Cos’è l’apartheid? È una politica di segregazione. Un regime di separatezza che si rivolge a certi gruppi in base a delle caratteristiche comuni: razza, ceto, genere ecc. Dunque c’è apartheid dove c’è una politica che separa e perseguita delle persone non in termini individuali o in relazione a gesti delittuosi, ma per il solo fatto di essere se stesse e di appartenere a un gruppo sociale più o meno riconoscibile. Cos’è la proiezione, in psicologia? È un elementare meccanismo di difesa, per cui proiettiamo sugli altri sentimenti o azioni o convinzioni che proviamo o mettiamo in atto e che non riusciamo o non vogliamo o non possiamo attribuire a noi stessi.
Pensavo a
questi due semplicissimi concetti, mentre ascoltavo le ultime puntate dei
deliri di Trump. Nell’ordine, la sua accusa al Presidente del Sud Africa di
essere razzista nei confronti dei bianchi e, poche ore dopo, la decisione di
proibire a una delle più grandi e prestigiose Università americane di ammettere
studenti stranieri.
La scenetta
col Presidente sudafricano è simile a quella con Zelensky, se non fosse per la prontezza di
riflessi dell’interlocutore. Una vera e propria trappola a favore di
telecamere, con la costruzione artificiale di fake
news per
legittimare quella che non è una semplice tesi bislacca, ma rappresenta
precisamente un rovesciamento proiettivo. L’unico dato di realtà da
cui parte questa narrazione palesemente falsa è che vi è una legge che permette
l’esproprio (del tutto risarcito, salvo casi di terreni abbandonati a se stessi
da tempo) di terra a fini pubblici, in un paese in cui il latifondo non è
un’arcaica categoria dell’Ottocento. Per il resto, accusare il Paese
dell’apartheid di perseguitare i bianchi in quanto bianchi non è solo un
oltraggio alla memoria, ma è anche una follia rispetto al presente. Un
presente in cui i bianchi continuano ad essere i ricchi e i neri ad essere i
poveri. Non c’è stato nessuno spostamento economico e l’apartheid è rimasto
dov’era, fondato ora su basi economiche e non più politiche. In fin dei conti,
la pace non è stata che la continuazione dell’apartheid con altri mezzi.
Ma perché quest’accusa di apartheid non può che essere interpretata nei
termini d’un rovesciamento proiettivo, avendo a che fare con le politiche
che il Presidente statunitense mette in atto?
Per
rispondere a questa domanda, veniamo al secondo episodio. Quel geniaccio
di Trump continua la sua guerra alle università americane (che
peraltro non sono università pubbliche, ma sono fortemente elitarie sia nel
reclutamento dei docenti sia soprattutto nella selezione degli studenti. Sono
insomma modelli di un sapere esclusivo ed escludente, che dovrebbe piacere
molto agli esponenti della destra). L’ultimo plateale gesto è quello di prendersela
con gli studenti universitari “stranieri”: un gruppo sociale piuttosto cospicuo
ed eterogeneo, ad occhio. Con un gesto di puro maccartismo, la sua
amministrazione ha sospeso le iscrizioni per gli studenti stranieri. Perché
prendersela con loro? Per punire le posizioni “antisemite”
dell’Università, ufficialmente. Scelta interessante. In primo luogo, perché
punisce solo indirettamente l’Università, punendo direttamente persone che –
non avendo nome e cognome ma essendo un gruppo sociale piuttosto corposo – non
possono essere accusate di condividere quelle idee che a quanto pare in una
democrazia liberale non possono essere diffuse. In secondo luogo, perché si
basa su un’ennesima contraffazione della realtà, definendo ogni critica
alle politiche israeliane come “antisemitismo”. Il che ci permette di
correggere la declinazione di un’altra domanda che ricorre sempre di più in
queste settimane. La questione non è: “perché assistiamo alle semplificazioni che
prendono il posto della complessità?” ma piuttosto: “perché assistiamo
alle contraffazioni che prendono il posto della complessità?”.
La differenza tra semplificazione e contraffazione è
evidente e concerne l’uso politico delle parole. Quando semplifichiamo
qualcosa, l’accusa che ci viene rivolta è che le cose non stanno esattamente
così come le stiamo descrivendo. Ma la contraffazione non è per forza una
semplificazione. Mentre la semplificazione conserva in sé parti di verità che
magari distorce, la contraffazione non si occupa più di dir male la
verità, ma si occupa direttamente di dire il falso come fosse vero. Questa
non è più l’epoca della semplificazione, è ormai l’epoca della contraffazione.
