martedì 30 settembre 2025

Il nome di Francesca Albanese nelle liste Ofac: cos’è il guinzaglio invisibile della finanza americana - Vincenzo Imperatore

Nemmeno Banca Etica può aprire un conto corrente alla relatrice Onu. Il meccanismo dell’OFAC, utile contro il crimine, sta diventando un'arma contro la democrazia

Francesca Albanese, giurista italiana e relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, non riesce ad aprire un semplice conto corrente nel suo Paese. Nemmeno Banca Etica ha potuto accogliere la sua richiesta, come ha spiegato in Parlamento il direttore generale Nazzareno Gabrielli.

Ed è proprio questo “nemmeno” a rendere la vicenda ancora più grave. Banca Etica non è solo una ragione sociale: è l’unico istituto di credito in Italia nato con la missione dichiarata di sostenere la finanza etica e solidale, finanziando progetti sociali, culturali e ambientali e rifiutando speculazioni e attività controverse. Se perfino una banca costruita sull’idea di inclusione e giustizia sociale è costretta a chiudere le porte, significa che il meccanismo che la blocca è più forte della sua stessa ragione d’essere.

Il nome di Albanese compare nelle liste dell’OFAC, l’Office of Foreign Assets Control del Dipartimento del Tesoro statunitense. Queste liste nascono con l’obiettivo di colpire terroristi, narcotrafficanti e regimi autoritari. Chi vi compare si trova escluso dai circuiti finanziari e i suoi beni possono essere congelati. Ma il punto centrale è che queste liste, pur essendo espressione della politica estera americana, finiscono per condizionare l’intero sistema bancario mondiale.

Le banche europee non hanno alcun obbligo formale di rispettarle. Se una banca, però, non tiene conto di queste liste, gli Stati Uniti possono punirla vietandole di usare il dollaro, tagliandola fuori dai pagamenti internazionali e imponendole multe enormi. Non è un rischio teorico: colossi come BNP Paribas hanno già pagato prezzi altissimi per aver violato le regole americane. Ecco perché anche gli istituti italiani, pur in assenza di un vincolo normativo comunitario, applicano automaticamente quelle liste. Il rischio di essere tagliati fuori dai pagamenti internazionali è semplicemente troppo alto.

Il caso Albanese mostra però l’altra faccia di questo meccanismo. Uno strumento pensato per isolare criminalità e terrorismo si trasforma in un ostacolo per una funzionaria delle Nazioni Unite che esercita soltanto le armi del diritto e della parola. Una cittadina italiana non può aprire un conto corrente non per decisione di un tribunale italiano né per una legge europea ma per una scelta unilaterale compiuta a Washington. È un corto circuito democratico che dovrebbe allarmare.

Sul piano teorico le liste OFAC sono utili perché rafforzano l’azione internazionale contro reti criminali e attività terroristiche. Nella pratica diventano però un laccio pericoloso. Estendono la giurisdizione americana al resto del mondo, cancellano il diritto alla difesa dei soggetti colpiti e, come in questo caso, si prestano a un uso politico che mette in discussione i principi stessi di sovranità, giustizia e libertà.

La soluzione non è semplice ma alcune strade sono possibili. L’Unione Europea potrebbe dotarsi di un proprio sistema di liste autonome, con procedure trasparenti e diritto alla difesa per chi vi viene inserito. I singoli Stati potrebbero rafforzare gli strumenti di tutela dei propri cittadini, almeno nei casi in cui non vi sia alcuna condanna penale né indagine giudiziaria. Le stesse Nazioni Unite potrebbero rivendicare garanzie minime per i propri funzionari, che non possono essere ostacolati nello svolgimento del loro mandato.

Il punto è che l’Unione Europea, pur avendo mezzi e risorse, resta debole e incapace di affermare un’autonomia reale. Questo caso rappresenta un segnale inequivocabile: di fronte al peso delle decisioni statunitensi, le istituzioni europee chinano il capo e accettano un’influenza che mette in discussione la sovranità dei propri cittadini.

E qui un pizzico di ironia è inevitabile. La lobby bancaria che a Bruxelles e a Strasburgo si mostra muscolare, capace di ignorare cittadini, consumatori e persino governi, come mai poi si genuflette docilmente davanti al potere americano? Speriamo davvero che Banca Etica non appartenga a quella lobby, ma se perfino un istituto nato per difendere i valori della giustizia sociale è costretto a piegarsi, significa che il guinzaglio d’Oltreoceano stringe più di quanto immaginiamo. Forse non si tratta solo di paura delle sanzioni ma anche di conflitti di interesse che nessuno osa nominare.

Non si tratta di mettere in discussione la lotta al terrorismo o alla criminalità organizzata. Si tratta piuttosto di impedire che uno strumento nato per proteggere la sicurezza internazionale diventi un’arma geopolitica capace di comprimere diritti fondamentali e di condizionare la libertà dei popoli. Senza queste correzioni il rischio è che il guinzaglio invisibile della finanza americana stringa sempre di più, fino a soffocare la nostra democrazia.

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Assata Shakur è morta all’Avana - Alessandro Portelli

Rivoluzionaria afroamericana, attivista per i diritti sociali, militante delle Pantere Nere, Madrina del Rapper Tupac, perseguitata per oltre 40 anni dalla CIA e dal FBI aveva trovato un porto sicuro a Cuba.

La Casa Bianca aveva messo una taglia di un milione di dollari sulla sua testa ma l’Isola Ribelle le offrì asilo politico, accogliendola e proteggendola fino all’ultimo dei suoi giorni.

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Assata Shakur, le stagioni afroamericane

Assata Shakur, militante rivoluzionaria afroamericana, è morta il 25 settembre scorso a Cuba, dove risiedeva come rifugiata politica dal 1984. Era nata nel 1947, e il suo «nome da schiava» era JoAnne Chesimard.

Aveva attraversato tutta la vicenda delle lotte di liberazione afroamericane, contro il razzismo e la guerra, il nazionalismo nero, il Black Panther Party, la clandestinità con la Black Liberation Army. Era stata arrestata nel 1973 dopo uno scontro con la polizia, in cui due agenti erano rimasti feriti, il suo compagno era stato ucciso e lei stessa gravemente ferita (la forma delle ferite dimostrava, secondo la sua difesa, che non poteva avere sparato ed era stata colpita con le mani alzate).

Nella sua autobiografia (Assata, tradotta in Italia nel 1992), racconta le manipolazione dei processi, le violenze e le torture dopo l’arresto, in ospedale e da un carcere all’altro. Evade nel 1979, con l’aiuto di alcune compagne (per avere partecipato a questa azione Silvia Baraldini si vide aggiungere vent’anni di carcere alla sua condanna). Dopo alcuni anni di clandestinità, riuscì a raggiungere Cuba.

