La questione storica e storiografica in
Sardegna è una materia particolarmente sensibile.
Dopo una fiammata il mese scorso (su cui
avevo provato a dire qualcosa qui), è di questi giorni
la discussione sull’inserimento della storia sarda nei programmi scolastici
della scuola pubblica italiana.
Tutto è partito da una petizione degli
organizzatori della mostra interattiva “Nuragica”.
L’intento è di sensibilizzare e
possibilmente convincere il Ministero competente a inserire la storia della
civiltà protostorica sarda nei programmi scolastici italiani.
A questo appello sono seguite diverse
adesioni, ma senza un dibattito adeguato.
Dibattito che è stato lanciato invece da
un articolo dell’Unione del 7 maggio u.s. (che non riproduco per questioni di
copyright), in cui si chiamavano a commentare la faccenda esponenti del mondo
culturale e politico.
Fin qui tutto bene. Anzi, si potrebbe dire “era ora!”.
Senonché, vuoi per la sintesi inevitabile
dell’articolo, vuoi per i facili fraintendimenti che nascono dall’affrontare
una questione simile partendo da punti di vista diversi, la cosa è rapidamente
degenerata in una vacua polemica social.
Da un lato chi difende il diritto dei sardi a
conoscere la propria storia anche e soprattutto tramite la scuola, dall’altro
chi fa notare che pretendere questo risultato dalla scuola italiana e
addirittura dal Ministero competente sia sbagliato e/o incongruo.
Partirei dalla prima questione: inserire la
protostoria sarda nei programmi scolastici italiani.
Qui c’è già un grosso nodo che andrebbe sciolto prima
di proseguire nell’analisi.
Dico la mia sul punto: questa pretesa e la relativa
petizione non hanno alcun senso.
Ci sono due ordini di problemi, sulla faccenda.
Il primo è che i programmi della scuola italiana sono
programmi della scuola… italiana. Ossia, come ha sottolineato lo storico
Giampaolo Salice nelle sue risposte sull’Unione, sono programmi didattici volti
a formare il “cittadino italiano”, tramite (anche) la conoscenza della storia
“italiana”.
Possiamo discutere se esista una storia propriamente
“italiana” prima che esistesse l’Italia e chi e cosa dovrebbe farne parte.
In ogni caso, per quanto mi riguarda, fino almeno a
metà Ottocento, la Sardegna non dovrebbe esservi contemplata se non
occasionalmente. Come del resto avviene già.
Del resto è del tutto ovvio e persino legittimo che
uno stato formi i propri cittadini sulla base di una ricostruzione storica
orientata.
È un fatto eminentemente politico. Sempre. Che
riguardi l’Italia, la Francia, il Regno Unito, la Spagna o o chiunque altro.
Caso mai ci sarebbe da rispondere a Giampaolo Salice,
quando si chiede se la battaglia sulla civiltà nuragica nella storia italiana
sia più politica che culturale, che sì, è ovviamente una battaglia politica.
Ed è normale che lo sia.
Andrebbe discusso se questa pretesa abbia senso o no.
E qui entra in ballo il secondo ordine di problemi.
Pretendere che la protostoria e la storia sarda antica
entrino di diritto e come elementi di peso nel novero delle civiltà che
costituiscono la “storia italiana” non è un affare da poco e non è per nulla
scontato.
Si tratta di pretendere che tramite lontane glorie
passate la Sardegna sia legittimamente accolta tra le componenti costitutive
del senso comune e dell’immaginario collettivo italiano.
A quale scopo? A scopo di maggiore integrazione.
Il vecchio pallino di una parte consistente
dell’establishment affaristico, politico e intellettuale sardo dalla Perfetta
Fusione in poi.
Per altro acquisito e fatto proprio dallo stesso
sardismo.
Essere riconosciuti come italiani, sia pure speciali,
fin da tempi lontani è una vecchia fissazione della nostra classe dominante.
Naturalmente, dal punto di vista storico, è una
stupidaggine.
Beninteso, è giusto che la civiltà sarda protostorica
sia conosciuta da tutti gli studenti italiani e possibilmente anche da una
platea più vasta di discenti, dato che si tratta di una delle maggiori espressioni
di civiltà dell’Età del bronzo mediterranea.
Ma questo in qualche misura accade già. Si potrebbe
pretendere che migliori la qualità delle informazioni veicolate (di solito
pessima, nella manualistica in uso in Italia), non molto di più.
Per di più, enfatizzando con tanta ostinazione il
periodo nuragico si fa un enorme torto a tutto il resto della lunghissima
storia dell’isola.
Si fa un torto soprattutto alle vicende che ne hanno
segnato le sorti in epoche molto più vicine a noi e che in buona misura
costituiscono le premesse del nostro presente.
