Questo non è
sicurezza: è razzializzazione del dissenso. È un avvertimento politico a
un’intera comunità: il diritto di parola non vale uguale per tutti
Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn Al Khattab di via Saluzzo a Torino, è stato prelevato e trasferito in un Centro di permanenza per il rimpatrio. Il provvedimento arriva settimane dopo le sue parole pronunciate durante una manifestazione pro Palestina del 9 ottobre, quando aveva definito l’attacco del 7 ottobre 2023 come una reazione ad anni di occupazione. Una dichiarazione che rientra nel campo della libertà di espressione politica – piaccia o no – è bastata per trasformarlo nel bersaglio di un’operazione mediatica e istituzionale culminata nella revoca del suo permesso di soggiorno di lungo periodo e in un ordine di espulsione.
Shahin vive
in Italia da oltre vent’anni. È egiziano e, in quanto oppositore del regime di
Al-Sisi, sarebbe in pericolo reale e immediato se rimandato in
Egitto. Nonostante questo, e nonostante abbia presentato una nuova domanda di
asilo tramite il modello C3 – che per legge sospende ogni espulsione fino alla
decisione della Commissione – la magistratura ha comunque convalidato
il rimpatrio, aggirando una procedura che normalmente tutela chi chiede
protezione internazionale. Un atto punitivo insomma.
Come ricorda
il movimento Torino per Gaza, Shahin paga una sola colpa: essersi esposto
pubblicamente, e senza pause, denunciando il genocidio in
corso a Gaza e sostenendo la causa palestinese. Una posizione
politica e morale trasformata in motivo di espulsione. Un uomo musulmano che
prende parola sulla Palestina è trattato come un problema di sicurezza,
non come un soggetto avente diritto alla libertà di espressione, garantito a
chiunque altro.
E questo
caso non è affatto isolato. Negli ultimi due anni è emersa una tendenza
sistematica: uomini arabi, musulmani e palestinesi vengono sorvegliati, puniti
e criminalizzati in modo sproporzionato rispetto ai fatti
contestati. Il trattamento riservato ad Ahmad Salem, 24
anni, ne è un esempio lampante. Arrivato in Italia per chiedere protezione
internazionale, è finito nella sezione di alta sicurezza del carcere di Rossano
Calabro. Durante la procedura di asilo gli è stato sequestrato il telefono e
parti di suoi interventi pubblici – slogan, appelli alla mobilitazione civile
per la Palestina, contenuti politici – sono stati etichettati come “terrorismo”.
Frammenti decontestualizzati sono bastati per trasformare l’espressione del
dissenso palestinese in un reato. Il tutto mentre tre giovani palestinesi –
Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh – sono accusati di “terrorismo” sulla
base del volere di Israele, con Yaeesh ancora detenuto da oltre un anno. Anche qui emerge lo stesso schema: presunzione di
colpevolezza, sovrastima del rischio, accettazione acritica delle narrative
israeliane e criminalizzazione automatica del profilo
palestinese.
A
questo si aggiunge quanto accaduto a Mohammad Hannoun,
presidente dell’Associazione Palestinesi in Italia. Fermato all’aeroporto di
Linate, è stato denunciato per “istigazione alla violenza” e colpito da un
foglio di via che gli vieta di entrare a Milano per un anno. Provvedimento già
applicato in passato, sempre in correlazione alla sua attività pubblica
in solidarietà al popolo palestinese. Hannoun definisce
l’operazione “un atto di aggressione”: “Mi dispiace di questo atto
di aggressione nei miei confronti, mentre il nostro governo è complice
diretto del genocidio a Gaza, dove fornisce armi per sterminare i
gazawi. (…) All’uscita dell’aeromobile gli agenti della polizia mi hanno
identificato e mi hanno portato in ufficio a Linate per darmi due notifiche. La
prima era l’allontanamento dalla città per un anno, l’altra una denuncia per
istigazione alla violenza”.
Anche qui si
ripete lo stesso schema: l’attivismo palestinese e musulmano viene decontestualizzato,
punito e represso con l’espulsione fisica dal territorio, con l’isolamento;
ogni parola è un potenziale reato, ogni presenza pubblica trattata come un
problema di sicurezza nazionale. Non è un caso: è parte di una strategia che
colpisce sempre gli stessi corpi, gli stessi accenti, le stesse identità.
Un’ulteriore
conferma arriva dal caso dell’imam di Bologna Zulfiqar Khan, allontanato dall’Italia
l’anno scorso attraverso un decreto immediato del Ministero dell’Interno basato
su una selezione di sermoni, frasi e contenuti religiosi interpretati come
indicatori di pericolosità. Un uomo residente in Italia da decenni,
privato del permesso di soggiorno ed espulso senza garanzie adeguate e senza un
vero processo. Anche qui, un dissenso o un linguaggio religioso che non piace è
stato sufficiente per attivare la macchina dell’espulsione.
Mettendo
insieme questi casi, emerge una dinamica chiara: quando il soggetto è un uomo
musulmano o palestinese che denuncia il genocidio di Gaza o critica la politica
occidentale in Medio Oriente, lo Stato interviene con misure
eccezionali ed eccessive – fogli di via, espulsioni, revoche del
permesso di soggiorno – accuse sproporzionate e criminalizzazione delle
opinioni. È una strategia che colpisce sempre le stesse identità, incoraggiata
da un clima politico che normalizza l’idea islamofobica del
musulmano “pericoloso” e “radicale”.
Questo non è
sicurezza: è razzializzazione del dissenso. È islamofobia
istituzionale normalizzata. È un avvertimento politico a un’intera comunità: il
diritto di parola non vale uguale per tutti. E chi parla contro un genocidio,
soprattutto se coinvolto direttamente, rischia, in questo Paese, di essere
trattato come se fosse lui il pericolo.
La procura di Torino aveva archiviato l’indagine sull’imam Shahin che Piantedosi vuole espellere
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