Chi avrebbe mai detto che sarebbe finita così? Me lo chiedo mentre osservo
centinaia di presunti jihadisti catturati e seduti in fila nel deserto. Tutto
era cominciato otto anni prima, con una protesta contro il regime siriano.
All’epoca nessuno parlava di jihadisti. Ora invece c’è un intero paese
distrutto. Più di 370mila morti. Tredici milioni di profughi, oltre metà della
popolazione. Il tutto racchiuso nell’ascesa e nella caduta di Daesh, il gruppo
Stato islamico (Is) generato dal vortice di violenza che ha inghiottito quella
prima rivolta pacifica.
L’Is si è allargato a macchia d’olio in tutta la regione conquistando ampie
aree della Siria e del vicino Iraq e annunciando la nascita di un “califfato”
che ha immediatamente cominciato a reclutare uomini ai quattro angoli del
mondo. All’apice della sua forza, l’organizzazione controllava un territorio
grande quanto il Regno Unito e governava su milioni di persone.
Ora gli ultimi jihadisti sono davanti a me, seduti in fila nel deserto,
accanto a un accampamento che ospita migliaia di donne – le loro mogli vestite
di nero – e bambini, oltre ai civili rimasti intrappolati nella cittadina di
Baghouz, ultimo bastione degli estremisti.
Mentre osservo “la fine”, molti pensieri si accavallano nella mia mente.
Quando ho cominciato a frequentare la Siria per occuparmi della rivolta, questa
aveva appena un anno di vita. Posso dire di aver vissuto questa storia quasi
dall’inizio.
Ho cominciato a seguire le proteste nel febbraio del 2012, a Idlib. Era la
mia prima esperienza in uno scenario di guerra. Le manifestazioni pacifiche,
partite a Damasco un anno prima, erano state soffocate nel sangue dalle forze
di sicurezza, una repressione che avrebbe portato alla nascita dell’Esercito
siriano libero e della sua battaglia contro il regime. In tutto il paese i
ribelli organizzavano attacchi di guerriglia. Spesso gli agenti al servizio del
regime disertavano per unirsi a loro.
Quando sono arrivato a Idlib, alcune aree della provincia e buona parte
della città erano controllate dall’opposizione. I cecchini del governo
sparavano in continuazione, ma ancora non c’erano state operazioni militari su
vasta scala. Un giorno ho assistito a una manifestazione, nata come nascono
quasi tutte: la gente si è riunita nel centro cittadino, sventolando grandi
bandiere dell’Egitto e della Libia, paesi che avevano vissuto importanti
rivoluzioni durante la primavera araba. La folla cantava e scandiva slogan.
Poi, all’improvviso, “snap, snap, snap”, il rumore dei colpi dei cecchini. Le
persone nel panico. Poi i bombardamenti. Le persone in fuga.
Era la prima volta che vivevo un’esperienza simile, una manifestazione
pacifica che subiva un attacco violentissimo. Ero terrorizzato. La gente
scappava ovunque. Anche io correvo, senza sapere dove andare. Ho seguito gli
altri. Piovevano bombe dal cielo e ho trovato riparo insieme ad alcuni civili.
Davanti a me ho visto un ragazzo stramazzare al suolo. Qualcuno mi ha detto che
aveva quindici anni e mi sono chiesto come fosse possibile, come potessero
attaccare i loro compatrioti. Il bombardamento intenso sollevava una fitta
coltre di fumo. Sembrava che sulla città fosse calata una coperta nera.
Nei mesi successivi sono entrato e uscito spesso dalla Siria. Non mi sono
mai sentito minacciato dai combattenti ribelli. Erano molto gentili con i
giornalisti. Quelli che ho incontrato erano quasi tutti laici. “Combattiamo per
la libertà”, dicevano. Poi nei ranghi dell’opposizione hanno cominciato a
spuntare i jihadisti, ma all’inizio erano tranquilli. Nell’agosto del 2012 mi
sono trovato in uno dei campi jihadisti e non ho avuto problemi. Ci hanno
permesso di scattare foto e non avevano un atteggiamento minaccioso.
Ma le cose sono cambiate presto. Ho cominciato a vedere stranieri nei
villaggi. Alcuni parlavano inglese, altri francese. Avevo la netta sensazione
che la situazione stesse cambiando. Una mattina ho visto un gruppo che marciava
imbracciando i fucili. È un’immagine che mi si è scolpita in mente. Si stanno
preparando, ho pensato.
Poco dopo mi hanno comunicato che non avrei più potuto entrare in Siria
perché stava diventando troppo pericoloso per un giornalista. È successo poco
prima che cominciassero a rapire i reporter. Uno di loro era James Foley, un
amico che avevo conosciuto pochi mesi prima al confine. Non potevo credere che
l’avessero sequestrato. Era novembre. In seguito ho scoperto che era stato
prelevato da una banda locale e poi finito nelle mani di Daesh
(l’organizzazione è conosciuta con diversi nomi, tra cui Isil, Isis, gruppo
Stato islamico e Is, ma a me è rimasto impresso l’acronimo arabo, Daesh).