Qui subentra un altro problema.
Il diritto di conoscere la nostra storia è un diritto
fondamentale dei sardi. Ma siamo sicuri che spetti alla scuola pubblica di
stretta dipendenza ministeriale (dunque centralista e inevitabilmente
italo-centrica) il compito di soddisfarlo?
Quanto può entrare, a quale titolo e con quale peso la
storia sarda nell’organizzazione del sapere italiana?
C’è un bel groviglio da sbrogliare. Lanciare petizioni
per inserire la storia nuragica nei programmi scolastici italiani non solo non
aiuta nell’impresa, ma contribuisce ad aggrovigliare ancora di più la matassa.
Una storia sarda “istituzionalizzata” esisterà se e
quando avremo un’organizzazione del sapere tutta nostra, ossia, in particolare,
se e quando il sistema dell’istruzione pubblica in Sardegna sarà autonomo da
quello dello stato centrale (almeno in parte).
O, ovviamente, se e quando la Sardegna avrà un suo
ordinamento statuale indipendente a cui sarà incardinata la sua scuola
pubblica.
Non c’è molto da aggiungere, su questo aspetto.
E non voglio nemmeno tornare sugli aspetti ulteriori
della faccenda, quelli che chiamano in causa la creazione di “miti delle
origini” da cui far discendere rivendicazioni “identitarie” di dubbia natura
politica. Del resto, ho già detto la mia in materia.
La cosa che dovrebbe preoccuparci è molto più pratica
che teorica: come mettere in contatto i discenti sardi e chiunque altro voglia
conoscere la storia dell’isola e delle sue genti con i contenuti che la
riguardano.
E sottolineo che sto parlando di storia, non di
ipotesi tutte da validare e verificare. Tanto meno sto parlando di mitologia.
Per evitare fraintendimenti e manipolazioni, oltre
alle nozioni, la cosa che va insegnata è il metodo storico. Lo dico da tempo e
sono contento di non essere da solo.
Il metodo storico è uno strumento analitico e critico
potentissimo, valido anche per affrontare la mole di informazioni da cui siamo
quotidianamente bombardati.
Verifica e confronto delle fonti, immedesimazione,
sguardo ampio, sospensione del giudizio, dubbio sistematico, consapevolezza
della perfettibilità e persino falsificabilità delle conoscenze raggiunte, ecc.
Più che sul mero nozionismo (male atavico della scuola
italiana), bisognerebbe puntare sul discorso metodologico, dunque.
Dopo di che, dato che la conoscenza storica è comunque
un fattore culturale e civile di peso, è del tutto legittimo che si debbano
cercare strade opportune ed efficaci per consentirla a tutti i sardi, a partire
dalla scuola.
E qui torniamo appunto al lato pratico della
questione.
Lato pratico a cui qualcuno ha già pensato di mettere mano
*facendo qualcosa*, anziché parlarne e basta.
Mi riferisco in particolare al collettivo La Storia Sarda nella Scuola Italiana, che da anni lavora a produrre, in
termini professionali, materiali didattici immediatamente e gratuitamente
utilizzabili.
È un esempio concreto. So che ci sono altre
esperienze, più localizzate o estemporanee, analoghe a questa.
Non bisogna temere la passione diffusa dei sardi per
la propria storia. È sì una faccenda delicata, ma nasce da un’esigenza vera,
non ideologica o necessariamente “identitaria”. È un diritto, prima di tutto.
La risposta a tale richiesta deve venire da diversi
soggetti, ognuno per la propria parte di competenze e di responsabilità.
Direi prima di tutto dall’ambito storico accademico,
che deve essere consapevole del suo delicato ruolo di intermediazione.
Pur facendo parte dell’organizzazione del sapere
italiana e dei ruoli organici ad essa, dall’altra parte deve anche rispondere a
una collettività storica a cui comunque appartiene, in cui agisce, produce
saperi e senso comune.
Naturalmente, non bisogna mai cedere alla tentazione
di riscrivere la storia “a tesi” (tentazione a cui a volte proprio l’ambito
accademico ha ceduto, bisogna dire).
Nell’insieme, è doveroso rilanciare il dibattito
pubblico su questi temi.
Il dibattito va affrontato e va alimentato, non
rifuggito.
Ma vanno anche mantenuti una onestà intellettuale e un
senso di responsabilità se possibile più forti del solito, data la delicatezza
della materia.
Per questa serie di ragioni non ho firmato né firmerò
la petizione per l’inserimento della storia nuragica nella scuola italiana, ma
continuerò a battermi per la diffusione e la divulgazione della storia sarda.
Confido che la discussione prosegua e cresca, sia in
quantità sia in qualità.
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