Dal 15 al 18 maggio 2025, una delegazione della società civile italiana si recherà a Ustica per rendere omaggio alle vittime della deportazione coloniale italiana. Un viaggio nella storia rimossa, per restituire voce, dignità e memoria ai deportati libici e per reclamare una Giornata del ricordo delle vittime del colonialismo italiano
Nel cuore
del Mediterraneo, sull’isola di Ustica, là dove le onde hanno da sempre portato
storie di confino e resistenza, prenderà vita un’iniziativa civile e simbolica di grande
valore: una delegazione di attivisti, ricercatori, studenti e rappresentanti di
associazioni nazionali si recherà presso il cosiddetto “Cimitero degli arabi”
per rendere omaggio a un passato cancellato. Questo luogo, nascosto tra le
memorie dell’isola, ospita le tracce fisiche della deportazione di oltre 10.000
oppositori libici che, tra il 1912 e il 1934, furono reclusi sulle isole
italiane, tra cui Favignana, le Tremiti, Ponza e Ustica stessa, in condizioni disumane.
Una repressione coloniale feroce, che rimane largamente assente dal discorso
pubblico, dalla memoria collettiva e dai programmi scolastici.
A promuovere
l’iniziativa, in collaborazione con il Centro Studi Ustica, è una rete ampia e
articolata della società civile: tra i promotori figurano Un Ponte Per, Arci,
Anpi, Cgil, la Rete Yekatit 12/19 Febbraio, il Movimento Italiani senza
cittadinanza, l’Unione degli Universitari e altre realtà impegnate sul fronte
dei diritti e della memoria.
L’evento si
inserisce in un percorso più ampio che punta all’istituzione di una Giornata
nazionale della memoria per le vittime del colonialismo italiano, con l’obiettivo
di aprire un confronto pubblico e politico sulla necessità, ormai non più
rinviabile, di fare i conti con una parte rimossa della storia nazionale.
Il momento
centrale di questo evento sarà il 17 maggio, quando un corteo partirà da piazza
Municipio, con la partecipazione degli studenti del liceo locale, e si dirigerà
al cimitero degli arabi, dove verrà piantumato un ulivo e apposta una targa
commemorativa, con versi tratti dalle poesie dei deportati libici e dei
confinati antifascisti italiani.
Una vergogna
nazionale, rimossa. Così possiamo definire la vicenda della deportazione degli
oppositori libici nelle isole minori italiane durante l’età coloniale. Si
tratta di una pagina che ha inciso profondamente sulla storia del nostro Paese,
anche se in modo sotterraneo, nascosto, negato. A raccontare perché questa
memoria sia rimasta ai margini della narrazione pubblica è Fabio Alberti,
fondatore e presidente onorario di Un Ponte Per, tra i promotori
dell’iniziativa a Ustica.
«L’Italia
non ha mai davvero fatto i conti con la propria storia coloniale. Altri Paesi
europei, pur senza un’elaborazione piena, hanno almeno riconosciuto quel
passato – anche perché, forse, più ingombrante del nostro. La consapevolezza
della propria eredità coloniale, altrove, alimenta dibattiti che incidono sulle
politiche e sull’identità nazionale. In Italia, invece, tutto questo è mancato.
Le ragioni
sono almeno due: da un lato, l’assenza di una vera fase di decolonizzazione,
poiché le colonie italiane furono perse con la guerra e occupate dalle potenze
vincitrici; dall’altro, la volontà di tenere unito il fronte repubblicano ha
impedito uno sguardo critico sull’Italia prefascista, liberale e monarchica,
che fu anche coloniale.
È come se la
nuova Repubblica avesse fatto i conti con il fascismo, ma non con ciò che lo ha
preceduto: il Regno, la monarchia. Invece di affrontare criticamente l’eredità
dell’Italia prefascista – che si è cercata di riabilitare evocando una presunta
continuità virtuosa con l’epopea risorgimentale – si è preferito costruire il
mito consolatorio degli “italiani brava gente”, un modo edulcorato per
distinguere il colonialismo italiano da quello delle altre potenze europee.
Eppure, oggi sappiamo con chiarezza che l’impresa coloniale italiana, per
brutalità e violenza, non fu affatto un’eccezione».
