Alba è un bel nome femminile di persona. Non solo. Sulla Terra che ruota (circa trenta chilometri al secondo), l’alba è un evento astronomico primordiale e ciclicamente quotidiano, il momento in cui “appare” a una reattiva cellula vegetale o a uno sguardo animale il primo “raggio” diretto del sole (distante circa 150 milioni di chilometri), ogni giorno per la prima volta, lo si veda poi davvero splendere quel giorno, oppure no (causa nuvole); del resto, l’evento in senso stretto è comunque di breve durata, inizia al primo bordo di sole e termina già quando il “disco” è completamente sopra l’orizzonte. Con l’ovvia differenza alternata fra emisferi terrestri, per effetto della rifrazione e della diffusione dei raggi solari nell’atmosfera, si passa dallo scuro al chiaro, un passaggio materiale di contesto ambientale. E si generano ciclicamente sensazioni ed emozioni, ogni individuo le proprie, a seconda del profilo contingente o stabile, esteriore e interiore delle specifiche esistenze.
Tracce umane di alba e albe
Vi sono
innumerevoli tracce umane sapienti di alba e albe in sguardi e struggimenti,
pensieri ed esclamazioni, conversazioni e post, versi e liriche, canzoni e
musiche; come del conseguente uso metaforico per nascite, rinascite e cicli di
ogni categoria e tipologia. Sono usciti di recente due interessanti testi
scientifici intitolati all’alba, molto interessanti e godibili, in
parte con contenuti e metafora contrapposti: David Graeber e David
Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, traduzione
di Roberta Zuppet, Rizzoli Milano 2024 (orig. 2021, 1° ed. Rizzoli 2022), pag.
732; Guido Barbujani, L’alba della storia. Una rivoluzione iniziata
diecimila anni fa, Laterza Bari 2024, pag. 201 euro 20.
David Graeber e David Wengrow, L’alba di
tutto. Una nuova storia dell’umanità
L’antropologo
statunitense David Graeber (New York, 12 febbraio 1961 -
Venezia, 2 settembre 2020), noto attivista civile e intellettuale di fama
internazionale, e l’esperto archeologo britannico David Wengrow (1972),
entrambi ebrei (scrivono per inciso di non sentirsi molto “felici di essere in
qualche modo incolpati di tutto ciò che è andato storto nella storia”), hanno
dedicato oltre un decennio a discutere e scrivere insieme un corposo studio
dialogico di notevole successo editoriale, all’inizio come diversivo dai
reciproci impegni accademici più “seri”, poi come fatica quotidiana di verifica
e confronto sulle decine di migliaia di “fonti” consultate o esperite. La loro
analisi è stata spesso citata e discussa in tutto il mondo durante questi tre
anni.
Graeber è
morto per un malore improvviso dopo nemmeno un mese dalla chiusura dell’opera
nell’agosto 2020 (definitivamente uscita l’anno successivo), Wengrow ha scritto
due brevissime pagine introduttive, anche come dedica alla cara memoria del
collega e, per suo espresso desiderio, a quella dei genitori Ruth e Kenneth.
Nel loro caso, l’obiettivo principale è suggerire una visione nuova
dell’evoluzione dei sapiens, almeno da quando siamo rimasti
l’unica specie umana (circa quarantamila anni), e di relativizzare
l’esistenza di una “rivoluzione neolitica”; il titolo potrebbe così essere
letto come una critica a chi enfatizza troppo i momenti di svolta nella storia
umana globale, le albe di qualcosa, l’alba di tutto.
