Nella scuola, a ogni età, è di grande importanza moltiplicare le occasioni per ragionare e discutere di diritto alla cittadinanza, perché sentirsi cittadini è condizione imprescindibile per sentirsi parte di una comunità, per accorgerci e opporci a ogni discriminazione e cercare di costruire e alimentare una cultura della convivenza.
Riguardo all’ingiustizia palese, che
riguarda 914.000 ragazze e ragazzi studenti, originari di duecento
paesi diversi, privi di cittadinanza, noi insegnanti abbiamo una responsabilità
particolare, perché ogni giorno abbiamo davanti ai nostri occhi persone che
subiscono una sorta di bullismo di stato perché offese e discriminate, nei
delicati anni della crescita, dal non avere gli stessi diritti delle loro
compagne e compagni.
Oggi ci sono due motivi in più che rendono
urgente affrontare con convinzione questo tema: un referendum imminente, che si propone di
dimezzare i tempi per la richiesta della cittadinanza italiana da parte di chi
è figlia o figlio di immigrati; e la bozza delle Indicazioni nazionali per il
curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, proposta
dal ministero all’istruzione Giuseppe Valditara, colma di affermazioni
etnocentriche che rendono più difficile ogni apertura verso il mondo e le sue
diversità, anche se abitano accanto a noi.
Per esempio, nelle pagine dedicate alla
storia, che costituiscono la testa di ariete tesa a stravolgere le indicazioni
in vigore dal 2012, si afferma incredibilmente che “solo l’occidente conosce la
storia”.
La perentorietà di questa affermazione ha
lasciato interdette molte e molti, e fa tornare alla mente la nota frase dello
psicologo statunitense Abraham Maslow, che nella sua Psicologia della scienza afferma: “Suppongo che se
l’unica cosa che hai è un martello, sia allettante trattare tutto come fosse un
chiodo”.
Il martello che sembrano avere nella testa
Ernesto Galli della Loggia e la professoressa Loredana Perla, a cui il ministro
Valditara ha affidato il coordinamento della stesura delle nuove indicazioni, è
quello della rinuncia della complessità, che porta la coppia di esperti a
pensare d’inchiodare l’intera costruzione culturale, che dovrebbe presiedere
alla formazione di allieve e allievi nella nostra scuola di base dai tre ai
quindici anni, con i chiodi dell’identità italiana e occidentale, operando un
taglio e una semplificazione inaccettabile.
La scelta è così giustificata: “I
contenuti (qui proposti) assegnano uno spazio largamente prevalente alla storia
europea e degli Stati Uniti per una precisa ragione. Pur essendo sempre più
venute alla nostra attenzione le vicende dell’intero pianeta, resta il fatto
che le finalità indicate sopra possono essere raggiunte solo rinunciando
preliminarmente all’ambizione enciclopedica di parlare della storia universale,
che vorrebbe dire necessariamente occuparsi un poco, o pochissimo, di ogni
cosa. Per contro tali finalità implicano la centralità della storia
occidentale, ed europea in particolare, storia che ha rappresentato in misura
decisiva il contesto in cui affonda le sue radici la secolare vicenda italiana.
Contesto solo intendendo il quale si può capire il processo di formazione della
nostra cultura e delle nostre istituzioni democratiche”.
Non si tratta di “ambizione
enciclopedica”, ma di consapevolezza che non si può capire quasi nulla del
mondo e del tempo presente se non ci confrontiamo con i modi di vivere,
pensare, raccontare e raccontarsi, esprimersi e organizzarsi, di abitanti delle
più diverse latitudini del nostro pianeta.
E allora è necessario proporre meno
contenuti, sostare attorno a domande aperte e andare più a fondo, ma la scelta
di eliminare o concedere uno spazio minimo ad altre culture e a come si è
sviluppata la storia umana in altri continenti, è in totale antitesi con ciò
che è più che mai necessario oggi, perché quel martello fisso sull’identità
italiana e occidentale, che pervade tante pagine delle indicazioni, rivela una
triste e pericolosa avarizia cognitiva.