Poche settimane dopo, un mio amico turco, Bünyamin Aygün, mi ha detto che
sarebbe andato in Siria per un ultimo articolo. “Sei pazzo,” gli ho risposto.
“È troppo pericoloso, rapiscono la gente”. L’ho implorato di non andare, ma mi
ha promesso che sarebbe stato attento. “Un ultimo articolo, poi basta”, mi ha
detto. È stato rapito quasi subito. All’inizio di gennaio i servizi segreti
turchi lo hanno riportato a casa, dopo quaranta giorni di prigionia. In quel
momento si pensava che i giornalisti rapiti in Siria fossero una trentina. Nei
mesi successivi alcuni sono stati rilasciati. Poi è arrivato il 19 agosto 2014.
Ricordo che mi sono svegliato nel cuore della notte e ho controllato
qualcosa online, non ricordo cosa. Poi ho letto una notizia che mi ha
paralizzato dalla paura: Daesh aveva pubblicato un video con la decapitazione
di James Foley. Immediatamente ho pensato che avrei potuto esserci io, al suo
posto. Tempo dopo ho scoperto che quel pensiero aveva attraversato la mente di
tutti i giornalisti che erano stati in Siria. Non ho mai avuto il coraggio di
guardare quel video. Voglio ricordare James per com’era in vita.
In quel momento ho pensato che sarebbero passati anni prima di poter
tornare in Siria. Ho ricordato tutte le persone che avevo incontrato nel 2012.
Dicevano che alcune aree del paese controllate dall’opposizione si stavano
rapidamente riempiendo di estremisti, trasformandosi in un mondo simile a
quello di Mad Max. Erano sicuri che presto i jihadisti avrebbero preso il
controllo della situazione. Non gli avevo creduto.
Avevano ragione. Mi sono ricordato un uomo che avevo conosciuto ad Aleppo
nell’agosto del 2012. I bombardamenti delle forze governative proseguivano
senza sosta e noi dormivamo nello scantinato di una moschea insieme ad alcuni
combattenti e soccorritori. C’era anche un jihadista, particolarmente sgradevole.
Si sedeva vicino al condizionatore e leggeva il Corano. Aveva dormito accanto a
me per due notti, spingendomi continuamente e pretendendo di avere la mia
coperta. Era un iracheno arrivato dall’Olanda. Gli avevo scattato una foto. Poi
l’avevo rivisto spesso nelle immagini più cruente che riguardavano Daesh: nella
più famosa, appare davanti ad alcune teste mozzate e impalate.
Si chiamava Khaled Khudarhim ed era diventato il principale boia del
gruppo. A un certo punto ha chiamato un mio amico per lamentarsi della foto che
gli avevo scattato nel 2012, perché aveva permesso alle autorità olandesi di
identificarlo e per questo non poteva più tornare in Olanda. Pare che sia stato
ucciso nel 2016, ma per quanto ne so la notizia non è mai stata confermata.
Da quel momento gran parte del mio lavoro ha riguardato i profughi in fuga
dalla Siria. Il conflitto ha provocato uno dei più colossali spostamenti di
persone dai tempi della seconda guerra mondiale. Secondo l’agenzia Onu per i
rifugiati circa 6,2 milioni di siriani sono attualmente sfollati all’interno
del paese, altri 5,6 milioni sono sparsi nei paesi della regione.
Ho fotografato la crisi dei profughi fin dall’inizio, a fasi alterne. Ho
scattato foto che li ritraggono mentre si passano i bambini attraverso piccoli
squarci nelle recinzioni al confine con la Turchia, durante i combattimenti tra
le forze curde e l’Is nelle città di frontiera.
Li ho immortalati mentre si ammassavano al confine in fuga dall’offensiva
del governo siriano (sostenuto dai russi) contro Aleppo. Li ho ritrovati,
sempre più disperati, nei campi profughi dell’isola greca di Lesbo, dopo
terrificanti viaggi in mare. Ne ho addirittura fotografati alcuni che tornavano
in Siria dopo la liberazione dei loro villaggi di frontiera dal controllo dei
jihadisti.
Negli anni dell’esodo dalla Siria ho catturato con la mia macchina
fotografica le emozioni umane – paura, disperazione, speranza, rassegnazione,
sfinimento, terrore –, ma probabilmente l’immagine che più mi è rimasta
impressa è l’arrivo dei profughi a Lesbo. Molti di loro non avevano mai visto
il mare prima di viaggiare per un’infinità di chilometri a bordo di piccole
imbarcazioni. I loro volti, quando mettevano piede sulla terra ferma,
sembravano quelli di persone rinate. Molti erano anziani, un altro aspetto che
mi ha sconvolto. Immaginate di avere settanta o ottant’anni e di dover fuggire
dalla vostra casa e arrivare in un paese straniero di cui non conoscete la
lingua né nient’altro. Immaginate cosa significhi vivere una situazione simile.
