Diventa ogni
giorno più difficile capire le ragioni di questa guerra di razzi e
bombardamenti tra Gaza e Israele. Perché va avanti da settimane, con morti e
feriti su entrambi i lati, anche se è sempre più evidente che nessuno, né i
palestinesi né gli israeliani, né Hamas né Netanyahu, vuole davvero arrivare a
uno scontro aperto. Eppure siamo qui, con centinaia di razzi che partono dalla
Striscia e che hanno una gittata ormai doppia rispetto a quella di pochi anni
fa, e i caccia dello Stato ebraico che spianano palazzi e centrano obiettivi
strategici.
Con
l’inevitabile dramma dei civili uccisi, donne e bambini compresi. Con lo
strascico delle tensioni internazionali. L’impresa di capire si fa ancora più
complessa se si tengono in conto i segnali di «distensione» (termine che da
queste parti, come si vede, va usato con cautela) rilevati negli ultimi tempi.
Hamas ha cercato di tenere a bada i gruppi islamisti più radicali, ancora
convinti che la provocazione verso Israele sia la strada maestra per
rivendicare i diritti dei palestinesi. E i suoi diplomatici non cessano di
trattare con l’Egitto per tenere in vita il fragilissimo cessate il fuoco e,
nello stesso tempo, allentare la morsa in cui il blocco israeliano tiene i due
milioni di abitanti della Striscia.
Anche
Israele aveva fatto le proprie mosse. Il regime dei transiti era stato
alleggerito in vista del Ramadan, cominciato ieri. L’area di pesca dei
palestinesi era stata allargata da 12 a 15 miglia nautiche, il massimo da
quando è in vigore l’embargo, per poi essere ridotta a 6 dopo la solita salva
di razzi. Ancora in queste ore i due presunti contendenti, al di là della
retorica d’occasione, cercano di frenarsi. Israele non ha ancora portato al
confine con Gaza le truppe di terra e non si registra alcuna mobilitazione dei
riservisti. Hamas non alza i toni e, in curiosa sintonia con Israele, tende
piuttosto a rigettare la responsabilità sulla Jihad Islamica, gruppo radicale
appoggiato dall’Iran con cui intrattiene da sempre rapporti a tratti amichevoli
e a tratti burrascosi. Ma è possibile che qualcuno possa lanciare centinaia di
razzi dalla Striscia senza che Hamas lo sappia o intervenga?
Se non fosse
che la gente muore davvero, potremmo pensare di trovarci dentro un gigantesco
gioco di specchi, in cui nulla è come sembra e nessuno è davvero chi dice di
essere. Resta una sola certezza. Il nostro mondo, sensibile alla causa di
qualunque minoranza, non può continuare a essere tanto indifferente verso la
causa dei palestinesi. Sappiamo che Hamas non è la risposta e che l’Autorità
palestinese di Abu Mazen è più un organismo di spartizione che di governo.
Sull’uno e sull’altra, e sulla loro inadeguatezza, ricade parte della
responsabilità per la facilità con cui a Netanyahu viene concesso di applicare
politiche militariste a sfondo razzista.
Ma comunque
la si pensi, è innegabile che i due milioni di palestinesi di Gaza non possono
restare chiusi in un pezzo di terra che ormai sta tra la riserva indiana e il
carcere. In Cisgiordania il problema è la continua erosione dello spazio
palestinese attraverso gli insediamenti israeliani illegali. Ma nella Striscia
il problema è più basico: sopravvivere in condizioni appena umane. Inutile
chiedersi, in questa situazione, che cosa succederà domani. Se nulla cambia
mentre l’Onu ci avverte che dal 2020 la Striscia sarà «invivibile», avremo
l’inevitabile ripetizione del passato. Altri missili, altri bombardamenti,
altri morti. Israele può anche credere che si possa andare avanti così: ha
guadagnato territorio e ha spazzato dal tavolo della diplomazia l’idea dei due
Stati, perché no? Ma al resto del mondo conviene? Siamo tutti d’accordo?
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