Nella sua vicenda convergono una molteplicità di fili della storia afroamericana, dai diritti civili a Black Lives Matter. Per esempio: viene fermata perché la sua macchina ha una luce posteriore che non funziona. È la stessa ragione per cui nel 2016 in Minnesota la polizia ferma Philando Castle e finisce per ucciderlo.

A quel tempo, J. Edgar Hoover, il famigerato direttore dell’Fbi, aveva ordinato di arrestare i «sovversivi» con la scusa di violazioni ai codici della strada (già Martin Luther King fu incarcerato per aver guidato in Alabama con una patente della Georgia).

Ma la prassi continua: afroamericani hanno continuato a morire per un cambio di corsia mal segnalato (Sandra Bland), un passaggio col rosso (Andrew McDuffie), o violazioni imprecisate (Dijon Kizzie, a Los Angeles).

In realtà, quando viene fermata, la polizia sa benissimo chi è: ricercata per un rapimento e due rapine in banca, accuse da cui verrà poi assolta, sta nella liste dei sovversivi pericolosi. L’altro filo dunque è la continuità fra le forme della resistenza afroamericana e della repressione.

Assata Shakur non è la prima militante afroamericana che ha trovato asilo a Cuba. Già nel 1961 vi si era rifugiato Robert F. Williams, reo di avere invocato nel 1959 una risposta armata al razzismo dopo che a Monroe, North Carolina, un bianco era stato assolto dopo aver violentato una donna nera.

Erano gli anni del movimento non violento di massa; sconfessato da Martin Luther King, perseguitato dalla polizia razzista del suo stato, Robert F. Williams si rifugia a Cuba, e poi in Cina.

A Cuba scrive un libro, Negroes with Gun, neri con le armi. Williams non ha mai sparato un colpo, ma – in un paese armato fino ai denti – la sola idea che anche i neri possano avere armi spaventa i suprematisti bianchi fin dai tempi della Guerra Civile («non finirò mai di stupirmi per quanta paura hanno i bianchi di neri con le armi», scrive Assata Shakur).

Erano gli anni del movimento non violento di massa, ma già Malcolm X aveva rivendicato il diritto di usare «ogni mezzo necessario», proclamando il diritto degli oppressi di scegliere loro stessi i mezzi della propria liberazione e resistenza «con ogni mezzo necessario».

Tuttavia, l’idea di mettere armi nelle mani degli afroamericani spaventava i suprematisti bianchi fin dai tempi della guerra civile. Erano gli anni del movimento non violento per i diritti civili, sì: «In nessun posto del mondo, in nessun momento della storia», scrive Assata Shakur, «nessuno ha ottenuto la libertà facendo appello al senso morale dei suoi oppressori».

Così, nel 1964, in Louisiana nascono i Deacons for Self Defence. Deacons, perché i fondatori, tra cui il reverendo Frederick Doughlss Kirkpatrick erano uomini di chiesa; e «self-defense», autodifesa, come nel nome completo e non sempre ricordato del partito nato due anni dopo il California – il Black Panther Party for Self-Defense.

Malcolm X e le Pantere Nere sono passati alla storia come apostoli della violenza, ma nei suoi anni di militanza Malcolm X non ha mai dato neanche uno schiaffo a nessuno, e quanto alle Pantere Nere sono molti di più i loro militanti uccisi dallo stato (Bobby Hutton nel 1968, ucciso mentre alzava le mani per arrendersi; Mark Clark e Fred Hampton, ucciso nel sonno accanto alla sua compagna incinta, nel 1969 – durante un’irruzione illegale della polizia, come più tardi Brenna Taylor, uccisa in casa sua a Louisville nel 2020) che le azioni violente attribuibili a loro.

La scintilla delle rivolte dei ghetti, da Watts a Harlem, era – come nel 2021 – la violenza della polizia nelle loro strade (nel caso di Watts, anche lì per motivi di traffico). La violenza era dappertutto, in un paese in guerra: come disse Martin Luther King, «ci applaudono quando siamo non violenti nei confronti dei razzisti in Alabama e Mississippi. Ma poi ci chiedono di essere violenti contro i bambini vietnamiti»).

Assata Shakur si forma in questo contesto, ma la sua vicenda appartiene a un momento successivo, dopo l’assassinio di Martin Luther King (che nella sua autobiografia indica come il vero momento di svolta), dopo la svolta autoritaria e leaderistica del Black Panther Party, dopo che le lotte degli anni ’70 sono sfociate nell’elezione e rielezione di Richard Nixon.

L’autodifesa non le basta più, si convince che i mezzi necessari sono altri. Esclusa dal partito, ricercata dalla polizia, entra in clandestinità e si avvicina al Black Liberation Army, più una costellazione di gruppi underground che una vera e propria organizzazione.

«La lotta armata da sola non può dar vita a una rivoluzione», scrive: «La guerra rivoluzionaria è una guerra di popolo, e nessuna guerra di popolo si può vincere senza il sostegno delle masse popolari».

(da il manifesto)

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lunedì 29 settembre 2025

Novità nel gioco del Monopoli

di Francesco Masala

Da quando l’amico di Epstein, il presidente Trump, ha deciso che la storia non è altro che una questione immobiliare, i manuali di storia negli Stati Uniti d’America spiegheranno finalmente che le grandi e bellissime città degli USA, dell’Australia, di Israele, dell’America Latina non sarebbero state costruite dagli indigeni che non hanno mai avuto gli spiriti animali immobiliari del capitalismo. I genocidi sono stati dolorosi, ma necessari, per lo sviluppo e la grandezza delle città.

La società proprietaria del Monopoli ha deciso di cambiare il gioco (che già è un gioco immobiliare) ridefinendo le caselle.

Nella versione Italiana, per chi non si ricorda, ci sono le seguenti strade, dove comprare e vendere:

Vicolo Corto, Vicolo Stretto, Bastioni Gran Sasso, Viale Monte Rosa, Viale Vesuvio, Via Accademia, Corso Ateneo, Piazza Università, Via Verdi, Corso Raffaello, Piazza Dante, Via Marco Polo, Corso Magellano, Largo Colombo, Viale Costantino, Viale Traiano, Piazza Giulio Cesare, Via Roma, Corso Impero, Viale dei Giardini, Parco della Vittoria.

Dai prossimi mesi, nella versione internazionale, appariranno, di sicuro le seguenti caselle:

Isola di Manhattan, Piazza Indonesia, Trump Tower, Gaza Riviera, Parco dei Genocidi, Viale degli Imperi, Largo delle Remigrazioni, Vicolo dello Sterminio, e altre caselle che sono allo studio.

Resteranno le caselle In Prigione, dove verranno mandati alcuni giocatori, gli antifascisti, gli antisionisti, gli antiamericani, gli anarchici, o pro-Pal, tutti contrari alla bellezza delle città e dei grattacieli.

Sarà obbligatorio usare solo dollari USA.