Graeber e
Wengrow scrivono a pagina 266: “Quasi nulla della narrazione
tradizionale combacia con le prove disponibili. In Medio Oriente, nella
Mezzaluna Fertile, da tempo considerata la culla della “rivoluzione agricola”,
non ci fu, in realtà, alcun “passaggio” da foraggiatore paleolitico ad
agricoltore neolitico… La transizione da una vita basata sulle risorse
selvatiche a un’esistenza fondata sulla produzione alimentare richiese circa
tremila anni e, benché l’agricoltura abbia introdotto la possibilità di
concentrazioni più inique di ricchezza, nella maggior parte dei casi ciò iniziò
ad accadere solo millenni dopo il suo avvento… Chiaramente non ha più senso
usare espressioni come “rivoluzione agricola” quando si analizzano processi di
una simile lunghezza e complessità. Siccome non esiste uno stato edenico da cui
gli agricoltori mossero i primi passi sulla strada verso la disuguaglianza, è
ancora più illogico parlare dell’agricoltura come del fattore che ha segnato le
origini della gerarchia sociale, della disuguaglianza e della proprietà
privata…”
Il capitolo
(sesto) era iniziato contestando anche la narrazione sull’inizio di
villaggi e città, del patriarcato, dell’organizzazione istituzionale, inizio
non connesso secondo gli autori alle produzioni agricole. Secondo l’opinione
dei due autori, le prove accumulate dall’archeologia, dall’antropologia e dalle
discipline affini danno un resoconto inedito di come le società umane si sono
sviluppate già prima della fine del Pleistocene e si contrappongono alla
narrazione convenzionale. La preistoria dei sapiens inizia
molto prima dell’inizio del Neolitico, non è descrivibile attraverso separate
fasi “migliorative” dello sviluppo, risulta incomprensibile se non si
individuano gli interrogativi corretti da porsi e, soprattutto, se l’errata
prevalente domanda riguarda l’essere di natura buoni o cattivi, prima buoni e
poi cattivi, oppure sostanzialmente cattivi (nel riassunto delle due visioni di
Rousseau e Hobbes).
Sia la visione
rousseauiana che la visione hobbesiana (che ritornano
insieme di continuo in tutti i capitoli) non corrispondono alla dinamica dei
fatti, hanno gravi implicazioni politiche e rendono il passato inutilmente
noioso. Il mondo dei foraggiatori (cacciatori raccoglitori) si è
contraddistinto per audaci esperimenti sociali, produttivi e artistici; il
mondo dei coltivatori non ha indotto progressi automatici e lineari; il senso
delle umane possibilità e libertà va riscoperto in ogni tempo (restituendo ai
nostri avi la loro piena umanità), senza rimanere prigionieri di catene
concettuali (come la proprietà, la disuguaglianza, la schiavitù, l’urbanizzazione
o la stessa democrazia). Il libro è una miniera di informazioni storiche e
preistoriche su centinaia di comunità umane antichissime e recenti (perlopiù
legate a scelte collettive autocoscienti e talora capaci di gestire bene
disabilità ed eccentricità).
I dodici capitoli
Il testo di
Graeber e Wengrow è strutturato in dodici capitoli: Addio
all’infanzia dell’umanità (o perché questo non è un libro sulle origini della
disuguaglianza), ovvero l’alba di noi sapiens precede
coltivazioni e allevamenti estensivi; Libertà perversa (la critica indigena e
il mito del progresso); Scongelare l’era glaciale (dentro e fuori dalla
schiavitù e possibilità proteiformi della politica umana), ovvero avevamo già
prodotto e scelto spesso bene con il clima più freddo; Uomini liberi, l’origine
delle culture e l’avvento della proprietà privata (non necessariamente in
quest’ordine); Molte stagioni fa (perché i foraggiatori canadesi avevano gli
schiavi e i loro vicini californiani no, o il problema delle “modalità di
produzione”); I giardini di Adone (la rivoluzione che non ebbe mai luogo: come
i popoli del Neolitico evitarono l’agricoltura); L’ecologia della libertà (come
l’agricoltura fece per la prima volta il giro del mondo saltellando,
incespicando e bluffando); Città immaginarie (i primi cittadini dell’Eurasia -
in Mesopotamia, nella valle dell’Indo, in Ucraina e in Cina - e come
costruirono città senza re); Nascosta in bella vista (le origini indigene
dell’edilizia sociale e della democrazia nelle Americhe); Perché lo Stato non
ha origini (gli umili esordi della sovranità, della burocrazia e della
politica); Chiudiamo il cerchio (sulle fondamenta storiche della critica
indigena); L’alba di ogni cosa. Le lunghe dettagliate note (spesso
integrative) vengono raccolte al termine in quasi cento ulteriori pagine
Il titolo
inglese del 2021 fa appunto riferimento a The Dawn of Everything,
inutile disquisire sul termine “alba”, è la traduzione più appropriata. In
tutte le lingue vi sono sinonimi e sfumature, sull’autonomia dell’aurora tanti
scommettono e, d’altra parte, anche sunrise o daybreak fanno
riferimento a quello stesso momento astronomico, l’importante è che s’intende
trasmettere l’idea di un inizio, di un principio, in linea di
massima ciclico, re-inizio. I due autori ragionano pure in termini prettamente
storiografici, richiamando in un passaggio che l’evento prettamente storico ha,
in linea di massima, due caratteristiche: non avrebbe potuto essere previsto in
anticipo, ma avviene una volta sola. Così, vi sono tradizioni intellettuali che
sono abbastanza verificabili attraverso reperti (fisici e culturali) e altre
che sono andate perdute, prevalentemente o per sempre; molte “scoperte” si sono
basate su secoli di conoscenze accumulate e di sperimentazione e altre sono
state custodite e tramandate attraverso rituali, giochi e forme di attività
ludica; le più grandi costruzioni mitiche della storia (come la stessa
“rivoluzione agricola”) sarebbero inconciliabili con le prove manifeste davanti
ai nostri occhi. Inoltre, le strutture e i significati che promuovono sono
banali, ritriti e politicamente disastrosi. Secondo loro, è ora di prenderne
atto: approfondiamo, discutiamo, ripensiamo (ne ho tratto, per esempio, che su
frasi di molti scritti avrei dovuto ragionare meglio nei miei decenni di
articoli, saggi e volumi e che su qualcosa ci ho addirittura preso, forse).