L’iniziativa
a Ustica non rappresenta soltanto un atto dovuto di riconoscimento verso le
vittime del colonialismo italiano. È, al tempo stesso, un gesto politico denso
di significato, capace di interpellare il presente. In un contesto in cui
cittadinanza, razzismo strutturale e memoria pubblica tornano a occupare il
centro del dibattito, il valore simbolico di radicare un ulivo e deporre una
targa in quel cimitero dimenticato assume una forza nuova, concreta, urgente. Alberti
lo riassume con lucidità, intrecciando memoria, resistenza e visione del futuro
in un unico filo narrativo.
«Questo
progetto intende rendere omaggio e restituire dignità alle vittime del
colonialismo italiano, a partire da quelle sepolte sull’isola, che
rappresentano simbolicamente tutte le altre. Ma il suo significato va oltre. Si
collega, ad esempio, all’azione con cui, come associazione Un ponte per,
riportammo alla luce il film Il leone del deserto, rimasto
censurato per 44 anni in Italia. Un’opera che, per la prima volta, raccontava
il colonialismo dal punto di vista dei colonizzati, non come semplici vittime,
ma come resistenti.
Ustica
rappresenta uno dei luoghi meno noti, ma significativi, della repressione della
resistenza libica al colonialismo italiano. Un frammento di storia in cui,
simbolicamente, si sono incrociate due forme di opposizione: quella degli
anticolonialisti libici e quella degli antifascisti italiani, confinati sulla
stessa isola, se non necessariamente in contatto diretto, almeno in una
convivenza forzata nel tempo e nello spazio. Non a caso, sulla targa che verrà
posta nel cosiddetto “Cimitero degli arabi”, accanto a una poesia scritta
durante la prigionia da un deportato libico, compariranno anche i versi di un
antifascista italiano, anch’egli confinato a Ustica, dedicati proprio alla
lotta anticoloniale. Due resistenze che, seppure distinte, si sono sfiorate e
che oggi ci parlano ancora, richiamando l’urgenza di costruire alleanze tra chi
si oppone alla guerra del Nord del mondo e chi combatte le nuove forme di
colonialismo nel Sud del mondo».
L’iniziativa
di Ustica si colloca all’interno di un percorso più ampio che mira
all’istituzione di una Giornata della memoria per le vittime
del colonialismo italiano. Una proposta che sollecita le istituzioni a
riconoscere la propria responsabilità – non solo storica, ma anche politica e
culturale – e che mette a nudo le scelte, mai neutre, con cui una società
decide cosa ricordare e cosa dimenticare della propria storia.
«Sulla
proposta di una Giornata del ricordo del colonialismo esiste un dibattito
aperto. C’è infatti il rischio di perpetuare una narrazione in cui il
colonizzato appare solo come vittima. Il nostro approccio, invece, mira a
valorizzare la lotta anticoloniale: non solo il dolore subito, ma anche la
resistenza. Tuttavia, il riconoscimento di quella resistenza e delle vittime –
che furono molte, si parla di circa 700.000 – è il punto di partenza per
assumere, da parte italiana, la responsabilità storica del colonialismo e per
ripensare il nostro approccio alla questione migratoria.
Le vittime
ci sono state, sono state rese invisibili agli occhi degli italiani e vanno
invece riportate alla luce. Solo così può emergere anche la storia coloniale
italiana, smentendo definitivamente il mito degli “italiani brava gente”. È
fondamentale, perché la rimozione del passato coloniale ha privato almeno due
generazioni della conoscenza di una parte essenziale della propria storia. E
questo non riguarda solo le persone colonizzate: riguarda noi. Ci è stato
negato il diritto di conoscere la nostra storia, le nostre ragioni, le radici
della nostra identità nazionale.
A intere
generazioni sono mancati gli strumenti per comprendere il presente, perché
fenomeni come le migrazioni o le guerre non possono essere letti senza la lente
del passato coloniale. Per questo, prima di tutto, rivendichiamo un diritto
alla conoscenza. Solo da lì può nascere un percorso di conciliazione, un
ragionamento sulla riparazione e, in definitiva, una rilettura delle politiche
italiane alla luce del nostro passato».
