Dieci
miliardi di dollari in dieci anni. È quanto sostiene il quotidiano Al-Akhbar. La
testata libanese cita un rapporto di Khaled al-Shawabkeh, inviato della
Giordania presso l’Autorità Palestinese, per sostenere che Mohammed bin-Salman,
principe ereditario ma in realtà vero uomo forte dell’Arabia Saudita, avrebbe
offerto tale somma a Mahmoud Abbas (Abu Mazen). In cambio, il presidente
palestinese dovrebbe accettare «l’accordo del secolo». Così, con la solita
sobrietà, Donald Trump definisce il Piano di pace tra Israele
e palestinesi a cui la sua amministrazione, e in particolare il genero e
consigliere Jared Kushner, lavora da molto tempo. Il Piano dovrebbe essere
svelato a giugno, non appena il premier israeliano Benjamin Netanyahu sarà
riuscito a varare il nuovo governo. Nel frattempo ai sauditi il compito di
ungere con i loro miliardi le ruote giuste.
È una storiaccia, nemmeno nuova, come tante
altre del Medio Oriente. Ha però il pregio di rivelare, se ce ne fosse bisogno,
quanto sia disperata la situazione dei palestinesi. Da un lato la
carota saudita. I miliardi, tanti. E la promessa, sempre secondo i
documenti non più segreti, di corposi investimenti in Palestina da parte delle
petromonarchie del Golfo Persico alleate degli Usa. Dall’altra un
bastone grosso e pesante. Intanto, la Casa Bianca ha già preso
decisioni che, Piano o no, non potrà rimangiarsi. Gerusalemme Est, che per
l’Onu e la comunità internazionale è territorio occupato, è stata dichiarata
parte integrante dello Stato ebraico e della sua capitale. Infatti,
l’ambasciata americana è stata subito trasferita da Tel Aviv a Gerusalemme
stessa, il 14 maggio 2018.
A parte la
questione specifica di Gerusalemme Est, la mossa americana ha di fatto
sdoganato la pluridecennale politica israeliana di occupazione dei territori
contesi, o palestinesi di diritto, attraverso gli insediamenti. Non a caso,
e in un certo senso in modo coerente, Trump ha poi affermato (e ufficialmente
riconosciuto – ndr) che il Golan siriano, altro territorio occupato da Israele
nel 1967, dovrebbe diventare Israele tout court.
Poi c’è il
Piano stesso. L’amministrazione Usa ha badato a non far trapelare nulla. Ma qualcosa
comunque si sa o s’intuisce. Nessun diritto al ritorno per i profughi
palestinesi. Completa smilitarizzazione delle aree occupate dai palestinesi,
con Israele a mantenere il controllo (militare, ovviamente) dei confini
terrestri e dello spazio aereo. Nessuno sforzo per restituire continuità ai
lembi di territorio dove vivono i palestinesi, che si troverebbero in una serie
di «riserve» separate tra loro. In totale, il territorio palestinese
ammonterebbe all’11 per cento di quanto gli inglesi, all’epoca del loro mandato
(1920-1948), riconoscevano come Palestina.
A tutto
questo dobbiamo aggiungere Gerusalemme Est. E le voci, insistenti, di un
presunto accordo tra gli Usa e l’Egitto. Il presidente Abdel Fattah al-Sisi, in
sostanza, aprirebbe il confine con Gaza per “invitare” i palestinesi
della Striscia a sciamare verso il Sinai dove, in prospettiva,
dovrebbero poi insediarsi. Il generale-presidente, in cambio, otterrebbe
cospicui aiuti dai soliti petrolieri del Golfo e dagli Usa.
È evidente
che nessun leader palestinese potrà dire “sì” a un Piano simile, nemmeno se i miliardi offerti dai
sauditi fossero cento o mille. Il rifiuto, però, non è un’alternativa migliore.
Trump e gli Usa potranno dire che i palestinesi sono incontentabili e
lasceranno la Palestina al suo destino. Il che vorrà dire lasciarla ai piani
di Netanyahu, che negli ultimi anni ha avuto mano libera come nessun altro
premier israeliano per aumentare gli insediamenti e diminuire gli spazi di
autonomia e libertà dei palestinesi, compresi quelli che sono cittadini di
Israele.
L’aria che
tira, comunque, è ben rappresentata dal fatto che l’amministrazione Usa
continua a rinviare la presentazione ufficiale del suo Piano. Non è un caso. In
questo modo, si offre a Netanyahu la possibilità di posizionarsi al meglio, sia
dal punto di vista politico (ha appena ottenuto un altro mandato a governare)
sia dal punto di vista militare, in vista del giorno in cui “l’accordo del
secolo”, che sarà comunque favorevole a Israele, sarà davvero reso pubblico.
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