Di fronte a un mondo in tumulto e in
straordinaria trasformazione, in cui non si comprende nulla di ciò che succede
senza tenere presente ciò che è accaduto e accade in tutti e cinque i
continenti, a partire dalla storia delle tante migrazioni, guerre di conquista
e colonialismi, le nuove indicazioni propongono la centralità dell’idea di
“italianità” come asse portante della costruzione culturale auspicata
dall’attuale governo.
Tutto ciò mi sembra straordinariamente
diseducativo e propongo un esempio per farmi capire.
Un progetto reazionario
Anni fa mi capitò di ospitare in classe un
attore arrivato tra noi dall’isola di Bali. Ci raccontò che, quando venne in
tournée per la prima volta in Europa, a Parigi, fu ospitato dalla famiglia di
un attore francese. Appena arrivato in quell’appartamento, istintivamente si
mise a cercare il luogo della casa dedicato agli antenati. Nelle povere capanne
con il pavimento di terra battuta del suo villaggio non c’era un’abitazione che
non avesse un angolo dedicato a nonni, bisnonni e avi di più lontane
generazioni.
Chiese conto di questa mancanza, che a lui
sembrava incomprensibile e assurda, domandando a chi l’ospitava perché in
Europa mancasse la tradizione di “tenere in casa” in qualche modo gli antenati,
così necessari alla vita. Tradizione da noi spenta da tempo, se non in certi
aspetti della cultura contadina.
Ne discutemmo a lungo nella nostra quinta primaria
perché questo racconto ci fece capire con maggiore profondità cosa
rappresentassero i Lari per gli antichi romani, rendendo vive le letture e i
documenti trovati nei libri.
Un uso e costume lontano nel tempo lo
stavamo capendo facendo un viaggio di andata e ritorno nello spazio,
dall’Europa all’Asia e dall’Asia all’Europa.
Ci siamo domandati anche se le costruzioni
e le convinzioni culturali avessero viaggiato da una cultura all’altra o si
presentassero simili in terre tanto lontane perché derivanti da bisogni
“elementarmente umani”, come ipotizzava l’antropologo Ernesto de Martino.
È solo un piccolo esempio per ricordare
che il mondo è grande e non c’è cosa migliore che incuriosirci delle tradizioni
più diverse di ogni continente fin da piccoli, se vogliamo educare e porre le
basi per una complessa ma necessaria fraternità universale, che i nostri
chiacchieroni governanti dalle bugiarde radici cristiane sembrano dimenticare o
voler soffocare in un’angusta idea di patria, piccola e ignorante del mondo.
Le nuove indicazioni caldeggiano in più
punti una separazione delle funzioni nella relazione tra le generazioni,
affidando il campo dell’educazione alle famiglie e limitando alla scuola la
sola istruzione. Una proposta che contraddice acquisizioni pedagogiche
verificate da tempo, che mostrano lo stretto intreccio che intercorre tra
l’educare e l’istruire, che devono necessariamente alimentarsi a vicenda.
Oggi le nostre scuole hanno più dell’11
per cento di studenti le cui famiglie provengono dagli angoli più disparati del
pianeta. Sarebbe un vero delitto non confrontarci e dare voce ad altre memorie
personali, familiari, storiche e antropologiche di cui fa un gran bene
considerare la ricchezza, dando respiro alle differenze che incarnano.
La storia, le storie
Il secondo motivo dell’urgenza di trattare
il tema della cittadinanza è dato dal referendum che si terrà il 5 e 6 giugno.
Se si ritiene che la gran parte degli apprendimenti devono ruotare intorno al
tema dell’identità italiana, come auspicano Della Loggia e la professoressa
Perla nel libro intitolato Insegnare l’Italia. Una
proposta per la scuola dell’obbligo (Editrice Morcelliana
2023), è chiaro che il problema dell’acquisizione della cittadinanza del nostro
paese può essere tranquillamente rinviato o addirittura eluso prima della
maggiore età. Ma se, al contrario, consideriamo il gran numero di ragazze e
ragazzi senza cittadinanza che frequentano le nostre scuole, popolando i nostri
istituti di classi-mondo, in quartieri e città in cui spesso sono presenti
decine di nazionalità di diversi continenti, allora la questione della
cittadinanza, del sentirsi a pieno titolo detentori di uguali diritti, diventa
centrale, perché è la base su cui si costruisce la fiducia in se stessi e ci si
sente parte a pieno titolo della comunità del luogo in cui il 64 per cento dei
giovani senza cittadinanza sono nati.
