martedì 14 maggio 2019

L’Europa non è un condominio - Francesco Gesualdi



I sentimenti anti europeisti hanno cominciato a manifestarsi con l’emergere della crisi. Ad un tratto abbiamo scoperto la faccia triste di un’Europa priva di politica sociale ed abbiamo sperimentato la faccia crudele di un euro totalmente gestito all’insegna del mercato e della concorrenza. Eletto il mercato a giudice supremo del valore dell’euro e a padrone assoluto del credito, è scomparsa l’attenzione per i cittadini ed è subentrata la preoccupazione per gli umori del mercato. In particolare rispetto ai conti pubblici considerato che gli investitori prestano volentieri solo a chi si dimostra debitore affidabile. Così l’Europa si è trasformata in un gendarme sempre pronto ad imporre il contenimento della spesa pubblica pur di rassicurare banche e investitori che i soldi per loro si troveranno sempre. Inevitabilmente la mannaia si è abbattuta su pensioni, indennità di disoccupazione, servizi pubblici, alimentando una grande rabbia popolare perché la disoccupazione si fa ancora più insopportabile se mancano sussidi, servizi gratuiti e altri paracaduti sociali.
Del malcontento ne hanno subito approfittato i nostalgici del nazionalismo che facendone una questione di bandiera propongono come soluzione il ritorno ai capitalismi nazionali. Ma se abbiamo visto quanta disuguaglianza, compressione dei diritti, devastazione ambientale, sia stato capace di produrre il capitalismo globalizzato, non possiamo neanche dimenticare quante guerre siano state scatenate dai capitalismi nazionali. Per cui il vero passo avanti non è rimanere impantanati nel contenzioso capitalismi nazionali o capitalismo globalizzato, ma andare oltre, verso sistemi sempre più aperti non più organizzati per i mercati, ma per le persone.
Parlando d’Europa, la vera sfida è uscire dal progetto perseguito fin qui di mercato comune e intraprenderne uno nuovo, di democrazia e uguaglianza per i diritti di tutti. Non a parole, ma a fatti, tramite l’adozione di istituzioni, regole e meccanismi adeguati allo scopo. Ed è proprio da qui che dovremmo partire per dare un nuovo volto all’Europa. La democrazia prima di tutto. L’Europa non nasce a sovranità popolare ma a sovranità contrattuale. E’ il risultato di accordi fra stati che hanno posto i trattati a fondamento della nuova entità. Ed alla fine si sono dati un’organizzazione simile a quella di un condominio: gli accordi a base dell’amministrazione comune, l’assemblea dei condomini per la soluzione di ogni nuovo problema, la nomina di un amministratore per la gestione corrente e l’elaborazione di proposte per l’attuazione degli accordi. Mutatis mutandi gli accordi sono i trattati, l’assemblea dei condomini è il Consiglio dei primi ministri, l’amministratore è la Commissione Europea.
Quanto al Parlamento Europeo, istituito più tardi, non ha ancora un’identità ben precisa. Di prassi esprime pareri e solo su alcune materie co-decide assieme al Consiglio. Ma non ha iniziativa legislativa, nel senso che non può proporre il varo di nuovi provvedimenti a carattere vincolante. Può solo chiedere alla Commissione di avanzare proposte. Non il massimo per un organo votato direttamente dal popolo. Per cui il primo passo verso più democrazia potrebbe essere proprio quello di attribuire anche al Parlamento Europeo diritto di iniziativa legislativa con ampliamento delle materie su cui co-decide assieme al Consiglio dei primi ministri.

