Appello referendario. Vivere da cittadini, lavorare con dignità, creare
democrazia
Negli ultimi
anni le condizioni di incertezza e precarietà sono state aggravate anche da
alcune politiche che regolano la nostra vita e il nostro lavoro. Diventare cittadini
italiani è diventato più difficile per chi è di origine straniera. Le tutele
del lavoro sono state ridotte, con effetti negativi sulla qualità
dell’occupazione, sui salari, sulle disparità tra uomini e donne, sulla
sicurezza sul lavoro. Politiche di questo tipo hanno alimentato la sfiducia,
allontanato le persone dalla politica, aggravato la crisi della democrazia. Non
è una deriva inevitabile. Le regole e le politiche possono essere cambiate per
dare più protezione a chi vive e lavora in Italia. L’8 e 9 giugno 2025 si potrà
votare per 5 referendum che chiedono di cancellare alcune misure che hanno
peggiorato le condizioni di vita e di lavoro in Italia.
1. Vivere da
cittadini. Riduciamo
da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale in Italia richiesto per ottenere
la cittadinanza italiana ai maggiorenni stranieri. Chi la ottiene potrà poi
trasmetterla a figli e figlie minorenni. Circa due milioni e mezzo di persone
potrebbero così vivere da cittadini. Abroghiamo la legge che nel 1992 ha
raddoppiato il periodo di soggiorno richiesto.
2. Vite meno
precarie. Riduciamo
la possibilità di usare contratti di lavoro a tempo determinato, limitandone
l’utilizzo a esigenze specifiche. Oltre due milioni e mezzo di persone,
soprattutto giovani, lavorano oggi con contratti a termine e vivono una
condizione di precarietà, insicurezza e bassi salari. Abroghiamo le norme che
hanno liberalizzato l’utilizzo del lavoro a termine.
3. Lavorare
senza licenziamenti illegittimi. Riduciamo le possibilità di licenziamenti senza
giusta causa. Tre milioni e mezzo di lavoratrici e lavoratori a tempo
indeterminato sono stati assunti dopo il 2015 in imprese con oltre 15
dipendenti. Per loro le imprese possono effettuare licenziamenti senza giusta
causa e non è possibile per loro ottenere dal giudice il reintegro nel posto di
lavoro. Abroghiamo le norme che impediscono il reintegro al lavoro in caso di
licenziamenti illegittimi.
4. Lavorare
senza discriminazioni. Riduciamo le possibilità di licenziamenti illegittimi nelle piccole
imprese. Tre milioni e mezzo di persone lavorano in imprese con meno di 16
dipendenti. Per loro le imprese possono effettuare licenziamenti senza giusta
causa e offrire un indennizzo limitato a sei mensilità. Abroghiamo le norme che
facilitano i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese, lasciando al
giudice del lavoro la possibilità di definire l’indennizzo.
5. Lavorare
senza infortuni. Riduciamo
i rischi di incidenti e morti sul lavoro. Ogni anno ci sono in Italia quasi 600
mila denunce di infortuni e oltre mille morti sul lavoro. Gran parte di questi
avviene in imprese che operano in subappalto, spesso piccole aziende senza
procedure di sicurezza adeguate. Abroghiamo le norme che impediscono, in caso
di infortunio sul lavoro negli appalti, di estendere la responsabilità
all’impresa appaltante (…) I 5 referendum sono l’occasione per fare in modo che
le politiche tornino a proteggere le persone, e che la politica sia fatta di
partecipazione e democrazia. In un mondo segnato da derive autoritarie, lo
strumento che abbiamo per fermarle è proprio la pratica della democrazia, a
cominciare dalla partecipazione al voto per i referendum. Per queste ragioni,
sui 5 referendum – come persone impegnate nel mondo dell’università e della
ricerca – (…) l’8 e 9 giugno 2025 invitiamo a partecipare ai 5 referendum e a
votare SI.
Tra i
firmatari: Gaetano Azzariti, Donatella Della Porta, Emanuele Felice,
Luigi Ferrajoli, Silvio Garattini, Chiara Giorgi, Maria Cecilia Guerra, Tomaso
Montanari, Francesco Pallante, giurista, Università di Torino Giorgio Parisi,
Mario Pianta, Alessandro Portelli, Giorgia Serughetti, Salvatore Settis,
Pasquale Tridico, Nadia Urbinati, Gianfranco Viesti
Il costituzionalista Pallante: “Referendum oscurati, temono che il lavoro
ritorni un diritto” – Silvia Truzzi
“Vivere da cittadini, lavorare con dignità” è
il titolo di un appello che tenta di squarciare il silenzio sui referendum
dell’8-9 giugno: lo hanno firmato intellettuali e accademici come il premio
Nobel Giorgio Parisi, Nadia Urbinati, Silvio Garattini, Gaetano Azzariti,
Salvatore Settis e Tomaso Montanari. Tra loro c’è anche Francesco Pallante,
ordinario di Diritto costituzionale a Torino.