Di fatto,
anche questo piccolo episodio dimostra come l’apartheid è diventato un
principio politico che unisce l’Occidente contro coloro che decide di designare
come i suoi nemici. In questo caso i nemici contro cui agire sono
duplici: sono gli stranieri e sono coloro che credono ancora al valore
dell’istruzione. Sono dunque da perseguitare perché non appartengono alla
nostra comunità e perché pretendono di imparare a maneggiare lo strumento di
emancipazione e di critica al potere per eccellenza, la cultura. Ma il modo in
cui si agisce risponde perfettamente ai canoni che definiscono l’apartheid. Che
è esattamente una persecuzione che non è fondata su alcuna notizia di reato ma
esclusivamente sull’appartenenza a un gruppo razziale (gli stranieri) e a un
gruppo sociale (il “ceto medio riflessivo”, avremmo detto un tempo). Ma
non è lo stesso apartheid che vediamo in azione nelle politiche securitarie del
nostro Paese? Oppure nelle direttive europee sulla migrazione e sul
diritto d’asilo? O ancora a Gaza, dove la segregazione e l’apartheid non hanno
nemmeno il bisogno di celarsi dietro il rispetto di leggi e di diritti?
Sono due
piccoli episodi, apparentemente minimi rispetto a tutto ciò che ci sta
esplodendo in mano. Ma non fanno che confermare il fatto che è
l’Occidente tutto oggi a poter essere accusato di aver plasmato le proprie
politiche a immagine e somiglianza dell’apartheid che in Sud Africa è invece
per fortuna solo un tragico ricordo del passato, almeno come fenomeno politico.
Se le cose
stanno cosi, non riesco a trovare altre spiegazioni se non ricorrendo al buon
vecchio Freud. Accusare l’altro di ciò che di fatto si persegue con
accanimento ormai reiterato ed esplicito. Oltretutto, non è ciò che accade
costantemente anche nelle nostre relazioni private? Non trovo più una persona violenta
che non rivendichi alla fine di essere essa stessa vittima della violenza.
Mentre alle vittime è tolto il diritto di parola, i carnefici si difendono
facendo le vittime. Piccolo inciso che conferma questa sommaria analisi di
psicologia sociale: nei giorni scorsi ho avuto la pessima idea di ascoltare
cinque minuti di dibattito politico in televisione. Qualcuno ha provato a dire
che a Gaza si sta consumando un genocidio. Apriti cielo. La conduttrice
progressista e di sinistra si è indignata dicendo che non vuole che nella sua
trasmissione si pronuncino simili parole. Dopo qualche minuto un brillante
(sono decisamente ironico) esponente della destra, uno di quelli che sta
trovando una nuova giovinezza perché disposto a difendere in ogni occasione
l’indifendibile, ha detto testualmente: “il 7 ottobre si è consumato un vero e
proprio genocidio del popolo ebraico”. In questo caso, la nostra conduttrice
progressista e di sinistra non ha ritenuto di interrompere né di indignarsi (e
con questo, è inutile dirlo, non voglio in alcun modo minimizzare la crudeltà
del 7 ottobre).
Il piccolo
insegnamento che dobbiamo trarne è immediatamente politico e attraversa tutto
questo tempo così poco chiaro che ci accade di vivere. La domanda
giusta non è: “perché i carnefici fanno i carnefici?”, ma è: “perché i
carnefici rappresentano sistematicamente se stessi come vittime?”. Qualcuno
direbbe per autoassolversi. Forse non sarebbe una contraffazione, ma certamente
sarebbe una semplificazione. Perché ciò che l’Occidente fa non è solo non
sentirsi in colpa per quel che ha scelto di diventare, ma accusare
gli altri di essere ciò che esso stesso è diventato. Dietro il
vittimismo c’è non solo la necessità di non sentirsi in colpa, ma anche il
bisogno di far sentire in colpa coloro che si perseguitano, in modo
da legittimare i propri comportamenti.
Tra muri e
deportazioni, mi pare che la cartografia che stiamo cercando di imporre
al mondo intero sia fondata sulla segregazione e il controllo di interi gruppi
sociali, estesi a livello planetario. Non più guerre tra Stati, ma guerre
di un gruppo sociale minoritario a gruppi sociali a cui vengono ormai negati
senza ragione i diritti più elementari. Sono gruppi sociali eterogenei, ho
scritto. Ma se dovessi indicarne un tratto comune, direi che sono tutti gruppi
sociali non abbienti. Palestinesi, stranieri in genere, ceto medio riflessivo,
persone non binarie, donne: ho certamente dimenticato qualcuno nell’elenco. Di
fatto poveri, sottoposti a un regime di apartheid plateale da parte dei ricchi. Si
chiama apartheid, si legge neo-capitalismo: non più soltanto un dispositivo
economico, ma un vero e proprio dispositivo economico-politico.
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