato, nel
dopoguerra e per un periodo alquanto lungo, di essere capaci di produzioni
industriali all’avanguardia, con un’imprenditoria non da terrazza a mare o da
calice di prosecco, ma corredata di opifici concorrenziali con gli omologhi
delle grandi potenze occidentali. Se ora siamo costretti a consegnarci al
turismo, vuol dire che dichiariamo di essere non semplicemente in crisi, ma in
decadenza irreversibile.
L’amore,
insegna il filosofo, è spesso ammantato di follia o è follia senz’altro. Questa
è anche la cifra dell’amore per la ricchezza lasciata dai forestieri, e non,
alle strutture ricettive del Paese: è in atto una pericolosa trasformazione
delle istituzioni e, in parte, degli stessi cittadini. Si attendono – perché
sembrano essere assenti – analisi sociologiche serie e oggettive. Chi è che non
vede cosa succede nelle strade e nelle piazze di Roma, di Firenze, di Venezia e
anche di città minori, abilmente inserite nei circuiti del turismo rapace?
Plateatici e tavolini ovunque, Soprintendenze ridotte all’inattività da leggi,
provvedimenti governativi e sentenze amministrative conniventi con il desiderio
di questi guadagni facili e molto esclusivi in quanto riservati a pochi o a
pochissimi. L’atmosfera che involve e vincola è quella della baldoria diffusa e
deresponsabilizzante: esattamente quella che alimentano gli astuti signori
dell’accoglienza a pagamento.
Preoccupa
che questi astuti, talora oscuri, signori non siano soltanto soggetti privati:
che questi ultimi perseguano il lucro personale a tutti i costi non dico che ci
sta, ma che ce lo si può attendere. Il potere pubblico dovrebbe servire a
controllare e stabilire la linea del limite affinché l’interesse comune non sia
compromesso o, almeno, eccessivamente compromesso. Invece no: Comuni, Province,
Regioni, di qualunque parte politica, incoraggiano l’irrompere e lo
spadroneggiare di queste orde di celebranti i sacri riti del turismo e del
divertimento irresponsabili. Le conseguenze, o alcune di esse, sono state
denunciate con coraggio da qualche organo d’informazione: per esempio, l’estate
scorsa, L’Espresso ha indicato affitti alle stelle, servizi e
trasporti al collasso, residenti penalizzati e in rivolta. Fenomeno, lo
sappiamo, non solo italiano, ma comune ai Paesi ad alta vocazione turistica, ma
mai tra i primi quanto a potere economico e welfare.
Tra le
istituzioni che agognano a far cassa attraverso la vendita di prodotti a buon
mercato e, mediamente, di bassa qualità si annoverano, ahinoi, anche le
università. Sì, le università che, angosciate da un sistema demenziale che
premia chi laurea di più e prima, si son date alla caccia degli studenti,
grosso modo come fanno gli imprenditori del turismo con i vacanzieri. Rettori
che gongolano se le matricole del loro ateneo aumentano e ancor più se ciò
avviene in danno dell’amico rettore territorialmente più prossimo. Venghino,
signori studenti, venghino da noi: promettiamo divertimento organizzato,
tessere sconto per negozi e pizzerie, escursioni studio, corsi senza libri,
esami umani ecc. Un po’ (solo un po’) alla stregua del Paese dei Balocchi. Lo
studente come consumatore e, prima ancora, come cliente di università-aziende,
moltiplicatrici di corsi di laurea con denominazioni verbose e incomprensibili,
officine a produzione continua di diplomi, soggetti istituzionali parlanti i
linguaggi unidirezionali della contemporaneità; una certa politica sullo
sfondo; università senza un preciso scopo istituzionale o, almeno, senza lo
scopo unico dell’acculturamento (che se ci sarà, bene; altrimenti è lo stesso o
quasi).
Gli
studenti Erasmus sono un poco tutto questo e anche di più: quasi figure
iconiche del trend imperante e imperativo. Non dico che sia sempre così e per
fortuna. Ma essi rappresentano certamente l’optimum: a un tempo studenti
e turisti, possono frequentare i corsi regalandogli il colore
dell’internazionalizzazione, soprattutto spendono e fungono da strumento di
promozione gratuita. Occorre allora che escano dall’università-azienda come
clienti soddisfatti. Almeno secondo la mia personale esperienza, direi che loro
se ne sono accorti di essere preziosi; in cambio chiedono solo di essere
promossi senza studiare alcunché.
Nessun commento:
Posta un commento