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Carnefice - Enrico Campofreda


Finiremo questo lavoro il più velocemente possibile” ha dichiarato il carnefice Netanyahu davanti all’assise vuota e svuotata di senso delle Nazioni Unite. L’unico senso l’avrebbe avuto un arresto immediato, seduta stante del premier israeliano, ricercato dalla Corte Penale dell’Aja per crimini contro l’umanità. E per genocidio, gridano migliaia di piazze nel mondo, al cospetto di esecutivi che condannano ma non agiscono, timorosi verso il protettore principe del malfattore: il governo degli Stati Uniti d’America. Non nuovo a coperture di malavitosi e malavitoso esso stesso per invasioni e guerre seminate e praticate per un secolo intero, dedicato all’altrui sottomissione per mano militare o per intrighi politici. Un ottimo esempio offerto alla banda Netanyahu intenta a strappare vite e terra ai palestinesi, un’entità etnica da cancellare. Questo il piano. Cui s’aggiunge il gentlemen agreement fra premier Erode e presidente Paperone per monetizzare. E dunque: sgombro, deportazione,  ricostruzione di Gaza trasformata in resort, posto che distruzione, sterminio, oblìo sono in corso e tutto sommato accettati dai concittadini israelo-statunitensi che col voto e la noncuranza tengono in vita i due leader. Nel suo astioso proclama all’Onu, una verità Netanyahu l’ha detta: “Abu Mazen e Autorità Nazionale Palestinese sono corrotti fino al midollo”. Lo sa per certo, anch’egli ha contribuito, come altri premier d’Israele a pagare la svendita dei diritti di quel popolo. Una liquidazione che parte da lontano. Passa per gli Accordi di Oslo, premessa di tutte le truffe cui lo stesso Arafat s’era prestato. Per ingenuità? per vanagloria? per aver creduto alla politica dei piccoli passi? Le motivazioni le ha portate nella tomba. Ma già un quindicennio prima il suo popolo, in Cisgiordania e Gaza, aveva voltato le spalle a lui, al suo partito e all’imbroglio d’un simil Stato che, chi vuole sotterrare i palestinesi e la loro causa, continua a rilanciare con la vuota formula dei “due Stati per due popoli”. Malvisto non solo dal sionismo-ortodosso ora rampante. Malvisto dal sionismo intero e dalla comunità ebraica mediorientale e mondiale. Una formula vuota, servita solo a ingannare, visto che il territorio della West Bank è da decenni infiltrato da coloni che diventano padroni di tutto, armi in pugno e Israeli Defence Forces alle spalle. Nel suo manicheismo, tipico d’ogni colonialista, d’ogni nazionalista, Netanyahu cita la missione ebraica contro il Male, cioè HamasHezbollahPasdaran e l’Iran intero, più gli Houti. E con la propaganda rovescia i termini d’una realtà ormai chiara a tutti. Lo Stato d’Israele, il distruttore del Medioriente sin dalla sua nascita nel 1948, vuole divorare chi ha intorno. E’ uno Stato antropofago, mangia il cuore di chi lo circonda, dopo essersi posto come entità virale su esistenze millenarie. Fermarlo? Sembra impossibile, vista la crisi identitaria d’un istituto creato per bloccare le guerre mondiali, ma mai le locali. Visto il dissesto del multilateralismo e della cooperazione cui gli Usa tagliano fondi, con Cina e Russia disinteressate e concentrate su altre assisi (BricsOrganizzazione della cooperazione Shanghai). Del resto anche l’Occidente si trova a suo agio nel G20 o nella Nato, in un mondo che chiude le porte alle trattative e impone la legge del più ricco e forte, tecnologicamente e militarmente. Mentre il carnefice Netanyahu e suoi simili sorridono.

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domenica 28 settembre 2025

Dal fondo umanitario alla critica del capitalismo: brevi note sulle mobilitazioni del 22 settembre - Ugo Boghetta

 

Il grande movimento sceso in piazza il 22 settembre non si ferma. Le navi dirette verso Gaza, attaccate da droni che sembrano lanciati da ignoti (mentre altri sono sempre russi), mantengono alto il livello della mobilitazione.

All’Onu, intanto, è andato in scena il Nuovo Mondo, a cui Trump e Israele rispondono con un’arroganza suicida.

Il fondo umanitario che caratterizza questo movimento non va inteso come mero umanitarismo. È un fondo politico, che condensa anche anni di frustrazioni su tanti temi vissuti con impotenza: scuola, sanità, lavoro, precarietà, salario, casa. L’instabilità internazionale si somma a queste difficoltà e alimenta l’incertezza della vita quotidiana. Byung-Chul Han la definisce “società ansiogena”.
La domanda è: quale quadro di riferimento, quale consolidamento nel tempo potrà darsi questo imponente movimento, che non si spegnerà nemmeno con la fine delle mobilitazioni?
Essere un agente capace di incidere sul quadro internazionale proietta l’aspetto umanitario oltre la pura indignazione, trasformandolo in contestazione dei cosiddetti “valori occidentali”. Valori ormai giunti alla fine che meritano. L’Occidente altro non è che il capitalismo giunto, dopo secoli di eccellenze ma anche di barbarie — colonialismo, imperialismo, schiavismo, razzismo — alla sua disfatta umana, morale ed etica. Esaurita la spinta propulsiva, resta solo la forza militare. Ma con la sola violenza non andrà lontano, anche se, se non fermato, potrà ancora produrre morte e distruzioni immani.
In questo contesto, l’antioccidentalismo umanitario, morale, etico può diventare anticapitalismo.

Il nodo politico
Il movimento sta già producendo risultati concreti: ha spinto il riposizionamento di paesi come Francia e Inghilterra, ha messo in difficoltà il governo Meloni per il suo accodarsi al “cane pazzo” americano, ha costretto il PD a tentare un recupero nei confronti del movimento ProPal.
Tuttavia, questo recupero è intrinsecamente opportunista. Non solo perché fino a ieri lo stesso PD sosteneva Israele, ma anche perché l’emblema di questo nuovo corso — “due popoli, due stati” — è in realtà un’illusione. Ed è anche una soluzione concettualmente sbagliata, ancorata com’è al vecchio legame fra Stato ed etnia. In realtà, non ci sarà pace finché non si metterà mano radicalmente alla risoluzione ONU del 1948, ridisegnando da capo la questione palestinese.
Anche il riposizionamento di Macron e Starmer è opportunistico, determinato più dalle crisi interne, dalle oscillazioni di Trump sulla questione ucraina e dalle guerre commerciali e valutarie fra dollaro ed euro che da convinzioni reali.
Nel contempo, non si può ignorare che anche in Ucraina è in corso un massacro: di ucraini e di russi. È umano, morale, etico? La differenza è che la Russia ha potuto rispondere alla provocazione dell’espansione NATO ai propri confini e al posizionamento di missili alle sue porte. Parafrasando il cancelliere tedesco Mertz, gli ucraini fanno in Europa lo stesso “lavoro sporco per noi” che Israele compie in Medio Oriente.

