giovedì 29 maggio 2025

L’Occidente e l’apartheid: Trump e non solo - Sergio Labate

 

Cos’è l’apartheid? È una politica di segregazione. Un regime di separatezza che si rivolge a certi gruppi in base a delle caratteristiche comuni: razza, ceto, genere ecc. Dunque c’è apartheid dove c’è una politica che separa e perseguita delle persone non in termini individuali o in relazione a gesti delittuosi, ma per il solo fatto di essere se stesse e di appartenere a un gruppo sociale più o meno riconoscibile. Cos’è la proiezione, in psicologia? È un elementare meccanismo di difesa, per cui proiettiamo sugli altri sentimenti o azioni o convinzioni che proviamo o mettiamo in atto e che non riusciamo o non vogliamo o non possiamo attribuire a noi stessi.

Pensavo a questi due semplicissimi concetti, mentre ascoltavo le ultime puntate dei deliri di Trump. Nell’ordine, la sua accusa al Presidente del Sud Africa di essere razzista nei confronti dei bianchi e, poche ore dopo, la decisione di proibire a una delle più grandi e prestigiose Università americane di ammettere studenti stranieri.

La scenetta col Presidente sudafricano è simile a quella con Zelensky, se non fosse per la prontezza di riflessi dell’interlocutore. Una vera e propria trappola a favore di telecamere, con la costruzione artificiale di fake news per legittimare quella che non è una semplice tesi bislacca, ma rappresenta precisamente un rovesciamento proiettivo. L’unico dato di realtà da cui parte questa narrazione palesemente falsa è che vi è una legge che permette l’esproprio (del tutto risarcito, salvo casi di terreni abbandonati a se stessi da tempo) di terra a fini pubblici, in un paese in cui il latifondo non è un’arcaica categoria dell’Ottocento. Per il resto, accusare il Paese dell’apartheid di perseguitare i bianchi in quanto bianchi non è solo un oltraggio alla memoria, ma è anche una follia rispetto al presente. Un presente in cui i bianchi continuano ad essere i ricchi e i neri ad essere i poveri. Non c’è stato nessuno spostamento economico e l’apartheid è rimasto dov’era, fondato ora su basi economiche e non più politiche. In fin dei conti, la pace non è stata che la continuazione dell’apartheid con altri mezzi. Ma perché quest’accusa di apartheid non può che essere interpretata nei termini d’un rovesciamento proiettivo, avendo a che fare con le politiche che il Presidente statunitense mette in atto?

Per rispondere a questa domanda, veniamo al secondo episodio. Quel geniaccio di Trump continua la sua guerra alle università americane (che peraltro non sono università pubbliche, ma sono fortemente elitarie sia nel reclutamento dei docenti sia soprattutto nella selezione degli studenti. Sono insomma modelli di un sapere esclusivo ed escludente, che dovrebbe piacere molto agli esponenti della destra). L’ultimo plateale gesto è quello di prendersela con gli studenti universitari “stranieri”: un gruppo sociale piuttosto cospicuo ed eterogeneo, ad occhio. Con un gesto di puro maccartismo, la sua amministrazione ha sospeso le iscrizioni per gli studenti stranieri. Perché prendersela con loro? Per punire le posizioni “antisemite” dell’Università, ufficialmente. Scelta interessante. In primo luogo, perché punisce solo indirettamente l’Università, punendo direttamente persone che – non avendo nome e cognome ma essendo un gruppo sociale piuttosto corposo – non possono essere accusate di condividere quelle idee che a quanto pare in una democrazia liberale non possono essere diffuse. In secondo luogo, perché si basa su un’ennesima contraffazione della realtà, definendo ogni critica alle politiche israeliane come “antisemitismo”. Il che ci permette di correggere la declinazione di un’altra domanda che ricorre sempre di più in queste settimane. La questione non è: “perché assistiamo alle semplificazioni che prendono il posto della complessità?” ma piuttosto: “perché assistiamo alle contraffazioni che prendono il posto della complessità?”. La differenza tra semplificazione e contraffazione è evidente e concerne l’uso politico delle parole. Quando semplifichiamo qualcosa, l’accusa che ci viene rivolta è che le cose non stanno esattamente così come le stiamo descrivendo. Ma la contraffazione non è per forza una semplificazione. Mentre la semplificazione conserva in sé parti di verità che magari distorce, la contraffazione non si occupa più di dir male la verità, ma si occupa direttamente di dire il falso come fosse veroQuesta non è più l’epoca della semplificazione, è ormai l’epoca della contraffazione.