L’alba della storia, Guido Barbujani
Nel volume
di Graeber e Wengrow, vengono citati e contestati numerosi studiosi emeriti di
cui si demoliscono concetti e riflessioni con approfondite motivazioni; la
bibliografia è riccissima e sono stati predisposti vari indici, sicché incroci
e comparazioni sono abbastanza disponibili, anche per richiamare eventualmente
parziali vuoti o carenze. Per esempio, sulle scienze evoluzionistiche e sui
generici “evoluzionisti” sono talvolta imprecisi anche i due autori. Il testo
andrà comunque assimilato con rispetto e attenzione, prima di giudizi
complessivi. Si può sicuramente anticipare, senza particolare enfasi, che
esprime un indirizzo di fondo e alcune valutazioni contrapposte rispetto al
volume di Guido Barbujani, L’alba della storia, concentrato
soprattutto nei millenni dagli ultimi diecimila agli ultimi cinquemila, circa.
L’assunto
dell’autore è il seguente: la rivoluzione climatica, scientifica,
tecnologica e sociale a cui, volenti o nolenti, partecipiamo, non è la prima.
Forse ragionare su una “rivoluzione” che l’ha preceduta, anche se nella
preistoria, può aiutarci a capire un po’ meglio cosa ci sta succedendo, e
quindi a discriminare fra preoccupazioni giustificate (tantissime) e ansie
infondate (parecchie anche loro). Le trasformazioni che si misero in moto
nel neolitico diecimila anni fa ancora influenzano il nostro
modo di lavorare, di vestirci, di mangiare, di confrontarci con gli altri
membri della nostra comunità. La rivoluzione neolitica ci ha cambiato i geni e
qui il “ci” si riferisce proprio a tutti: umanità, animali e piante. Gruppi di
individui della nostra specie si mettono a produrre il cibo di cui hanno
bisogno, coltivando campi e allevando bestie e bestiole. Prima nel vicino
Oriente, nella cosiddetta Mezzaluna Fertile e in Anatolia; qualche millennio
dopo in Cina; ancora qualche millennio più tardi nell’America centrale e nelle
Ande; e infine più o meno dappertutto.
Il grande
scienziato genetista Guido Barbujani (Adria, Rovigo, 1955) ha insegnato a New
York e Londra, a Padova e Bologna, ora a Ferrara; da molti decenni studia e
lavora pure sperimentalmente sul DNA; con l’usuale chiarezza divulgativa, il
suo nuovo libro si concentra sui millenni dopo la fine dell’ultima glaciazione,
con enfasi forse eccessiva sullo spartiacque storico evoluzionistico (da cui il
titolo). I sette capitoli descrivono come il neolitico abbia
rivoluzionato, tramite le migrazioni, i geni delle piante (il
secondo), degli animali (quinto) e dell’umanità (quarto), abbia rinnovato
parallelamente le nostre relazioni sociali (terzo) e le
nostre lingue (sesto), mettendoci di fronte a situazioni
inedite (primo), che però hanno a che vedere con il presente e addirittura con
il futuro (settimo).