In questo caso è evidente che lo studio
della storia debba contemplare l’esistenza di tante storie, che i punti di
vista è necessario che si moltiplichino e che un costante dialogo e ascolto
reciproco deve permettere di sviluppare non solo un contesto e un metodo che
favorisca lo scambio di esperienze, come palestra di democrazia, ma anche nuovi
contenuti, capaci di sviluppare curiosità inattese per permettere incontri
fruttuosi con tradizioni, costumi, credenze e stratificazioni culturali che, se
trattate con attenzione, rispetto e intelligenza, possono ampliare ed allargare
l’orizzonte degli studenti, oltre che di noi docenti.
Ecco allora che l’impegno civile per
garantire un più rapido accesso alla cittadinanza per tutte le ragazze e
ragazzi con background migratorio si intreccia con una più vasta discussione
sull’idea di scuola e di società che auspichiamo per le future generazioni.
Identità multiple
Mi è capitato di recente di partecipare
a un
incontro online organizzato dalla rete di reti EducAzioni in cui alcune giovani
ragazze con background migratorio hanno raccontato difficoltà e contraddizioni
legate alla richiesta di cittadinanza.
Annisa Alifa Priyatno, di famiglia
indonesiana, ha spiegato che il suo paese non ammette la doppia cittadinanza e
che lei, nel ragionare sulla richiesta di quella italiana, si è chiesta se se
la sentiva di rinunciare alle sue origini recidendo ogni legame con il suo
paese di origine. Impegnata politicamente nel sociale, non sopportava l’idea
dei lunghi anni di attesa, minimo quattro, in cui il suo stato giuridico sarebbe
stato sospeso, non potendo ancora votare in Italia.
Raffaela Milano, dirigente di Save the
children, ha aggiunto che una recente ricerca sulle aspirazioni dei giovani di
seconda generazione ha rilevato come il 25 per cento degli intervistati vive una
grande incertezza sulla scelta migliore da fare.
“Anche io ho incontrato questa
difficoltà”, ha detto Andrea Nicole Hernández, arrivata a Napoli dal Salvador.
Nel suo racconto è emerso che a scuola la volevano collocare in prima media
nonostante avesse tredici anni. Non parlava una parola di italiano e nei primi
tempi ha avvertito ostilità in una classe che mostrava tratti xenofobi. Poi ha
incontrato un’amica che l’ha sostenuta nell’apprendimento dell’italiano
facendole da interprete, e rapidamente ha costruito relazioni positive.
Anche lei si è trovata a un certo punto a
dover scegliere se chiedere la cittadinanza italiana e ha confessato che
all’inizio pensava che farlo avrebbe reciso le sue radici. Compiuti i 18 anni
si è resa conto che quel documento era indispensabile e l’avrebbe aiutata in
modo decisivo, perché sua sorella non aveva potuto intraprendere la carriera
medica in quanto priva di cittadinanza italiana.
“Io credo che ci siano due aspetti, uno
burocratico e uno culturale, e allora ho capito che potevo chiedere la
cittadinanza italiana e continuare a sentirmi salvadoregna. Anche altre mie
amiche la pensano così. Vivono qui ma si sentono ucraine o dello Sri Lanka”.
Dunque, nel ragionare sul necessario
riconoscimento della cittadinanza non va sottovalutato il diritto di sentire e
coltivare identità multiple.
Blessing Unweni, nata da una famiglia
nigeriana a Piove di Sacco, in Veneto, è sempre stata una grande sportiva e ha
raccontato che per i tempi incredibilmente lunghi del rinnovo del permesso di
soggiorno, senza cittadinanza non ha potuto partecipare alle gare di atletica
per le quali era stata selezionata, nonostante fosse nata in Italia, e ha
concluso il suo intervento dicendo: “È triste non poter partecipare a gare per
le quali ti sei preparata”.
Analoga privazione ha subìto Success Bob
Manuel, anche lei di origine nigeriana, nata in Veneto, a Dolo. Grazie alla sua
famiglia ha detto che lei non si era mai sentita diversa ingiustamente, fin
quando le è stato impedito di andare in Irlanda, dove voleva approfondire lo
studio dell’inglese.
