C’è un angolo del mondo dove quarant’anni fa mezzo milione di persone sono
state deportate in campi di concentramento nelle aree desertiche dell’Iraq
meridionale o concentrati in villaggi controllati dall’esercito iracheno. Un
angolo del mondo che resiste all’indifferenza dell’Europa, alle migliaia di
mine antiuomo che continuano a uccidere e mutilare, alla povertà. Un angolo del
mondo che non ha smesso di lottare, di coltivare autonomia e libertà, perfino
di accogliere profughi siriani. Appunti di viaggio dal Kurdistan iracheno di un
medico del mondo
“Ho posato l’orecchio sopra il cuore
della terra.
Parlava d’amore, del suo amore per la pioggia, la terra.
Ho posato l’orecchio sul liquido cuore dell’acqua.
Il mio amore, l’amor mio è la sorgente, cantava l’acqua.
L’ho posato sul cuore dell’albero.
Della sua folta chioma, – l’amore suo – diceva, l’albero.
Ma quando accostai l’orecchio all’amore stesso, che non ha nome,
era di libertà che parlava, l’amore”
Sherko Bekas, poeta
Parlava d’amore, del suo amore per la pioggia, la terra.
Ho posato l’orecchio sul liquido cuore dell’acqua.
Il mio amore, l’amor mio è la sorgente, cantava l’acqua.
L’ho posato sul cuore dell’albero.
Della sua folta chioma, – l’amore suo – diceva, l’albero.
Ma quando accostai l’orecchio all’amore stesso, che non ha nome,
era di libertà che parlava, l’amore”
Sherko Bekas, poeta
Mosul, Kirkuk, Erbil, Sulaymaniyah, Kurdistan Iracheno, chi si
ricorda ancora della sanguinosa lotta contro Saddam Hussein e contro i
terroristi dell’ISIS? Eppure qui si vive ancora la crisi terribile di una
guerra dimenticata presto dall’Occidente che l’aveva promossa. A
partire dagli anni Settanta oltre 500.000 Kurdi sono stati deportati in campi
di concentramento nelle aree desertiche dell’Iraq meridionale, o concentrati in
villaggi controllati dall’esercito iracheno. La pulizia etnica perseguita
dal regime di Saddam Hussein, con esecuzioni sommarie, deportazioni forzate,
fosse comuni, assunse alla fine degli anni Ottanta un carattere di vero e
proprio genocidio. Con oltre 5000 villaggi rasi al suolo e la scomparsa di
almeno 250 mila persone, per lo più bambini sequestrati a scuola e abitanti dei
villaggi.
Sono tornato a Sulaymaniyah insieme a cari colleghi e amici per dare un
segno concreto di amicizia con il popolo kurdo, organizzando il primo Simposio
internazionale di Dermatologia, Oncologia e Alimentazione. È stato
commovente l’incontro con le massime autorità politiche e scientifiche di
questo straordinario Paese. Ascoltare le relazioni di medici e ricercatori che
lavorano con entusiasmo e grande professionalità in un’area dove ci sono
oltre cinque milioni di sfollati che cercano aiuto. Bambini
colpiti dalle più svariate malattie e forme di cancro, oltre che mutilati
dalle mine. Proprio sabato un bambino è stato ucciso e altri due
sono rimasti feriti nell’esplosione di una bomba sul bordo di una strada a
sud-est di Baghdad.
La violenza nel paese è aumentata ulteriormente con l’emergere dei
terroristi del sedicente stato islamico che hanno proclamato un “califfato
islamico” in Iraq e in Siria nel 2014. L’ondata di violenze ha
provocato in questi anni, oltre cinque milioni di sfollati interni e ha
lasciato circa undici milioni di persone bisognose di assistenza
umanitaria. Oltre 250 mila rifugiati si trovano tra Erbil, Duhok e
Sulaymaniyah, moltissimi alla ricerca di una cura per le loro malattie.
Quelli che provengono da Aleppo si portano addirittura i segni sulla loro pelle
della leishmaniasi, un’infezione che ha il paradosso di chiamarsi
“Bottone di Aleppo”.
Sono diversi i campi che accolgono profughi siriani, come quello di Barika, dove ne sono
ospitati oltre 8 mila e altri campi per sfollati, come quello di Ashti. Ma qui
sono stati accolti popoli in fuga da tutta la regione. Pochi di loro
riescono a raggiungere l’Italia, come è accaduto poche settimane fa a Capraia,
un isolotto delle Tremiti, dove è stato trovato un gruppo di
diciassette migranti originario del Kurdistan, che misteriosamente ha raggiunto
le coste dell’isola al largo del Gargano. Nel gruppo c’erano nove bambini, di
cui due molto malati.
Insieme agli amici dell’Istituto Kurdo Italiano, Soran, Veronica e
Giuliano, a Roberto del Regina Elena di Roma, a Vittorio e a Valmadre, siamo
andati a visitare l’Università Komar e l’Ospedale Hawi: due realtà
clinico-scientifiche di assoluta eccellenza. Personalmente ho anche
visitato diverse persone seriamente malate per un ulteriore consulto. Ho
sentito la loro voglia di vivere e la loro paura di non farcela. Mi guardavano
in silenzio con il volto rigato da lacrime silenziose, con gli occhi in cui si
poteva leggere paura e dignità. Pensavano che io fossi la loro ultima chance.
Porto con me la loro documentazione e la loro speranza. Sono tutti giovanissimi
che tra violenze di ogni genere e fughe in Europa alla ricerca di futuro, sono
invecchiati rapidamente, sotto il peso di un’umanità distratta o
indifferente.
Che senso ha la ricerca scientifica se poi i risultati sono a disposizione
solo per poche persone nel Nord del mondo? Il congresso rappresenta invece
proprio una grande occasione di condividere conoscenze e saperi scientifici per
comprendere meglio il senso del vivere e del morire.
Ancora oggi, il Kurdistan è infestato da milioni di mine antiuomo che mantengono
la loro funzione di uccidere vittime innocenti, anche dopo aver conquistato la
pace. Molte sono state lasciate dai decenni precedenti e fanno di questa area
una tra le prime cinque regioni più contaminate del mondo. Ecco perché qui il
vivere e il morire è cantato da poeti che vogliono tramandare sentimenti di
pace e d’amore alle generazioni future, che abbiano il profumo della
libertà.
* Primario infettivologo dell’ospedale
San Gallicano di Roma e medico noto in tutto il mondo, da più di trent’anni è
impegnato con i migranti e in diversi paesi del Sud del mondo. Autore di
articoli e libri, tra cui Lampedusa, porta d’Europa. Un sogno per non
morire (Magi edizioni).
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