Le contraddizioni interne
Il movimento ProPal contiene dunque al suo interno soggetti portatori di grandi contraddizioni. Alcuni — non solo il PD — sostengono la guerra contro la Russia. È una contraddizione non solo politica, ma ontologica. Un movimento a base umanitaria non può permettersi a lungo un doppio standard in perfetto stile occidentale. Ciò al netto delle difficoltà ad affrontare questo problema.

Il capitalismo neoliberista e la vita quotidiana
Un terzo aspetto riguarda il fatto che il capitalismo neoliberista ha reso inumani e immorali ampi settori della vita quotidiana. L’attacco è quotidiano, insistente, strutturale. Gaza non è che la manifestazione estrema del disprezzo per la vita per interessi di parte. Non è forse l’immane capitalismo finanziario occidentale a voler trasformare un cimitero a cielo aperto in un grande resort?
Anche da noi si resiste, spesso in silenzio, senza riflettori. La coscienza di ciò è ancora debole e frammentata. Ma gli eventi in corso possono favorire un cambio di passo anche all’interno del Paese. La questione di classe si manifesta spesso in forme nuove.
Tutto ciò, al momento, è latente. Le tensioni agiscono anche in silenzio. La consapevolezza ha i suoi modi e i suoi tempi.

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DIETRO I MITI, ARISTOCRAZIA E SUPREMAZIA BIANCA: IL CASO H.P. LOVECRAFT - Diego Angelo Bertozzi


La recente pubblicazione, da parte di Adelphi, della lunga lettera al fratello sotto il titolo di Potrebbe anche non esserci più un mondo, datata novembre 1929, ci permette di mettere in rilievo alcune ombre del pensiero politico dello scrittore di Providence: imperialismo, dominio dell'uomo bianco, razzismo e rifiuto della democrazia.

Una doverosa premessa.

Se dobbiamo trovare una caratteristica comune alle varie forme di fascismo (nazismo compreso), non possiamo che soffermarci sulla netta dicotomia tra razze superiori, destinate al governo del mondo, e razze inferiori, ritenute barbare e quindi naturalmente adatte a una condizione di schiavitù o duro sfruttamento. C'è indubbiamente anche altro in comune - retorica contro la plutocrazia, la rendita antinazionale, la borghesia affaristica di contro al nobile contadino legato alla terra e alle sacre tradizioni - ma soffermarci su questo aspetto ci permette di evidenziare come tale visione dell'umanità sia un'eredità, portata all'estreme conseguenze dal nazi-fascismo, di parte del patrimonio della cultura liberale. Quest'ultima, tutt'altro che estranea agli stermini coloniali (si pensi a quanto accaduto nei confronti dei nativi nella terra poi chiamata America e ai massacri compiuti dall'Inghilterra tardovittoriana in India) ha in diverse occasioni esaltato con fierezza il dominio razziale. Nei suoi approfonditi studi lo storico e filosofo Domenico Losurdo[1] è risalito alle origini statunitensi del famigerato termine Untermensch: siamo nel 1922 quando lo storico Lothrop Stoddard pubblica il libro The Menace of the Under Man nel quale la minaccia alla civiltà bianca era rappresentata dai popoli di colore. Certo si tratta di un autore iscritto al KKK, ma in un discorso a Birmingham (in Alabama) nel 1921 fu menzionato direttamente dal presidente repubblicano Harding in un discorso nel quale denunciava che il problema razziale negli Usa era solo agli inizi. Sono gli anni della segregazione razziale e dei linciaggi, ma anche della durissima repressione del movimento operaio di ispirazione socialista, e nei quali teorie razziali e discriminazione di classe si intrecciano inesorabilmente: chi mette in discussione l'assetto capitalista è sempre un elemento straniero, marionetta di un complotto della sovversione internazionale. Famoso il caso della condanna a morte di Sacco e Vanzetti al termine di un processo nel quale il giudice Thayer aveva esortato i giurati a "comportarsi come soldati che servono la patria sul campo di battaglia contro i nemici stranieri". Qualche anno dopo, nel 1929 a Gastonia (North Carolina), gli operai tessili in sciopero, contro i quali intervennero la Guardia nazionale e miliziani della parafascista American Legion, furono accusati di essere parte di una cospirazione straniera[2].

 

Lovecraft e una pesante tradizione.

Chiarisco subito: il celebre scrittore horror/fantasy non è né un fascista né un nazista e neppure un conclamato razzista, ma senza dubbio vive e respira in un ambiente in cui il razzismo, l'ostilità nei confronti delle masse e la necessità di mantenere il dominio dell'uomo bianco sono assai diffusi. Ancora a metà del Novecento negli Usa una trentina di Stati vietavano per legge i rapporti sessuali e matrimoniali anti-razziali. E ancor meno questo lungo articolo intende mettere in discussione l'indubbio genio letterario dello scrittore di Providence, a cui ancora si rifanno celebri registi di film horror (pensiamo al Carpenter de Il seme della follia). Tuttavia la recente pubblicazione, da parte di Adelphi, della lunga lettera al fratello sotto il titolo di Potrebbe anche non esserci più un mondo, datata novembre 1929, ci permette di mettere in rilievo alcune ombre del suo pensiero politico che possiamo definire come reazionario. Troppo vicina al crollo della Borsa dell'ottobre precedente per tenerne conto, la lettera è scritta in un periodo nel quale la segregazione razziale domina nel Sud e quasi il 60% degli statunitensi non possiede il reddito sufficiente per assicurarsi il soddisfacimento dei bisogni elementari della vita. In Europa il fascismo è ormai regime in Italia, mentre i nazisti iniziano la rincorsa al potere in Germania: le vecchie democrazie liberali sono, quindi, messe in discussione proprio quando il movimento operaio (Italia, Francia, Spagna e Germania) gode - o godeva - di forza e influenza come mai anche grazie all'esistenza dell'Unione sovietica. Ed è questa la civiltà alla quale fin da subito Lovecraft si dichiara estraneo parlando di "becera massa" di "barbarie di villani", figli del processo di industrializzazione e conseguente politicizzazione, che hanno "poco a che fare con la nostra civiltà [...] non più della barbarie polinesiana o degli indiani Sioux". Non solo: parla di "piaga da estirpare, qualora possibile, altrimenti fuggire"[3]. Inoltre l'americano medio non può certo essere rappresentato dallo "squallore di un insediamento di negri in Alabama" o da una "comunità urbana di mangiaspaghetti"[4]. La vera nemica contro cui prendersela e lottare è la "bestia nera della democrazia" caratterizzata dal "sordo rancore del buzzurro"[5]. La democrazia, parto a lui indigesto dell'altrettanto indigesta civiltà delle macchine, mette a rischio il predominio politico dei "gentiluomini": quest'ultimi non vengono rappresentati come una casta chiusa (ma va sempre tenuta presenza la segregazione dei neri e lo sterminio / marginalizzazione degli indigeni) tuttavia come predestinati da sangue e benessere economico alla salvaguardia della civiltà; una sorta di semi-casta che deve essere lasciata in pace "senza il continuo assillo di rivaleggiare con una materia estranea, male assimilata [...]"; ad essa, inoltre, deve essere garantita la "continuità delle sfumature e delle sottigliezze ereditarie". Pur ammettendo un processo di cooptazione/selezione all'interno della massa dei lavoratori ("plebei superiori"), tuttavia questa aristocrazia di sangue, buone maniere e di cultura deve continuare a primeggiare di fronte alla "debolezza delittuosa della politica"[6]. L'umanità ha il dovere di preservare i suoi "purosangue" e ogni mezzo per fiaccarne la forza è declassato a "artificio innaturale"[7].