Di fatto, anche questo piccolo episodio dimostra come l’apartheid è diventato un principio politico che unisce l’Occidente contro coloro che decide di designare come i suoi nemici. In questo caso i nemici contro cui agire sono duplici: sono gli stranieri e sono coloro che credono ancora al valore dell’istruzione. Sono dunque da perseguitare perché non appartengono alla nostra comunità e perché pretendono di imparare a maneggiare lo strumento di emancipazione e di critica al potere per eccellenza, la cultura. Ma il modo in cui si agisce risponde perfettamente ai canoni che definiscono l’apartheid. Che è esattamente una persecuzione che non è fondata su alcuna notizia di reato ma esclusivamente sull’appartenenza a un gruppo razziale (gli stranieri) e a un gruppo sociale (il “ceto medio riflessivo”, avremmo detto un tempo). Ma non è lo stesso apartheid che vediamo in azione nelle politiche securitarie del nostro Paese? Oppure nelle direttive europee sulla migrazione e sul diritto d’asilo? O ancora a Gaza, dove la segregazione e l’apartheid non hanno nemmeno il bisogno di celarsi dietro il rispetto di leggi e di diritti?

Sono due piccoli episodi, apparentemente minimi rispetto a tutto ciò che ci sta esplodendo in mano. Ma non fanno che confermare il fatto che è l’Occidente tutto oggi a poter essere accusato di aver plasmato le proprie politiche a immagine e somiglianza dell’apartheid che in Sud Africa è invece per fortuna solo un tragico ricordo del passato, almeno come fenomeno politico.

Se le cose stanno cosi, non riesco a trovare altre spiegazioni se non ricorrendo al buon vecchio Freud. Accusare l’altro di ciò che di fatto si persegue con accanimento ormai reiterato ed esplicito. Oltretutto, non è ciò che accade costantemente anche nelle nostre relazioni private? Non trovo più una persona violenta che non rivendichi alla fine di essere essa stessa vittima della violenza. Mentre alle vittime è tolto il diritto di parola, i carnefici si difendono facendo le vittime. Piccolo inciso che conferma questa sommaria analisi di psicologia sociale: nei giorni scorsi ho avuto la pessima idea di ascoltare cinque minuti di dibattito politico in televisione. Qualcuno ha provato a dire che a Gaza si sta consumando un genocidio. Apriti cielo. La conduttrice progressista e di sinistra si è indignata dicendo che non vuole che nella sua trasmissione si pronuncino simili parole. Dopo qualche minuto un brillante (sono decisamente ironico) esponente della destra, uno di quelli che sta trovando una nuova giovinezza perché disposto a difendere in ogni occasione l’indifendibile, ha detto testualmente: “il 7 ottobre si è consumato un vero e proprio genocidio del popolo ebraico”. In questo caso, la nostra conduttrice progressista e di sinistra non ha ritenuto di interrompere né di indignarsi (e con questo, è inutile dirlo, non voglio in alcun modo minimizzare la crudeltà del 7 ottobre).

Il piccolo insegnamento che dobbiamo trarne è immediatamente politico e attraversa tutto questo tempo così poco chiaro che ci accade di vivere. La domanda giusta non è: “perché i carnefici fanno i carnefici?”, ma è: “perché i carnefici rappresentano sistematicamente se stessi come vittime?”. Qualcuno direbbe per autoassolversi. Forse non sarebbe una contraffazione, ma certamente sarebbe una semplificazione. Perché ciò che l’Occidente fa non è solo non sentirsi in colpa per quel che ha scelto di diventare, ma accusare gli altri di essere ciò che esso stesso è diventato. Dietro il vittimismo c’è non solo la necessità di non sentirsi in colpa, ma anche il bisogno di far sentire in colpa coloro che si perseguitano, in modo da legittimare i propri comportamenti.

Tra muri e deportazioni, mi pare che la cartografia che stiamo cercando di imporre al mondo intero sia fondata sulla segregazione e il controllo di interi gruppi sociali, estesi a livello planetario. Non più guerre tra Stati, ma guerre di un gruppo sociale minoritario a gruppi sociali a cui vengono ormai negati senza ragione i diritti più elementari. Sono gruppi sociali eterogenei, ho scritto. Ma se dovessi indicarne un tratto comune, direi che sono tutti gruppi sociali non abbienti. Palestinesi, stranieri in genere, ceto medio riflessivo, persone non binarie, donne: ho certamente dimenticato qualcuno nell’elenco. Di fatto poveri, sottoposti a un regime di apartheid plateale da parte dei ricchi. Si chiama apartheid, si legge neo-capitalismo: non più soltanto un dispositivo economico, ma un vero e proprio dispositivo economico-politico.

da qui

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