Professore,
c’è un gran silenzio attorno all’appuntamento di giugno: perché?
I referendum
mirano, nel loro complesso, ad aprire una breccia negli attuali equilibri di
potere che vedono la finanza e l’impresa dominare in campo economico, al
contrario di quel che prevede la Costituzione. Consci dello squilibrio di
potere tra datori di lavoro e lavoratori, i Costituenti si erano posti
l’obiettivo di riequilibrare i rapporti di forza. Per questo la Repubblica è
“fondata sul lavoro”, diversamente dalle Costituzioni ottocentesche che erano
“fondate sulla proprietà”, persino quanto al diritto di voto! Le riforme degli
ultimi 30 anni hanno ricreato una situazione ottocentesca e chi ne beneficia
non vuole perdere gli enormi vantaggi di cui gode. In quest’ottica anche il
referendum sulla cittadinanza è importante: ricompone l’unitarietà della
categoria dei lavoratori superando, almeno in parte, la contrapposizione tra
lavoratori italiani e stranieri.
Puntano a
non raggiungere il quorum?
Sì,
purtroppo è oramai invalsa la prassi per cui i contrari all’abrogazione
approfittano parassitariamente dell’astensionismo per far fallire i referendum,
evitando di mettersi democraticamente in gioco.
Come
cambierebbe la legge sulla cittadinanza?
La regola
generale è che la cittadinanza possa essere concessa agli stranieri che
risiedono in Italia da almeno 10 anni; nel caso degli stranieri maggiorenni
adottati da cittadini italiani vale una regola speciale, per cui è sufficiente
un periodo di 5 anni. Il quesito mira ad abrogare la regola generale dei 10
anni unitamente al riferimento all’adozione in quella speciale, trasformando la
residenza quinquennale in regola generale (com’era fino al 1992).
Poi ci sono
i referendum sul lavoro. Uno riguarda la sicurezza: i morti aumentano ma,
chiacchiere a parte, la politica sembra disinteressarsene…
La mancata
sicurezza sul lavoro è una ferita costituzionale sanguinante. Il lavoro non
solo è precario e povero, oramai sempre più spesso è anche mortale. Gli esperti
spiegano che le catene di appalti e subappalti rendono impossibile assicurare
la sicurezza a chi lavora nei cantieri. È chiaro che è lì che occorre intervenire,
ma sinora la politica è rimasta inerte. Il referendum mira a sanare questa
ferita.
Precarietà:
l’esempio della Spagna, che è tornata indietro, non è servito…
Il caso
spagnolo è interessante perché dimostra che, contrariamente a quanto viene
ripetuto, rafforzando i diritti dei lavoratori si rafforza il sistema economico
nel suo complesso. Per questo i referendum che puntano a ostacolare i
licenziamenti e a ridurre i contratti a termine sono fondamentali: procurano
beneficio a tutti, non solo ai lavoratori dipendenti.
L’abolizione
del Jobs Act crea imbarazzo nel Pd. È solo una questione
simbolica o cambierebbe davvero qualcosa?
I referendum
sui licenziamenti e sui contratti a termine produrrebbero cambiamenti immediati
e importanti nella vita dei lavoratori, inclusi quelli che lavorano nelle
piccole imprese (la gran parte di quelle italiane). Per i datori di lavoro il
licenziamento disposto in violazione della legge sarebbe più costoso e si
amplierebbero le ipotesi di reintegra. Quanto ai contratti a termine, il loro
utilizzo sarebbe circoscritto a situazioni connotate da esigenze produttive
oggettive. Chiaramente tutto ciò avrebbe anche un’enorme portata simbolica.
L’idea alla base del Job Act (ma, ancor prima, del “pacchetto
Treu” e della “legge Maroni”) era che il lavoro fosse un mero costo di
produzione, da ridurre al minimo. I referendum puntano a tornare alla
concezione del lavoro come diritto: quella della Carta.
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