Proclamando apertamente l'esigenza di mantenere a tutti i costi la supremazia anglo-sassone sul mondo, non si fa scrupoli nell'indicare i popoli arabi e i cinesi suoi contemporanei come "sporchi, cenciosi, ignoranti, mentalmente sterili" e, per forza di cose, esposti alla dominazione e allo sfruttamento degli occidentali. Così si esprime nella lettera: "L'idea di appartenere a qualcosa di diverso dalla civiltà che governa il mondo è così oltraggiosa per me - così disastrosa per il mio senso di dignità personale che, per la mia coscienza, una minaccia a quella civiltà ha tutta l'irruenza di un insulto specifico. Il mantenimento della supremazia mondiale anglosassone è imprescindibile per la mia immunità personale da insulti, affronti e umiliazioni"[8]. Non è tutto, perché ad essere delineata è una vera e propria piramide razziale, nella quale il miscuglio è un pericolo: "per dirla tutta è chiarissimo che le razze più isolate e aristocratiche sono sempre quelle che salgono più in alto sulla scala che porta fuori dall'ottusità, dall'ignoranza e dall'insensibilità animale"[9]. Tra le "razze" per Lovecraft sussiste ancora una naturale e insormontabile "repulsione", tanto che solo il conflitto è l'unica via di un loro possibile rapporto. Certo più sfumato rispetto ai teorici fascisti (e anche liberali!), ma il mondo da lui presentato si avvicina all'immagine di un palcoscenico sul quale si svolge un atavico conflitto che oppone le razze civili/aristocratiche a quelle barbare o semibarbare: "La repulsione tra certi estremi razziali è ancora molto forte e, in taluni casi, insormontabile. Una fusione bianco-mongola non è quasi concepibile, meno ancora lo è un'inclusione dei neri. Perfino un gruppo con una vena di mulatto eviterebbe la fusione con i neri puri, quindi la scomparsa di una razza nera separata è quanto mai improbabile se non per un massacro. In pratica - continua il ragionamento - è assai probabile che i filoni occidentale, mongolo, indù e negroide mai e che l'unica forma di contatto sarà il conflitto"[10].

Consapevole che un grande scrittore come Lovecraft vada giudicato per le sue opere - che il sottoscritto ritiene anche dei capolavori del genere - tuttavia il suo pensiero e il suo operare vanno calati nell'epoca che li ospita, nel linguaggio e nelle parole che la attraversano. Il suo è un pensiero - a meno che non pensiamo che vivessi isolato da tutto e da tutti! - che ha radici fortemente reazionarie, classiste, razziste e imperialiste proprio quando i popoli coloniali, sotto la spinta dell'esempio sovietico, iniziano la lotta per la loro liberazione.

Diego Angelo Bertozzi

 

[1] Faccio riferimento a D. Losurdo, Il linguaggio dell'impero, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 99-103.

[2] Sul processo a Sacco e Vanzetti e, in generale, sul movimento sindacale statunitense rinvio a R. O. Boyer e H. M. Morais, Storia del movimento operaio negli Stati Uniti 1861-1955, Bari, De Donato, 1974.

[3] H.P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, Milano, Adelphi, 2025, pp. 13-14.

[4] Ivi, p.15.

[5] Ivi, p. 16-17.

[6] Ivi, pp. 110-111.

[7] Ivi, pp. 120-121.

[8] Ivi, p. 104.

[9] Ivi, pp. 37-38. All'inizio del secolo il presidente T. Roosevelt guardava alla storia come a un campo di battaglia tra la civiltà cristiana occidentale, guidata dell'avanguardia anglosassone, e la barbarie e il dispotismo. Si veda A. Stephanson, Destino manifesto, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 140-141.

[10] Ivi, p. 38.


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sabato 27 settembre 2025

Il Papa soffre, si addolora, invita, esorta ma non si pronuncia sul genocidio - Paolo Farinella

  

Non abbiamo dovuto aspettare molto per capire che la vocazione di pompiere gli è congeniale

Come lo stesso card. Robert Prevost ha voluto sottolineare pomposamente apparendo al balcone con la mozzetta rossa, residuato storico della clamide imperiale, simbolo della dignità dell’imperatore d’Occidente e di Oriente (Roma e Bisanzio/Costantinopoli), il papa neoeletto volle che lo chiamassimo «Leone», nell’ordine il quattordicesimo. Il riferimento compiaciuto era per il suo predecessore Leone XIII, che, per la vulgata abborracciata, fu il papa della modernità con l’enciclica Rerum Novarum del 1891, con cui, a malincuore, il papa prendeva atto che il mondo gli era scappato di mano e bisognava prendere per le corna la «questione operaia», altrimenti altri se ne sarebbero appropriato e la Chiesa ci avrebbe fatto, ancora una volta, la figura del fossile pachiderma, incapace di vivere i tempi che attraversa.

Il papa americano-peruviano-italo-franco-spagnolo intravede nella Intelligenza Artificiale un’altra questione epocale, spartiacque che attraversa gli interessi della Chiesa (mo’ me la segno!). Volle chiamarsi Leone XIV solo per questa ragione. Lui si applaudì da solo, gli americani erano contenti di avere un meticcio, ma abbastanza bianco da non sfigurare come papa, “vestito di bianco” con un tocco rosso che dona sempre e gli altri cardinali si accodarono perché capirono subito che non sarebbe mai stato la riedizione di Francesco. Francesco arrivò dopo 800 anni del primo Francesco, e noi, ora, per vederne un altro, bisognerà aspettare la fine del mondo (per altro, abbastanza vicina, con gli scuri di luna che vi sono in giro).