Il corteo
che il 17 maggio si dirigerà verso il “Cimitero degli arabi” non vedrà soltanto
la partecipazione di attivisti, ricercatori e rappresentanti del mondo
associativo. A prenderne parte saranno anche le e gli studenti del liceo di
Ustica: una presenza che conferisce all’iniziativa una dimensione educativa
tutt’altro che accessoria. Restituire spazio alla memoria rimossa del
colonialismo italiano significa anche trasmettere strumenti per leggere criticamente
il presente. In un contesto in cui la scuola fatica a colmare questo vuoto,
esperienze come questa si configurano come momenti di apprendimento autentico,
in cui la storia si intreccia con l’esercizio della cittadinanza. Su questo
punto, la riflessione di Fabio Alberti è particolarmente incisiva.
«La
generazione che oggi frequenta la scuola è la prima a non avere alcun legame
diretto né con l’esperienza della guerra né con quella del colonialismo e
spesso lo stesso vale per i loro genitori. Senza un’adeguata trasmissione
storica, attraverso la scuola e il dibattito pubblico, rischia di crescere
all’oscuro di capitoli fondamentali di questo Paese, e quindi priva di
strumenti critici per interpretare il presente. Allo stesso tempo, però, è una
generazione in formazione, che sta costruendo ora la propria visione del mondo
e che può riconsiderarla, se messa nelle condizioni di conoscere anche ciò che
è stato rimosso. In questo senso, approfondire la storia della colonizzazione
italiana nei programmi scolastici è essenziale. Non per demonizzare il passato,
che non si può riscrivere, ma per comprenderlo. Perché solo conoscendo ciò che
è stato si può influenzare la qualità dello sguardo che le nuove generazioni
rivolgono all’altro, in particolare a chi proviene da contesti non europei. In
fondo, questa esperienza insegna che la scuola va supportata da un’educazione
alla conoscenza, che continua anche fuori dai confini dell’aula.
È un invito
a superare i limiti di ciò che la scuola trasmette: apprendere richiede anche
un impegno autonomo, personale e collettivo, per andare oltre ciò che le
istituzioni raccontano o tacciono. Finora, la storia insegnata è stata in gran
parte quella dell’Occidente. Ma nessun fenomeno politico contemporaneo, dalle
grandi migrazioni alle guerre, fino alla povertà globale, può essere davvero
compreso senza tener conto anche della dimensione coloniale che i Paesi europei
hanno avuto con il resto del mondo per 500 anni.
Certo, il
colonialismo non spiega tutto, ma senza di esso si comprende ben poco.
Riconoscerne le radici è fondamentale per leggere i processi in corso e
confrontarsi con il presente in modo critico. Pensiamo, ad esempio, alle
politiche migratorie: l’Europa deve assumersi la responsabilità di essere parte
delle cause delle migrazioni, non solo per il proprio passato coloniale, ma
anche per il prolungamento postcoloniale delle disuguaglianze economiche,
militari e commerciali che ancora oggi condizionano i rapporti con il Sud del
mondo».
Ma la
memoria del colonialismo, come sottolineano i promotori dell’iniziativa a
Ustica, non riguarda solo il passato. Riguarda il presente, e il modo in cui
l’Italia e l’Europa continuano a costruire le proprie relazioni con il Sud
globale. Le politiche migratorie, commerciali e militari non possono essere
comprese – né trasformate – senza guardare in faccia la genealogia coloniale
che le attraversa. Anche in questo senso, piantare un ulivo tra le tombe
dimenticate non è solo un gesto simbolico: è un atto politico che interroga il
nostro presente. Come conclude Fabio Alberti:
«Guardare
alle migrazioni con la consapevolezza di esserne in parte causa dovrebbe
condurre a due conseguenze: anzitutto, al riconoscimento di un dovere di
accoglienza; ma soprattutto, alla necessità di rivedere profondamente le
politiche estere – commerciali, economiche e militari – specialmente nei
confronti dell’Africa, dove persiste una politica di spoliazione che alimenta
la pressione migratoria, costringendo milioni di persone a cercare altrove una
possibilità di vita».
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