Se rispetto ai processi democratici l’Europa è sulla difensiva, va invece fiera dei progressi conseguiti sul piano delle libertà, soprattutto per la libera circolazione accordata a persone, capitali, attività produttive. Ma non tutto ciò che brilla è sempre oro. Ogni libertà può avere il suo effetto paradosso se non si accompagna a regole e contrappesi utili ad evitare effetti indesiderati. Tipico il caso delle attività produttive. L’apertura dei confini in un mondo dai diritti e dai salariali profondamente disuguali ha provocato gravi sconvolgimenti sociali: perdita di posti di lavoro nei paesi a tradizione industriale, boom occupazionale di tipo ottocentesco nei paesi emergenti, arretramento generalizzato di salari, diritti e stabilità occupazionale.
In un contesto in cui il lavoro è considerato solo un costo da comprimere, le imprese lasciate in libertà inevitabilmente trasferiscono la produzione dove i salari sono più bassi e i diritti meno tutelati. E’ la legge del profitto, che in Europa non fa eccezione, considerato che i livelli salariali variano da una media lorda di 42,7 euro l’ora in Danimarca a 4,9 in Bulgaria. E poiché per le imprese conta anche la preparazione tecnica, i paesi che hanno beneficiato di più del basso livello salariale sono stati quelli di Visegrad con un buona preparazione scolastica: Polonia, Slovacchia, Repubblica Cieca, Ungheria, con salari medi lordi fra i 11 e i 9 euro l’ora. In Italia, tanto per avere un termine di paragone, il salario medio si attesta su 28 euro l’ora. E gli effetti si vedono: se nel 2000 gli investimenti produttivi esteri in Italia registravano un saldo positivo per 6,7 miliardi di euro, nel 2014 troviamo un saldo negativo di 12 miliardi.
Di tendenza opposta i paesi di Visegrad che nell’ultimo ventennio hanno registrato un costante segno positivo. In particolare Ungheria e Polonia i due principali contendenti che cercano di attrarre le imprese estere con ogni sorta di incentivo. L’Ungheria ha addirittura chiuso il 2018 con una legge prontamente battezzata dagli ungheresi “legge schiavitù” che innalza lo straordinario a 400 ore l’anno e permette alle imprese di dilazionare il pagamento fino a tre anni. Ma sapendo che le aziende sono molto sensibili anche alle imposte, nel 2017 l’Ungheria ha abbassato l’imposta sugli utili di impresa al 9%, la più bassa dell’Unione Europea. E non è un caso se anche in Italia l’imposta sulle società, è passata dal 35% nel 2000 al 24% nel 2017. Segno evidente di come la libera circolazione di capitali e delle attività produttive abbia innescato una corsa verso il basso non solo dei salari, ma anche della fiscalità, con ricadute negative sulla dignità dei lavoratori e la sovranità degli stati. L’unico modo per fermare questo pericoloso gioco al massacro è più uniformità salariale e fiscale a livello europeo. In altre parole bisognerebbe che tutti i paesi europei fossero vincolati a criteri comuni per la determinazione dei minimi salariali e a non scendere mai al di sotto di aliquote fiscali concordate. Obiettivi possibili solo se rivediamo i trattati per inserirci anche la questione salariale (sfida numero due) e fiscale (sfida numero tre) che oggi ne sono escluse.

E per finire la quarta sfida, quella relativa al governo dell’euro così determinante per la gestione dei debiti pubblici. Se l’Europa è rimasta abbarbicata in maniera così ostinata all’austerità è perché ha privato gli stati di qualsiasi altra possibilità di credito che non sia il mercato. Senza nessun’altro soggetto a cui rivolgersi per finanziare i propri deficit, ai governi non è rimasta altra scelta se non quella di piegarsi ai diktat dei creditori. Ma l’alternativa esiste ed è presente in tutti i principali paesi del mondo. Si chiama Banca Centrale con capacità di credito praticamente illimitata dal momento che è il massimo organo di emissione monetaria. Ed è stata proprio la paura che se ne potesse abusare a indurre l’Europa a creare un muro fra governi e Banca Centrale Europea. Ma ora quel muro va abbattuto perché è come una porta sbarrata in caso di incendio. Fuor di metafora, va modificato il Trattato di Maastricht per permettere ai governi di accedere direttamente ai finanziamenti della Banca Centrale Europea. Non sarebbe una misura economica, ma sociale: un’assicurazione sulla vita dei cittadini europei per metterli al riparo dalle intemperie economiche. Un dovere per un’istituzione che nel proprio atto costitutivo sostiene di volere combattere l’esclusione sociale e promuovere giustizia e protezione sociale.

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