 

All’inizio, io stesso lo accolsi con beneficio d’inventario e dandogli il credito che si merita un nuovo cliente, salvo cambiamenti in corso d’opera. Non abbiamo dovuto aspettare molto per capire che la vocazione di pompiere gli è congeniale. D’altra parte, è un “figlio di Sant’Agostino” (autocertificazione sua), uno che, essendosi buttato tutto a destra con Platone (sec. V-IV a.C.), mediato da Plotino (sec. III a.C.) per i quali la materia è brutta e cattiva, mentre solo l’anima è bella e affascinante, tanto da condannarla alla perpetua prigionia a vita nel corpo mortale di esseri spregevoli. Ci vollero otto secoli perché ad Agostino rispondesse per le rime uno come Tommaso d’Aquino (sec. XIII). Leone si crede Mosè nel Mare Rosso dell’epopea dell’IA con l’intenzione di affrontare rischi e montagne russe del cambiamento d’epoca.

Purtroppo, i suoi sogni (e pure i nostri) si sono infranti subito con la realtà che è più intelligente di qualsiasi artificiale intelletto. Appena eletto, si trovò davanti calda di sangue fresco e giovane, anzi infantile, il palcoscenico mondiale dove si rappresentava, in prima assoluta, GAZA, PLEASE! opera unica di Benjamin Netanyahu, del suo governo e dei governi di due terzi del mondo che lo appoggiano “perché paese democratico” (sic!), tra cui gli Usa trumpisti, un altro modello di democrazia al barbecue.

Invece di affacciarsi al balcone per dire soltanto: “Io vado a Gaza e parto oggi stesso; chi vuole venire con me? Andiamo per mare fino all’altezza di Gaza, poi viriamo a sinistra (almeno una volta nella vita, tanto per togliersi lo sfizio) e attracchiamo sulla spiaggia. Poi si vedrà! Nossignori. Il Leone ha deciso di non telefonare nemmeno alla parrocchia della Sacra Famiglia di Gaza, a cui papa Francesco telefonava tutte le sere, alle ore 19:00 per sorridere e parlare con gli ospiti rintanati lì.

 

Il Leone è prigioniero del galateo diplomatico, e quindi se ne andò non a Gaza, ma, come Annibale agli ozi di Castelgandolfo. Gli sforzi da ernia che ha fatto sono stati “implorare la fine delle guerra; provo un grande dolore per Gaza; ai capi di Stato dico: non fate i birichini” e, dulcis in fundo, ma proprio in fundo: “La santa Sede non intende, per ora, chiamare ‘genocidio'” il ‘genocidio’ che si sta consumando sulla pelle dei martiri moderni, come avvenne nella Shoàh ebraica nei campi di sterminio nazisti, dei bambini, delle bambine, dei vecchi e delle donne e di disperati di Gaza. Il papa è capo di stato e quindi non gli si addice usare un linguaggio di verità, perché la “diplomazia è l’arte di dire bugie con stile ed educazione”.

Dopo che qualcuno, ma dopo un secolo e mezzo, deve avergli detto che tutto il mondo si aspettava un segno da lui, bontà sua, si è lasciato scappare: “Andrò a Lampedusa”. Non si capisce la logica perché poteva anche andare alle Bermude, alle Settechelles o ad Arzachena o Calangianus in Sardegna… l’ospitalità l’avrebbe avuta lo stesso con un bicchierino di “Filu ‘e ferru” e non avrebbe corso rischi di sporcare la mantelletta rossa. Il popolo è molto più avanti, anche 550 preti di 21 nazioni abbiamo deciso di chiamarsi “Preti contro il genocidio” (massiccio e travolgente 1,2% in tutto il mondo). Il papa non si pronuncia, ma soffre, si addolora, invita, esorta, supplica e… fa l’americano. Forse, se avesse riflettuto qualche secondo in più, avrebbe fatto meglio a chiamarsi Leoncello I, tenero cucciolotto.

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Il calice avvelenato del riconoscimento: un'arma a doppio taglio per la Palestina - Ilan Pappe

 

Anche se non dovremmo considerarlo un “momento storico” o un “punto di svolta”, questo riconoscimento ha il potenziale per aiutare i palestinesi a condurci verso un futuro diverso.

 

In passato, ero piuttosto scettico riguardo al riconoscimento della Palestina, poiché sembrava che coloro che erano coinvolti nella conversazione si riferissero solo a parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza come Stato di Palestina, e a un governo autonomo da parte di un ente come l'Autorità Nazionale Palestinese, privo di una vera e propria sovranità: una Palestina Bantustan. Un simile riconoscimento avrebbe potuto creare l'errata impressione che il cosiddetto conflitto in Palestina fosse stato risolto con successo.

Molti dei capi di governo e dei loro ministeri degli esteri che oggi parlano di riconoscimento fanno ancora riferimento a questo tipo di Palestina. Quindi, dovremmo sostenere maggiormente questa iniziativa in questo momento?

Suggerirei di affrontarla in modo più sfumato in questo particolare momento storico, mentre il genocidio continua.

Non sorprende che nessuno a Gaza abbia tratto speranza, ispirazione o soddisfazione da questa dichiarazione. Solo a Ramallah e in alcuni settori del movimento di solidarietà è stata celebrata come un grande risultato.

I governi che hanno riconosciuto la Palestina la associano direttamente alla soluzione obsoleta e ormai morta da tempo dei due stati, una formula impraticabile, immorale e basata sull'ingiustizia fin dal momento in cui è stata concepita come "soluzione".

Eppure, ci sono dinamiche potenziali e più positive che potrebbero essere innescate da questo attuale riconoscimento globale della Palestina. Sebbene non dovremmo considerarlo un "momento storico" o un "punto di svolta", ha il potenziale per aiutare i palestinesi a condurci verso un futuro diverso.

Ha un significato simbolico come contromovimento all'attuale strategia israeliana di eliminare la Palestina come popolo, come nazione, come paese e come storia. Qualsiasi tipo di riferimento, anche simbolico, alla Palestina come entità esistente in questo momento è una benedizione. A un livello molto insoddisfacente ma minimamente necessario, impedisce alla Palestina di scomparire dal dibattito globale e regionale.

In secondo luogo, fa parte di una reazione globale dall'alto, insufficiente ma in qualche modo più incoraggiante, contro il genocidio in corso. Non si tratta di sanzioni – che sono ben più importanti dello spettacolo a cui abbiamo assistito all'ONU – né di una mossa che pone fine al commercio militare occidentale con Israele, che sarebbe stato molto più efficace contro il genocidio rispetto al riconoscimento della Palestina.

Tuttavia, esprime una certa disponibilità da parte dei governi occidentali a confrontarsi non solo con Israele, ma anche con gli Stati Uniti sul futuro della Palestina.

Il riconoscimento stesso ha creato – forse inavvertitamente – due importanti conseguenze. In primo luogo, i territori occupati costituiscono ora lo Stato di Palestina occupato: l'intero Stato di Palestina. Questo non è nemmeno paragonabile all'occupazione parziale russa di due province dell'Ucraina; si tratta dell'occupazione totale di uno Stato. Almeno a prima vista, sarebbe molto più difficile ignorarlo da una prospettiva giuridica internazionale.