Dopo tutti gli anni passati a occuparmi della guerra in Siria volevo
assolutamente assistere alla “fine”. È arrivata nei mesi di febbraio e marzo di
quest’anno, nel polveroso villaggio di Baghouz, sulle rive dell’Eufrate, nei
pressi del confine iracheno. Le Forze democratiche siriane, guidate dai curdi e
sostenute dagli Stati Uniti, avevano costruito un campo appena fuori da Baghouz
per ospitare le donne e i bambini di Daesh, oltre ai civili. Prima di entrare
nel campo le persone dovevano passare da un centro di identificazione, a 10-15
chilometri di distanza.
Per giorni noi dell’Agence France-Press (Afp) abbiamo chiesto alle Forze
democratiche siriane di entrare nel campo per documentare cosa stava accadendo.
Alla fine hanno accettato. È stata un’esperienza surreale.
Mentre osservavo le file di prigionieri seduti davanti a me, ho pensato a
tutto quello che Daesh, a cui erano accusati di appartenere, aveva fatto nel
corso degli anni. Questi combattenti erano tra gli assassini più efferati del
mondo. Avevano ucciso un numero impressionante di persone. Giornalisti, civili.
Avevano stuprato e torturato. Avevano mozzato teste. Avevano compiuto azioni
orrende. Le immagini degli attentati ad Ankara e Istanbul continuavano a
tornarmi alla mente.
Ora erano inginocchiati davanti a me, a centinaia. Mi sono chiesto quanti
di loro mi avrebbero ucciso se mi avessero incontrato in un’altra situazione.
Quanti mi avrebbero torturato. La risposta era negli sguardi che mi
rivolgevano: molti.
Ma era pur vero che si erano arresi, dunque avevano gli stessi diritti di
tutti gli altri esseri umani. Alcuni giornalisti li stavano intervistando. I
prigionieri non volevano parlare, ma i giornalisti continuavano a insistere. Ho
pensato che fosse sbagliato. Se un uomo non vuole parlare non puoi
costringerlo. È comunque un uomo. Ho rivolto le mie domande a molti
prigionieri, ma non volevano rispondere. Così li ho lasciati in pace.
Osservando alcuni di loro si percepiva il collasso del califfato. Altri,
invece, trasmettevano sensazioni completamente diverse. Migliaia di donne
vestite di nero. Un esercito nero.
Molte condividevano pienamente le azioni dei jihadisti. Erano orgogliose
del califfato. Capitava che una di loro accettasse di parlare con me e un’altra
le chiedesse immediatamente perché stava parlando con il nemico.
Lo stesso valeva per i combattenti. Erano fieri delle loro azioni. Non ero
sicuro che credessero di aver perso. Magari si stavano preparando per
qualcos’altro. C’era un tizio biondo che non voleva parlare ma continuava a
sorridere. Gli ho chiesto perché sorridesse. Non ha voluto rispondere. Ha
continuato a sorridere. Forse sorrideva perché era ancora vivo, non so.
Ho visto anche un gruppo di bambini. Erano in dodici, tra gli otto e i
quattordici anni. Mi si è spezzato il cuore. Cosa avevano fatto a quei bambini?
Li avevano costretti a combattere, a uccidere? Una volta tornati a casa che
realtà troveranno? Doveva essere un’esperienza terribile.
Le immagini dei combattenti di Daesh seduti nel deserto non mi hanno
abbandonato nemmeno dopo il mio ritorno in Turchia. Ho controllato gli archivi
e sono rimasto sbalordito dalla somiglianza tra le foto che avevo scattato e
quelle dei soldati tedeschi che si sono arresi alla fine della seconda guerra
mondiale. Erano le stesse foto.
L’estremismo è come una catastrofe naturale. Quando comincia non si può
fermare. In Siria ho assistito alla sua nascita e alla sua evoluzione.
L’estremismo può accadere ovunque. I combattenti stranieri erano
particolarmente interessanti, per me. Ho visto un francese, un azero, un russo,
ho incontrato persone provenienti dai paesi più diversi. E devo ammettere che
ancora non capisco perché lo abbiano fatto. Non riesco a capire questo tipo di
mentalità. Come fa un francese istruito a unirsi ai jihadisti? È così strano,
non so cosa pensare.
A dirla tutta non sono nemmeno sicuro che questa sia davvero la fine. Da
quello che ho visto, il sistema è ancora vivo. I jihadisti sono ancora
organizzati e aspetteranno un’occasione per tornare. Queste persone hanno compiuto
azioni terribili in tutto il mondo. Non soltanto in Siria, ma anche a Kobane,
ad Ankara, a Istanbul, a Parigi. Lo pensavo mentre li osservavo: hanno fatto
cose agghiaccianti, in Medio Oriente ma anche in Europa.
Di sicuro cercheranno di trovare un modo per risorgere. Se la gente li
sosterrà è probabile che ci riescano. C’è una cosa che ho imparato dal
conflitto siriano: non ci si può fare un parere su due piedi. Le cose cambiano.
Le idee cambiano. Non possiamo mai essere certi che le cose andranno per il
verso giusto. Otto anni fa nessuno avrebbe immaginato questo epilogo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato sul blog Correspondent dell’Agence France-Presse.
Nel blog giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.
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