Pur citando
questioni dubbiose e aperte, il filo narrativo è tradizionale. Con la maggiore
disponibilità di cibo, la popolazione, piano piano, cresce. Le comunità
diventano sedentarie: prendono forma i primi villaggi, che nei casi più
fortunati daranno vita alle prime città. Ci si specializza in attività e arti
connesse e ordinate, le società si articolano e strutturano. Genetisti e
archeologi hanno, in particolare, ricostruito una grande migrazione demica
dall’Anatolia verso Grecia e Cipro, poi verso l’Europa prima orientale e poi
occidentale fino alla Spagna, ancora poi verso nord Europa e isole britanniche.
Sulle gambe dei rivoluzionari, i primi agricoltori del
vicino oriente, i geni delle popolazioni anatoliche sono penetrati,
diluendosi a poco a poco, nelle popolazioni europee, cambiando mezzi di
sussistenza e aspetto, paesaggi e stili di vita, una svolta cruciale, tale da
segnare il limite fra un prima, la vecchia età della pietra, cioè il
paleolitico, e un dopo, la nuova età della pietra, cioè il neolitico.
Una nota “per
saperne di più” si trova in fondo a ogni capitolo, con un’aggiornata
bibliografia essenziale per paragrafi, spunti e citazioni del testo,
accompagnato anche da qualche utile figura e mappa colorata. Ogni tanto appare
una parola in arancione, che rinvia al piccolo glossario finale di
oltre cento termini o categorie o concetti (da “adattamento” a “Yamnaya”)
spiegati con qualche frase (in modo impreciso nel caso di “migrazione”, che qui
diventa ogni “spostamento di individui o popolazioni attraverso lo spazio
geografico”; nel testo l’uso è invece quasi sempre corretto e pertinente). La
genetica ha davvero molto a che fare con la nostra vita, l’autore ricorda anche
aneddoti, aspetti e controversie del proprio percorso scientifico: ancora non
siamo riusciti a tracciare una linea chiara fra ciò che è utile o lecito fare
delle nostre biotecnologie, ma neanche a prevedere quanto si nasca
intelligenti, o timidi, o propensi ad ammalarci di certe malattie, e quanto
invece lo si diventi. Possiamo invece dire con tranquillità che la sostituzione
etnica è una bufala, e che le discussioni sulle razze umane andrebbero lasciate
alle spalle perché non portano a niente e non servono a niente. Ribadisce
Barbujani: la conoscenza e la scienza sono il vero terreno comune su cui
incontrarsi.
Entrambi i
testi qui sommariamente richiamati sono studi scientifici di studiosi accorti.
Non si citano reciprocamente e, seppure la sintesi registra una
contrapposizione dell’ipotesi di fondo e di alcune analisi, la lettura distesa
e separata fa apprezzare le prevalenti qualità scientifiche e letterarie di
entrambi. Che ci sia da discutere e approfondire risulta assolutamente evidente
da molti riferimenti (non coincidenti nel giudizio) ad altri autori (per
esempio agli spunti proposti dal grande archeologo britannico Colin
Renfrew, 1937-2024) o a singole vicende (per esempio alle risultanze degli
scavi dell’esteso agglomerato neolitico di Çatalhöyük, ai margini
dell’altipiano anatolico). Certamente, l’impostazione di Barbujani è più in
linea con la narrazione tradizionale delle novità dei primi millenni del
Neolitico, ripresa le specificità scientifiche del genetista aggiornatissimo,
esplicitamente debitore di Cavalli Sforza, fra gli altri.
L’impostazione
di Graeber e Wengrow offre molti spunti per sottolineare vari limiti profondi
di quella narrazione “ideologica”, a loro volta talora “ideologizzando” un poco
la questione, in forme argomentate ma oppositive. In una prospettiva
evoluzionistica, tuttavia, proprio loro che si richiamano superficialmente
alle scienze evoluzionistiche e agli evoluzionisti, sottolineano almeno due
fertili punti di sostanza: fatta salva l’oggettiva svolta post-glaciale nel
clima (per altro l’ennesima, prima per i primati e poi per le specie umane), da
quando siamo rimasti l’unica specie del genere Homo una
“rivoluzione” culturale e biologica c’è stata meno di quel che
si tende a ripetere, i primi neolitici non sono rivoluzionari; non vi è
linearità nei primi millenni del Neolitico, non vi è una progressione
inevitabile e univoca verso la storia antichissima e antica delle comunità
umane, né una loro organizzazione “regolare” in città e istituzioni. Differenti
“possibilità” nei percorsi, comprese le stagionalità degli anni umani (o le
albe dei giorni storici) esistevano da prima.
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