In secondo luogo, è molto chiaro quale sarà la reazione israeliana: imporre ufficialmente la legge israeliana prima su alcune parti della Cisgiordania, poi sull'intera regione e forse più tardi sulla Striscia di Gaza.

Sebbene ci si aspetti così poco dai nostri attuali politici, in particolare nel Nord del mondo, non potranno affermare di aver fatto tutto il possibile per riconoscere la Palestina se questa sarà occupata nella sua interezza da Israele e annessa completamente. Persino per questi politici, tale inazione esporrà un nuovo nadir di codardia morale e conficcherà l'ultimo chiodo nella bara del diritto internazionale.

Noi attivisti siamo pienamente consapevoli del pericolo di distogliere l'attenzione anche solo per un secondo dalla missione di fermare il genocidio. Il riconoscimento non fermerà il genocidio, quindi ciò che stiamo facendo e ciò che intendiamo fare per salvare Gaza non è influenzato dai discorsi e dalle dichiarazioni alle Nazioni Unite del 22 settembre 2025. La nostra manifestazione a Londra questo ottobre – si spera con la partecipazione prevista di un milione di persone – è altrettanto importante, se non di più.

Lo sciopero generale italiano a sostegno della flottiglia Sumud è altrettanto importante, se non di più.

Ma è anche un promemoria del fatto che dovremmo essere vigili e molto sospettosi quando la Francia e i suoi alleati parlano del "giorno dopo". C'è un senso di déjà vu nell'istrionismo che ha accompagnato la firma degli Accordi di Oslo esattamente 32 anni fa. Questo potrebbe pericolosamente trasformarsi in un'altra farsa di pace che sostituisce una forma di colonialismo con un'altra, più gradita all'Occidente.

Tutto ciò è stato evidente nel discorso del presidente francese Emmanuel Macron. La prima parte del suo discorso ha ribadito l'impegno della Francia nei confronti di Israele e il suo odio per Hamas.

La seconda parte ha imposto ai palestinesi che solo l'Autorità Nazionale Palestinese li avrebbe rappresentati e che lo Stato palestinese sarebbe stato smilitarizzato. Non ha menzionato il genocidio o le sanzioni contro Israele, il che non sorprende.

Macron è un politico egocentrico e privo di spina dorsale morale, eppure è consapevole che il 70% del suo popolo è insoddisfatto della sua politica nei confronti della Palestina. Affermare che un bantustan dell'Autorità Nazionale Palestinese sia ciò che la gente desidera – che sia in Francia, in Palestina o altrove – dimostra ancora una volta il distacco di così tanti politici europei dalla realtà sul campo.

Quindi non è qui che risiede l'importanza del riconoscimento. È un'arma a doppio taglio. Per quanto ne so, la strategia migliore per noi del movimento di solidarietà è sostenere e insistere – attraverso l'attivismo e la ricerca – che la Palestina è il Paese che si estende dal fiume al mare, e che i palestinesi sono tutti coloro che vivono nella Palestina storica e coloro che ne sono stati espulsi. Sono loro che decideranno il futuro della loro patria.

E, cosa più importante di ogni altra, dobbiamo insistere sul fatto che finché il sionismo dominerà ideologicamente la realtà della Palestina storica, non ci sarà alcuna autodeterminazione, libertà o liberazione palestinese.

(Traduzione de l'AntiDiplomatico)

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venerdì 26 settembre 2025

SU CÀRRIGU ‘E SA CUSSENZIA - Gian Luigi Deiana

(il peso della coscienza)

dedicherei queste righe agli studenti che in queste ore intraprendono un nuovo anno di scuola, ma in realtà le dedico a me stesso, per come mi sono trovato per anni a insegnare: per cercare di entrare, con una specie di dialogo virtuale immaginato in una classe, dentro il terribile frangente nel quale stiamo vivendo, e stiamo morendo; non sono sorpreso dalle varie raccomandazioni scolastiche, tese a evitare che nelle classi si parli di palestina: evitare i carichi di coscienza è sempre una soluzione; l’alternativa oggi presente, infatti, è la determinazione a entrare nell’abisso;

il carico di coscienza” è un’espressione idiomatica sarda; è un’espressione popolare, ma è densa di profondità filosofica; nel suo significato equivale al fondamentale concetto hegeliano della “coscienza infelice”; la “coscienza infelice” consiste nella consapevolezza del proprio limite, e quindi nel riconoscimento del proprio peccato; la coscienza infelice è l’autocoscienza che non evita il proprio abisso, e ne fa la via della propria redenzione; non sorprende che il grande hegel alludesse, con tale immagine, proprio a gesù di nazareth: la via, la verità, la vita, attraverso il calvario, la menzogna, e la morte;

scrollarsi di dosso il carico di coscienza, ovvero l’inquieta autocoscienza del proprio peccato, è comunque facile da farsi: è sufficiente rimuovere la propria colpa, e addossarne il prezzo su di altri; in filosofia si chiama “la cattiva coscienza”; essa comporta che “l’errore resti sempre dinanzi”, ma si rifiuta riconoscerlo come proprio; nella teoria freudiana si chiama “rimozione”; come è noto sigmund freud era un ebreo austriaco, e non è affatto un caso che il groviglio concettuale della autocoscienza infelice, della rimozione della colpa e della cattiva coscienza sia impregnato di ebraismo: si tratta di un contributo fondamentale alla filosofia, all’umanesimo e all’universalismo, per come questo è possibile nella condizione umana;

la prima volta che sentii l’espressione “cattiva coscienza” avevo quattordici anni; era il 1967, a giugno, e si stava combattendo in palestina la cosiddetta “guerra dei sei giorni”; il telegiornale era condotto da un valente gioŕnalista ebreo, arrigo levi; naturalmente la sua esposizione era molto filoisraeliana, ma il commento era affidato, sera per sera, a un intellettuale cattolico straordinariamente chiaro; si chiamava ettore masina e a me restò impressa, da allora, questa sua conclusione, resa la sera che il telegiornale comunicava la totale vittoria israeliana: “la palestina, oggi, è il luogo della cattiva coscienza del mondo”;

sono passati quasi sessant’anni da allora; ne sono passati quasi ottanta dalla proclamazione dello stato di israele; ne sono passati più di cento da quando la gran bretagna si dispose a favorire il processo di insediamento ebraico in palestina e quindi di progressiva eliminazione della presenza palestinese stessa; cento anni di “cattiva coscienza”;

nel frattempo l’europa ha visto l’olocausto; la germania, con complicità diffuse e con la fattiva collaborazione italiana, ne è stata la massima artefice: ebbene, cosa ne ha pagato la germania? e cosa ne ha pagato la varia rete che vi ha collaborato? e cosa ne ha pagato l’europa? niente: niente di niente, salvo monumentalizzare quanto resta dei lager; la “rimozione” della responsabilità, il lavorio verminoso della cattiva coscienza, è invece ricaduta sulla palestina;

l’esito antropologico di questa ignominia è stato ancora più perverso: ha liberato la società israeliana dall’inquetudine della “coscienza infelice”; si ripete di nuovo, nel segno di una teologia blasfema, l’orrida giustificazione del delitto di cui fu vittima gesù stesso: “se vi è colpa, ricada su di noi e sui nostri figli”;

quale padre può mai permettersi un giuramento simile? e i figli?