Vivere confinati
È paradossale che figlie e figli di
famiglie che hanno attraversato deserti e mari per arrivare in Italia da
diversi continenti, si trovino a vivere in un paese dal quale non possono
uscire. Nei lunghi anni di attesa della cittadinanza subiscono continue
privazioni perché, a differenza delle loro compagne e compagni, non possono
compiere gite d’istruzione all’estero, partecipare a gare e tornei, fare
l’Erasmus, ricevere borse di studio o partecipare a concorsi pubblici.
Discriminazioni ancor più inaccettabili
per chi è nata o nato in Italia o è arrivato nei primi anni di vita.
Assicurare la cittadinanza dimezzando i
tempi della richiesta, contrastare l’umiliazione che costringe le famiglie
immigrate ad affrontare percorsi ad ostacoli e labirinti burocratici senza fine
è un fatto di civiltà.
Votare “Sì” al quinto referendum dell’8 e
9 giugno permette di accelerare i tempi per dare la cittadinanza a chi è
italiano a ogni effetto, riducendo (come in Francia e in Germania) da dieci a
cinque gli anni di residenza legale in Italia necessari per chiederla, fermi
restando i requisiti oggi esistenti per questa richiesta (che riguardano la
conoscenza della lingua, il reddito, lo stato penale, gli obblighi tributari).
Si calcola che, includendo i minorenni per
cui scatterebbe automaticamente la cittadinanza ottenuta dai genitori, sono
circa due milioni e mezzo gli “italiani senza cittadinanza” che potrebbero
diventare finalmente cittadini a tutti gli effetti.
È dunque di grande importanza riuscire con
il referendum ad attenuare discriminazioni incostituzionali inaccettabili.
Al di là degli esiti, tuttavia, è
fondamentale che il tema della cittadinanza rimanga all’ordine del giorno nelle
scuole e in tutti i luoghi educativi o di aggregazione giovanili e che, come ci
si auguro, non si eclissi definitivamente nel discorso pubblico e nell’agire
politico.
Parlando di sé la poeta e maestra di
origini somale Rahma Nur afferma che “quando cominci a capire chi sei, quando
cominci ad apprezzare le tue diversità inizi a dare il meglio di te, ad aprirti
agli altri. Per me gli altri sono stati prima di tutti gli studenti: con loro
potevo essere la maestra nera, non la maestra omologata, costretta ad adeguarsi
agli altri per rassicurarli di essere parte della norma. E allora dobbiamo
stare attenti ed evitare di dare etichette, dividere gli studenti in autoctoni
e stranieri o definirli ‘minoranza’, ‘di origine diversa’, ‘di colore’. Perché
non lasciare che siano loro a scegliere come definirsi?”.
Le ragazze intervenute nell’incontro hanno
raccontato i tortuosi percorsi che le hanno portate a scelte di impegno e a una
grande consapevolezza.
Rahma Nur, da insegnante che lavora sul
campo, ha ricordato che dobbiamo “prestare attenzione al fatto che certi
ragazzi e ragazze hanno un profondo senso di vergogna e inadeguatezza, perché
non sono realmente ‘visti’, ma ritenuti alunni che non possono fare più del
minimo che si chiede loro. Se non prendiamo consapevolezza di tutto questo, come
possiamo aiutare i nostri studenti a sentirsi al sicuro in classe, sentirsi
soprattutto in diritto di imparare in modo egualitario? Non sorprendiamoci se
poi loro si ‘autosegregano’ perché cercano semplicemente un posto sicuro in cui
poter esprimere se stessi, la loro diversità, senza essere giudicati, e
l’autosegregazione diventa un semplice ‘meccanismo di difesa per proteggersi
dall’essere umiliati’”.
La percentuale di dispersione scolastica
delle ragazze e ragazzi con background migratorio è ancora doppia rispetto a
quella dei loro compagni. Ecco allora che ragionare sulla cittadinanza come
insieme di diritti e sulla necessità di riformare le leggi che ne regolano
l’accesso coinvolge questioni educative e culturali di grande rilievo a cui non
ci possiamo sottrarre.
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