ora è ben chiaro che per il popolo palestinese è giunta l’ora della “soluzione finale”; niente fermerà la macchina dello sterminio; resta una sola via di salvezza: che i figli, i figli della società israeliana, ripudino i propri padri; la società israeliana, per risalire la china della propria degenerazione, necessita di una rivolta giovanile intensa quanto può esserlo, in senso antropologico, l’abisso del parricidio;

è al governo oggi, in israele, un partito che si fregia della denominazione “potere ebraico”; il programma politico di tale partito, che si avvale di una radicale teologia blasfema, si sta realizzando ora dopo ora nel genocidio di gaza;

“genocidio di gaza, genocidio, “: ciò avviene sotto gli occhi del mondo, e avviene nel segno del più nazionalistico e del più irrazionalistico e del più disumano dei programmi politici; cosa resta oggi della irrinunciabile lezione umanistica di sigmund freud, di albert einstein, di annah arendt, di theodor adorno, di erich fromm, di herbert marcuse? cosa resta oggi della necessità dell’universalismo, unica via di scampo per una umanità che resti degna di via, di verità e di vita?

restano i figli: che quanto prima possano sentirsi fratelli dei bambini e dei giovani di gaza.

da qui

La critica va fatta a tempo, scrive il saggio cinese



bisogna disfarsi del brutto vizio di criticare dopo, continua Mao Tse Tung (sembra che parli di chi, solo adesso, dopo il genocidio a Gaza, dice che Israele ha un pochino esagerato)

di Francesco Masala

C’era una volta un popolo eletto, non si sa bene da chi. Chi legge Mauro Biglino (1) sa che nella Bibbia non si parla mai di dio, ma di un altro soggetto (Elohim), amante del Potere, dei Sacrifici animali (e umani), e del Genocidio.

 

Anche i paesi occidentali si sono eletti da loro stessi (si credono superiori, ed è conseguente che gli altri popoli sono inferiori, “esportavano” la civiltà, adesso esportano la democrazia) hanno ucciso, a partire dalla “scoperta” dell’America, decine o addirittura centinaia di milioni di esseri umani in tutto il mondo, portando la (loro) civiltà, fatta di genocidi, stragi, guerre, razzismo, sfruttamento, fra l’altro. I popoli dell’America, dell’Asia, dell’Africa sono stati invasi, sterminati, colonizzati, violentati, rapinati (2).

 

dio ci salvi dai popoli eletti!

 

Il governo italiano (e molti governi europei) ha creato il reato di antifascismo (3) e quello di palestinismo (4), senza mai fare ammenda delle immani tragedie causate dal fascismo a cui s’ispirano (5 e 6).

 

Forse non tutti sanno che i bersaglieri del Regno di Sardegna nel 1855 combatterono in Crimea (7) e che l’Italia, dal 1902 al 1943 ebbe in concessione un pezzo di Cina (7).

 

Il premier Merz, senza smentita di Meloni, (quella che piange perchè la Samud Flotilla è un complotto contro di lei), dice che Israele fa il lavoro sporco per noi (8). La strana coppia Merz-Meloni vorrà fare la guerra alla Russia, ancora più che adesso. Forse non sanno, magari a scuola in storia sono arrivati al 1938, che i loro predecessori, chiamati Führer e Duce, dopo la guerra intrapresa (e persa) contro l’Urss, hanno fatto una gran brutta fine. Della loro personale fine non ci interessa molto, il dramma è che trascinano i popoli nella miseria.

 

Alla fine, sotto la spinta dei propri popoli, molti stati europei hanno riconosciuto (o stanno per farlo) lo stato palestinese, naturalmente dovranno essere i paesi imperialisti e colonialisti e genocidi a decidere chi governerà la Palestina, e sottointeso, ma non troppo, Hamas deve sparire. Se qualcuno si è distratto in questi anni può capire come mai Hamas no e Isis sì, basta vedere come il capo dell’Isis in Siria, Al Golani, sia osannato dall’Occidente all’ONU, e non solo. È che l’Isis (Daesh) è sempre stato agli ordini dell’Occidente, una creatura degli Usa. Anche Hamas era al soldo di Israele, ma forse (9) qualcosa è andato storto (oppure no, dipende dai punti di vista).

 

A proposito di ONU, il coraggio dell’ONU sarebbe quello di dire (sarebbe bello se lo facesse un paese dei Brics), a prescindere dai paesi occidentali, che i confini di Israele sono quelli definiti dall’ONU nel 1948, , tutto il resto va restituito alla Palestina, che fonderà il proprio stato. Tutti i territori occupati da Israele vanno liberati, subito, sul modello della Libia che ha espulso gli italiani e dell’Algeria che ha espulso i francesi.

 

https://www.maurobiglino.com/perche-la-bibbia-non-parla-di-dio/

https://www.youtube.com/watch?v=nBohmulHYMA

https://markx7.blogspot.com/2022/07/exterminate-all-brutes-raoul-peck.html

https://www.lettera43.it/scala-loggionista-viva-italia-antifascista-identificato-digos-marco-vizzardelli/

https://www.pressenza.com/it/2025/09/arrestate-attiviste-di-ultima-generazione-in-sciopero-della-fame-per-gaza/

https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/09/16/foglio-di-via-agli-attivisti-puniti-per-aver-protestato-contro-i-militari-israeliani-in-sardegna-la-denuncia-di-avs/8128678/

https://www.labottegadelbarbieri.org/le-atrocita-di-mussolini-i-crimini-di-guerra-rimossi-dellitalia-fascista-michael-palumbo/

https://www.labottegadelbarbieri.org/debre-libanos-lo-sgozzatore-degli-etiopi-e/

https://www.labottegadelbarbieri.org/il-monumento-al-boia-graziani-e-ancora-li/

https://www.historiaregni.it/cavour-spiega-lintervento-in-crimea/

https://societageografica.net/wp/2020/09/16/storie-coloniali-la-concessione-italiana-di-tientsin/

https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/06/18/merz-iran-israele-lavoro-sporco-aggressore-aggredito/8031107/

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-7_ottobre_2023_un_soldato_israeliano_rivela_uno_strano_ordine_per_annullare_le_pattuglie_di_confine_di_gaza/45289_62263/